LA MAGIA DELLA FIABA
«La caratteristica della buona fiaba, del tipo elevato ovvero completo, è che per quanto terribili siano gli avvenimenti, per quanto spaventose o fantastiche le avventure, essa è in grado di provocare nel bambino o nell’adulto che ascolta, nel momento in cui si verifica il “capovolgimento”, un’interruzione del respiro, un sobbalzo del cuore (…)»
(Tolkien, Albero e Foglia)
Il sobbalzo nel cuore. Non si tratta della meraviglia un po’ tonta dei bambini di Povia, quelli che fanno “oooooh” e che hanno funestato le nostre orecchie un paio di anni fa.
È invece una meraviglia più sapiente, più antica. Ci ricorda un po’ i nani, i vecchi-bambini, dall’anima anziana e il cuore fanciullo, che estraggono cristalli dalla terre interiori, e che hanno bisogno di una Neve Bianca per dare senso e compimento al loro lavoro.
Quel sobbalzo di cui parla Tolkien si gioca all’interno del cuore, liberato dal recinto che tiene prigioniero il moto sottile che evade le porose atmosfere della materia per farsi scintilla pulviscolare, esplodendo in cielo come una stella.
Quel sobbalzo, oggi, diventa sempre più raro. Non c’è più un fuoco intorno al quale radunare la gente per raccontare storie e leggende.
Era lì, sotto un manto stellato, agli occhi di una luna accesa dal sole nascosto, che la danza delle ombre disegnava sui visi i racconti che gli anziani trasmettevano da bocca a orecchio. Da bocca a orecchio, nei secoli, perché i figli dei figli dei figli mantenessero vive quelle storie nate con la prima aurora.
Oggi il fuoco acceso nel bosco indica solo, nel migliore dei casi, un raduno di giovani scout. Nel peggiore, una mano criminale che ha volontariamente appiccato le fiamme.
Lì, intorno a quel fuoco, tanto tempo fa le storie che cominciavano con il “C’era una volta” prendevano forma, vivevano, come Pinocchio, di vita propria, sfuggendo perfino ai loro demiurghi per diventare carne, parola.
Oggi quelle fiabe sono quasi del tutto svanite, conservate attraverso i libri e qualche animazione in cui sfilaccia la facoltà di immaginare. Il libro non svolge la stessa funzione. Lo sapeva bene Platone, che metteva in guardia l’uomo dall’uso della parola scritta che rischiava di incatenare i significati, strozzandoli per la mancanza di aria, di soffio vitale, quel soffio che si tramanda, appunto, quando una bocca trasmette qualcosa a un orecchio. E’ la stessa bocca della mamma che racconta la fiaba al suo bambino.
Se la leggesse, quella fiaba perderebbe parte della sua magica polverina, come accade a Campanellino quando si indebolisce.
Certo, è più facile scorrere il dito sulle parole incantando il bambino che man mano crolla sul letto. Ma non è la stessa cosa.
La voce, il suono, il racconto orale mantengono ancora oggi quello stesso mistero di allora. Non ne siamo più consapevoli, però. Tuttavia è solo così che possiamo accendere ancora le stelle nei cieli interiori.
L’ho scoperto sulla mia pelle, con i miei nipotini.
Come tanti bambini, hanno moltissimi giochi. Lui, un esercito di uomini ragno. Lei, regni interi di bambole e animaletti pelosi. Giocano un po’ fra di loro, il pomeriggio, poi vengono sistemati davanti a un comodo televisore, dove un comodo telecomando errerà in cerca di un comodo cartone animato.
Ma quando apro un libro per leggere loro una fiaba, la festa dei sensi li fa sistemare, tutti eccitati, sulle mie gambe. Lo so, lo so che sono affamati di racconti. Così un giorno ho deciso di inventare le prime storie che mi venivano in mente. C’era la storia della principessina Trilli e del delfino coraggioso, per esempio. O quella di Buck e del suo orso. Raccontavo e vedevo le stelle esplodere nei loro occhi, come galassie pulsanti, affamate di vita. «Ancora, ancora, zia!». Ho dovuto ripeterle per parecchio tempo. Per giorni, mesi interi. A un certo punto avevo dimenticato la successione degli eventi (quando ti inventi di sana pianta una storia, non è detto che te la ricordi per sempre) ma loro no, se l’erano impressa con il marchio a fuoco. Sì, la memoria del fuoco agisce ancora oggi, danza, con le sue fiamme guizzanti, insieme all’oralità di racconti dispersi, che denunciano la vita frastagliata subita nei secoli, fatti prima di libri e poi di immagini animate, di televisori e computer, ma non ancora evasa da questa terra. Non ancora.
I miei racconti non possedevano certo la sapienza e il vigore delle fiabe antiche, ma vivevano la vita magica dell’oralità.
Quando, una sera, ho mostrato le stelle che come strade sterrate disegnavano curve nel cielo, si sono appassionati. Gliele ho narrate, poi ho appoggiato sulla falce lunare le storie della magia e delle fate, ho immaginato per loro mondi lontani e invisibili.
Gli occhioni si sgranavano, avidi di quella conoscenza remota. Volevano ingoiare con le pupille quelle parole, come se avessero due grandi bocche ai confini del naso, due buchi scuri pronti a far propria la materia impalpabile di quei racconti.
Eccola, la magia della fiaba. Viva, ancora oggi, in modi diversi.
Tocca a noi, ricostruire quel fuoco per tutti i bambini di oggi e di domani. Dobbiamo cercare la legna, accomodarci con una coperta intorno alle spalle, soffiare sulla brace svegliando le fiamme sopite.
Perché la tradizione orale non merita di essere seppellita per sempre. Ogni fiaba è rugiada del mattino per tutti i bambini.
I cartoni animati e i film possono in qualche modo aiutare, ma non sono in grado di sostituire l’incanto della fiaba narrata.
Incanto, incantamento, cantore. In questa epoca assediata dalla mancanza di tempo dobbiamo sforzarci per trovare lo spazio necessario al “sobbalzo del cuore”.
La fiaba è una soglia sul nostro cosmo interiore, è porta e chiave, occasione e stupore.
Non diventeremo mai esseri umani completi se non avremo imparato a conoscere il Bene e il Male. Dentro, non fuori di noi. E così se la strega ci spaventa piano piano ne riconosceremo la necessità affinché il Bene si compia. Sapremo che lei siamo noi, così come siamo anche la fata turchina.
Le forze che ci compongono tessono le nostre trame psichiche e quelle spirituali.
L’uomo antico ha usato il mito e la fiaba per farne la bussola della ricerca, l’orientamento che traccia un percorso preciso in cui si passa dall’ignoranza alla conoscenza, di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Anche se non ne siamo consapevoli, oggi usiamo ancora quei simboli traslocandoli al cinema e in televisione. Ma è l’uso cosciente che aiuta a uscire dalla grotta platonica per riconoscere le “vere” figure che crediamo di intercettare.
Le fiabe non sono solo per i bambini. Sono per tutti. Ma se non le abbiamo toccate da piccoli, il recupero nell’età adulta sarà più impegnativo. Mi viene in mente una bellissima leggenda africana, che racconta l’importanza dei bambini come legami celesti. Quando sono piccoli, la tribù deve trattarli benissimo perché altrimenti il bambino, che vive ancora sospeso fra terra e cielo, potrebbe scegliere il cielo. Ogni bambino violato, maltrattato, offeso, non “scenderà” mai nella materia rimanendo come un albero spoglio e privo di linfa.
Ecco, le fiabe sono la linfa che insegna al bambino la vita senza spezzare il filo di Arianna che lo lega ai cieli.
Molte di loro sono andate disperse, però molte altre possono essere ancora conservate e trasmesse.
Soprattutto, va conservata la suggestione di quel racconto da bocca a orecchio che provoca il sobbalzo del cuore.
Perché c’era una volta, sì. Ma c’è. E ci sarà.
Online il nuovo numero di Silmarillon. Un grazie a tutti i blogger che hanno partecipato con il loro contributo.
PENELOPE VA IN GUERRA
Oggi la donna non tesse più con pazienza la sua tela che suggella la fedeltà al letto nuziale e allo sposo. Oggi è chiamata a combattere. Forse, però, ha perso qualcosa…
Delle battaglie femministe ho rispetto, ma certe postume esasperazioni hanno creato una controtendenza opposta, quella, cioè, di una donna eccessivamente marziale che ha ha smarrito il suo contatto con Venere.
"L’utero è mio e lo gestico io", gridavano, in quegli anni, le sorelle dei Porci con le ali.
Giustissimo. Solo che oggi, più che gli uteri, prosperano nel mondo femminile le sfere. E non mi riferisco certo a quelle di cristallo, di una Circe o una Morgana.
La donna eccessivamente maschile, figlia di Marte ma non di Venere, smarrisce i misteri della sua coppa, spezzando il contatto con le magiche notti lunari che tessono i segreti di Ecate.
Non è più accoglienza, custode del focolare (cioè custode del Fuoco, secondo quel senso profondo che gli antichi romani conoscevano bene), morbido riposo per il guerriero.
E’ guerriera lei stessa, adesso. Ma le troppe battaglie rischiano di virilizzare la radice delle sue arcane essenze. Il suo fiore nascosto ha bisogno anche di soavità, di carezze, di stelle.
Che fare dunque? Ahimé, giro invano da anni intorno a questo rovello, ma non ho trovato una risposta compiuta.
Penso che si debba trovare una giusta via fra le tante figure del passato, sottomesse, dominate, incapaci di guidare la propria vita, donne mute, spesso ferite, domate dalle culture maschili, e questa nuova figura di donna virago, caricatura a volte grottesca del maschio che ha scalzato dal trono dell’Imperatore (riducendolo spesso a una pallido fantoccio in cerca di Mamma), Medusa trionfante che si è riappropriata del capo mozzato.
Certe tensioni le sperimento sulla mia pelle. Tempo fa vivevo solo della mia scrittura e della mia capacità di comunicare, di avere idee, di realizzarle per altri.
Adesso mi trovo a dover gestire una mia (pur piccola) impresa. Per un lungo periodo ho rifiutato la parola "imprenditrice", continuando a ribadire che ero una "libera professionista". Eppure, a essere onesti, chi realizza un prodotto con il proprio marchio, organizzando persone, incastri, allestendo la catena di montaggio che segna l’alfa e l’omega di ciò che sta facendo, di fatto è un imprenditore. Ecco, mio malgrado sono diventata anche io imprenditrice.
E mi trovo a fare la guerra, ogni giorno, come le Amazzoni. Come tante donne che, come me, vivono nel mercato libero realizzando la loro professione. Il fatto è che quando passi dalla direzione di altrui agenzie a un’agenzia tua…tutto cambia. E la guerra si fa ancora più aspra. Marte incalza, reclama. Attacco e difesa. Difesa e attacco.
Così, ogni giorno, vesto la mia armatura e combatto. Cosa usa, la donna, in questo caso? Usa Marte, appunto. Ma senza Luna e senza Venere la donna è perduta. Davvero.
Così la sera, quando torno a casa, riaccendo le stelle del mio fiore segreto. Accarezzo il vaso, mi prendo cura della coppa, pulisco le armi, le metto in soffitta. Cerco di nuovo la circolarità dell’accoglienza per smussare gli spigoli della giornata.
Di notte, quando Apollo va a dormire, chiamo ancora la Luna in mio soccorso.
E spero che Venere, al suo sorgere e al suo morire, mi trasmetta sempre il soffio della sua appassionata virtù d’amore.
Penelope, io, non lo sono mai stata. Ma in guerra ci vado. Con la consapevolezza di non perdere mai quel filo di Arianna che mi lega al cielo del femminile.
Scarna è la vita di quelle donne che dimenticano l’essenza del femminile.
Femminile e maschile si sposano anche in una sola persona. Non a caso la Woolf parlava del vero scrittore come di colui che realizza "l’androgine" usando entrambe le valenze di cui è fatto il suo essere.
Inutile, oggi, scimmiottare i maschi, così come sono superate certe indolenze femmili.
Il secondo sesso, come lo chiama Simone de Beauvoir, non è secondo a nessuno. Perché allora agitarsi tanto fino a diventare maschera, macchietta, icona plastificata?
Il ghetto femminile putroppo sussiste. Le battaglie degli anni 70 hanno lasciato doni preziosi, ma c’è un tempo per tutto, anche per il lasciar andare, il mollare la presa su ciò che ieri fu utile e oggi è di ostacolo. "Le donne per le donne", "fatto dalle donne", "quando le donne lavorano con altre donne"… Non è più questo il tempo. Non più.
La solidarietà femminile è sempre benvenuta, tuttavia lo sbandieramento, l’ostentazione della "sorellanza" celano in realtà la insidiosa – e voluta – diffidenza verso una reale integrazione.
Insomma, questo "Donne per le donne, contro tutti" mi sa tanto di prigione dorata. Così, allo stesso modo trovo triste la "donna-maschio", quella che fa a gara in continuazione con il "sesso forte" (che di forte, oggi, ha ben poco…).
Io credo che il femminile debba essere "primo fra uguali", come accadeva alla tavola Rotonda di Artù.
Credo che la sfida vera, per la donna, oggi, sia quella di vivere appieno il suo esser donna, che si manifesta anche nell’essere serenamente integrata nel mondo maschile, con cui vive e lavora (quando non mette su anche famiglia).
Le "donne contro i maschi" , le "donne per le donne" sono sempre mutilate. Manca sempre qualcosa. Cosa? Quel luogo esatto in cui ci si affranca da antichi vizi senza cadere nella trappola della tendenza reattiva, esattamente uguale e opposta alla prima.
Difficile? Sì. Ma non troppo.
La vera battaglia da vincere è quella di una finalmente raggiunta serenità. Smessi gli abiti dimostrativi, l’Amazzone figlia di Marte combatte di giorno ma sa che la sera, finito il lavoro, chiederà a Nausicaa di venirla a trovare.
Sempre consapevole che se per lavorare come libere professioniste o imprenditrici è necessario usare la lancia e lo scudo, è altrettanto importante maneggiare balsami e lasciar frusciare le gonne.
In questo equilibrio, la bilancia del femminino finalmente troverà forse il suo peso perfetto.
Auguriamocelo…
RICERCHE E STUPORI
"Perché pensare / a rinunciare / che pazza idea m’è venuta/ se seguito così/ son perduta
/ Cuore mio torna qui".
Non appena pronunciò queste parole il piccolo cuore rosso, compagno di mille avventure, le riapparve davanti, gioioso e scavezzacollo come non mai. La abbracciò e la condusse in una travolgente discesa attraverso tutto il mondo, piena d’emozioni,persone, esperienze. Ma questa volta accadde una cosa terribile. La donna si annoiò. Arrivati giù disse sbadigliando al cuore:
"Piccolo cuore/ per mille posti,/ mille paesaggi / fantasmi d’amore m’hai rivelato./ Caro mi costi!/ Solo miraggi / m’hai propinato / Sono partita per provare / e non so cosa sia arrivare"
Il piccolo cuore, stavolta, s’infuriò come una bestia e, inseguito dagli sbadigli della donna, sparì negli abissi di una discesa senza fine, ululando.
In cima a una scala lunghissima, confuso nella bruma dorata del mattino, apparve immediatamente un cuore smisurato. Lei lo riconobbe e questa volta non si spaventò, ma non poté evitare di mettersi a piangere quando si accorse che le batteva nel petto. Il problema, questa volta, era raggiungerlo.
Ma aveva deciso. Sudando e tremando, stupendosi di se stessa e in mezzo a mille dubbi, salì il primo gradino.
(La donna che cercava il suo cuore, da Storia di un Filosofo molto stanco, Oz-Nahàli)
Questo è uno dei racconti contenuti nel bellissimo libro Storia di un Filosofo molto stanco, pubblicato dalla casa editrice Simmetria.
La protagonista è una donna, ma potrebbe essere chiunque.
Cercare il cuore. Bella sfida. Le tradizioni antiche parlano di due cuori, l’uno, emozionale, si scuote e vive nel contatto con le passioni; l’altro, sottile, impalpabile, si ciba degli spazi metafisici in cui ritrova il senso e la radice della sua esistenza. Insomma, un cuore e un Cuore.
Il secondo, il Cuore, è ben più difficile da trovare. Se lo trovassimo, avremmo trovato il Graal. Ma non siamo Galahad. Semmai un po’ Lancillotto. Almeno io. Mi riconosco in Lancillotto e nella furibonda passione per la bella moglie di Artù. Sarà per quella passione che non troverà il Graal, cioè intercetterà il cuo Cuore ma non vi annegherà (non a caso nel racconto la donna si spaventa quando inizia a percorrerne i gradini).
Anche io, come Lancillotto, aspiro a una Cerca ma mi infrango come un’onda sullo scoglio delle mie passioni.
Tesa fra le due corde del cielo e della terra, a volte rischio di frantumarmi invece di scagliare la freccia.
Per me la vita è Anima e cozze come ho già detto, quasi un anno fa, in un post.
Ma non riesco a smettere di pensare a quel cuore, come la donna di questo racconto. Mi assedia, mi rincorre, mi smaschera. Si allontana e riprende terreno.
Perché per quanto diverse siano le nostre aspirazioni, o il nostro sistema di "credenze", abbiamo tutti provato la senzazione che esista quel luogo dento di noi. E chissenfrega se qualcuno lo chiama anima, Dio o Intelligenza Universale. Non mi interessano "i nomi". Mi interessa l’essenza. Come quella della rosa di cui parla la Giulietta di Shakespeare.
La storia della donna che cerca il suo cuore è la storia di tutti gli uomini che si sfidano per provare a entrare in profondità.
Se si inciampa ogni volta che si prova a salire un gradino, poco importa.
Cascando, si impara. Sempre. O quasi.
L’ABC DEL MORIRE
Questo è quel che la gioventù deve capire:
le ragazze, l’amore e la vita.
L’avere e il non avere,
il prendere e il dare,
e il tempo triste del non sapere.
Questo è ciò che colt tempo bisogna imparare:
l’ABC del morire.
Del partire senza partire,
dell’amare e dell’abbandonare.
E il peso insopportabile del sapere.
(E.B. White da Distacchi, di Judith Viorst)
L’Abc del morire. Non è facile. Ci penso spesso. Per i Tibetani tutta la vita non consiste che nella preparazione alla morte, al famoso bardo magnificamente descritto nel Libro Tibetano dei Morti. Racconta delll’anima che combatte la sua partita per non smarrirsi nel luna park di luci, immagini e colori: deve riconoscersi nella luce radiante per volare via e non tornar più sulla terra.
Non so, io, se ne sarò capace. Sono così intrisa di desideri e passioni. Così innamorata degli odori, dei suoni e dei colori, di quelle giornate magiche in cui ti sembra che il cielo sopra la tua testa sconfini nel cielo di tutto il pianeta, e allora il cuore fa un balzo e il respiro allarga i polmoni e li tende fino ai confini del mondo. In quei momenti, quegli ispirati momenti, penso a come il mio bardo sarà fragile, sbilenco, appeso alla terra e ai miei attaccamenti irrisolti.
L’Abc del morire. In effetti Pessoa diceva: " Siamo convinti di vivere ma siamo morti" alludendo, cioè, al velo di maya, all’illusione di vita mentre in realtà la coscienza profonda sta dormendo, come morta. Del resto, il sonno si ferma sul limitare della morte.
Se si legge il Libro Tibetano dei Morti, si scopre anche come per alcune tradizioni la morte somigli infatti al sonno, regolato da quelle immagini illusorie che sono i nostri sogni.
Eppure. Eppure se fosse così facile prepararsi a morire affronteremmo il passaggio tra i mondi con cuore spavaldo e occhio sincero.
Non lo è, invece. Strilliamo e ci dimeniamo e facciamo tutto il casino del mondo, per non morire.
Non siamo mica come i gatti, che silenziosi, in punto di morte, si rannicchiano da qualche parte aspettando l’attimo in cui il respiro si arresta. Lo fanno con naturalezza. Ecco, loro sì, loro sembra abbiano letto il Libro dei Morti.
Ma io no, non ce la faccio. So che alla fine, anche con la valigia in mano, mi guarderò indietro tremante, legata a questa terra che mi ha generosamente ospitato. Sarò come altre migliaia di uomini, che arrivano impreparati.
Pazienza. Mi allenerò. Ma allo stesso tempo voglio anche assaporare ogni morso di vita. Perché vivo sospesa fra il Cielo e la Terra. Non appartengo né all’uno né all’altra. Appartengo all’uno e all’altra.
In quei momenti speciali, quelli in cui guardo fuori e mi sembra che tutto il mondo stia dentro una foglia o nel sorriso liquido di una bambina, penso che l’Abc del morire stia anche nell’imparare a vivere.
E mi domando: avrò mai imparato davvero?
IL COMPLESSO DI MARILYN
La tragica storia di Marilyn mi ha sempre colpito per il contrasto che animava questa donna apparentemente così forte, brillante, ma in realtà fragile come un passero, affamata di un amore in qualche modo sempre negato. La sua storia traccia una linea di confine fra il mondo interiore, agitato dalle acque tempestose di un antico passato di violenze e abbandoni, e il successo pubblico della diva, della donna bellissima, sexy, desiderata da tutti.
La ferita del disamore non si è mai cucita, malgrado il successo, la bellezza, la gloria. Come spesso accade alle donne ferite, Marilyn ha nascosto la sua valigia piena di dolori e l’ha abbandonata in una soffitta, ha preso la chiave e l’ha buttata via. Ha nascosto la bambina fragile, brutta, tremante, l’ha vestita con abiti fruscianti da donna, l’ha truccata, rossetto per baciare il futuro e tanto rimmel da spazzare via i ricordi con un battito di ciglia .
Ma non è bastato. Il passato torna sempre.
La maschera dell’ochetta sexy, della vamp svampita ha fallito, come accade prima o poi con tutti i travestimenti.
Quando una donna si maschera, quando assume una caricatura del femminile può anche avere successo (lei ne avuto tantissimo, ancora oggi è un’icona appesa alla memoria di molti) ma sul suo tallone d’Achille prima o poi volerà la freccia che la distruggerà.
E questa freccia ha sempre e solo un nome, l’amore. Perché l’amore, come diceva Jung, ha una carica terribile in quanto ci rende nudi a noi stessi, liberando l’inconscio come nient’altro, al mondo, riesce a fare.
E infatti fu lì che le sue ferite sanguinarono ancora. Fu nel disperato amore che la legò a quel Kennedy che mai l’avrebbe sposata, e che la fece riparare verso il fratello, futile consolazione di un amore alla deriva appena fuori da un porto.
Forse Marilyn Monroe è morta per questo, come sembrano testimoniare anche le scoperte più recenti. O forse no. Di certo, il rapporto con Kennedy è stato il suo grande dolore.
Ogni volta che una bellissima donna si consegna al ruolo di amante penso a quello che io chiamo “il complesso di Marilyn”. E’ il destino delle donne a cui non manca nessun talento ma che sono costrette a giocare tutto sul filo dell’eros, della donna scintillante da visitare durante la sera, mordendola come si fa con un panino durante una gita.
Il contraltare ideale per la moglie precisa, austera, elegante, padrona di un focolare che governa in modo impeccabile (maestosamente incarnata, come figura archetipale, proprio dalla perfezione di Jackie Kennedy). Moglie che possiede il ventre (dà i figli al marito) e l’accoglienza devota, insieme a quell’insieme di buone maniere che rendono ogni marito felice. Solo che il marito, spesso, fugge via in cerca di una Marilyn.
Ma le donne che hanno il complesso di Marilyn in fondo non nutrono abbastanza fiducia in sé stesse per competere con l’imago mulier, e usano la sensualità per difendere la loro fragilità, nascondendo volentieri l’intelligenza ferita dietro risatine e ironia.
Quanto dolore, in realtà, in queste amanti eterne, per sempre costrette a svanire nella chimera del sogno. Mutilate della speranza di una vita alla luce del sole, vivono nelle ombre notturne, si muovono come pipistrelli nelle notti senza luna adorando le stelle che come coperte nascondno lo scandalo di un desiderio proibito.
Sono tante, queste donne. Sono sempre esistite.
Rappresentano l’incarnazione di Lilith, la Eva oscura, e di Medusa, di Ecate. Sono l’ombra indicibile di molte san(t)e famiglie, la memoria scomoda come un rimorso, l’eco lontana dei rumori di un mondo pubblicamente approvato. Alcune eroine della letteratura lo hanno sfidato finoa soccombere, come Emma Bovary, come Anna Karenina.
Splendide figure che mescolano amarezza e ammirazione.
Sposate, loro. Dunque moglie che decidono di tradire. Ma anche loro infelici, rese schiave da un matrimonio grigio in cui irrompe l’amore che, guarda caso, arriva a cavallo di un principe piuttosto meschino, incapace di generosità vera, di autentico dono. Anche lui un uomo mascherato, in fondo, che dietro l’esibizione del fascino nasconde i suoi limiti molto materici, pesanti, che gravano come pietre sull’amante conquistata.
Mi fanno tanta tenerezza, le Marilyn di questa terra. Quelle che non si sono sposate, come come Emma o Anna, e che dunque non hanno neanche potuto provare il brivido di una rivoluzione, di una scucitura alla regola coniugale che le rendeva infelici.
Ne ammiro il disperato coraggio del sogno, la resistenza infinita con cui attaccano i pezzi sparsi dei loro incontri d’amore cullandoli, cantandogli una ninna nanna ogni sera.
Spesso, però, queste donne meriterebbero una vita migliore. Ma non sanno confrontarsi con l’ombra per vincerla. La sfida è troppo penosa. Lei, la Madre-Moglie che domina il loro inconscio si vendicherebbe annullandole. O almeno, così credono. E allora si accontentano di riparare in un quartiere mentre la vita scorre intera nella città di un’esistenza.
Il complesso di Marilyn vive e cresce nelle ferite, matura nel buio, come un frutto inverso che si nutre di luna e di muschio.
Mi torna in mente un libro difficile e allo stesso affascinante, Perversioni femminili- la tentazione di Emma Bovary, in cui la Kaplan racconta lo strazio di queste donne che si travestono per apparire più forti ma che in realtà non sopportano lo sguardo tagliente della verità, quella nascosta all’interno del cuore, quella che le fa smarrire, amanti sempiterne, abbandonandole al loro destino che compie il segreto amore.
Con più coraggio, forse, molte Marylin avrebbero vissuto una via piena. Perché ciò che conta non è la gloria, ma solo l’amore dato e ricevuto. E la nostra capacità di sfidare le ombre per volare via libere in mare aperto.
L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige, (135)
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova; (138)
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne. (141)
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa, (144)
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(Dante, Divina Commedia, Paradiso XXXIII)
L’amor che move il sole e l’altre stelle. A volte penso che sia tutto così complicato e allo stesso tempo terribilmente semplice.
L’amor che move il sole e l’altre stelle. L’unico trucco per capire davvero il mondo.
Tutto è perché è amore. Esiste solo per quello.
E allora ogni vanità, ogni gloria, ogni ambizione e ogni rancore cadono come foglie d’autunno.
In fondo, quando saremo vecchi, che resterà? Forse i soldi che avremo messo da parte? O le case, le scarpe, i vestiti?
Le conquiste professionali su cui ci saremo arrampicati?
Non so. Mi sembra, a volte, che tutti noi ci perdiamo nella svagata effimeratezza di un’illusione.
Perché quando ci guarderemo indietro, resterà solo quello che avremo scambiato.
Perfino adesso, "nel mezzo del cammin della mia vita", se guardo il pezzo di strada percorso finora la memoria forma immagini precise, nitide, minimaliste. Quelle immagini non raccontano di mestieri brillanti e successi (anche se ci sono stati, eccome), nè evocano soddisfazioni di desideri. Nè si schierano dalla parte dei libri letti, per quanto le soddisfazioni intellettuali siano importanti. Perfino dei viaggi trattengono uno stupore veloce, che scompare con il guizzar della sera.
Le immagini che resistono sono invece piccole. Semplici. Lievi eppure incisive come una carezza.
Hanno il colore degli occhi del mio cane che correva al mare inseguendo un gabbiano. E il sorriso di un viso antico, amato, remoto e allo stesso tempo ancora vivo nella danza immobile del tempo che si arresta quando per un istante ne rallentiamo la ruota.
Sono una carezza, una mano, un abbraccio. Piccole meraviglie del quotidiano in cui come incenso al cielo vola un ricordo stabile, l’unico che valga la pena di ricordare.
In questi dettagli c’è sempre qualcuno. Un prossimo a volte lontano, altre volte…troppo prossimo. Ma è in quelle relazioni che ho scoperto, e dubitato, del senso della mia esistenza. Lì ho intercettato il passaggio verso un mistero per me troppo grande.
Il successo è cosa effimera. Ecco, infatti, è "successo", participio passato. Accaduto. Ieri.
Invece l’amore non è mai "successo" ma si accade, così, semplicemente. Ora, ieri, sempre. Perché, per quanti sforzi oggi facciamo per inseguire le chimere comode delle nostre illusioni di onnipotenza, di implacabile antropocentrismo, in fondo sappiamo che siamo misera cosa senza quell’amor che move il sole e l’altre stelle.
Ogni moto in cui si incarna la vita è atto d’amore, ed è quell’amore che renderà gravida oppure sterile la nostra vecchiaia.
Dovremmo ricordarcelo più spesso, in questo presente confuso quanto convulso, sempre all’inseguimento di un che senza perché.
Chiudere gli occhi un momento pensando "quando ho vissuto davvero?" mostra ciò che conta realmente. E ci si supisce, magari, del minimalismo dei momenti davvero importanti.
Per il resto del tempo, sfumiamo in questo grande universo ingoiati dalla presunzione della nostra importanza.
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