SPECCHIO SPECCHIO DELLE MIE BRAME
"Dal fondo remoto del corridoio, lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Così Jorge Luis Borges.
"Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze più di quanto si debbano lasciare in giro libretti di assegni aperti o lterre in cui si confessano orrendi delitti", aggiunge Virginia Woolf.
E Isaac B.Singer: "Quando un demone è stanco di rincorrere il tempo passato o di girare sulle pale di un mulino a vento, può prendere dimora in uno specchio e rimanervi appostato come un ragno, con la certezza che la mosca gli capiterà a tiro"
(Alfonso Lentini, Piccolo inventario degli specchi, Stampa Alternativa)
"Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?" domanda la strega di Biancaneve. Lei sa, sa bene che lo specchio ha un grande potere. E vive di vita propria, autonoma da chi vi si ammira.
Se è vero che lo specchio non è solo strumento luciferino (quello in cui Borges incrocia l’orrore della moltiplicazione), luogo in cui l’Io ammira sé stesso, come fa Narciso fino a smarrirsi quando si specchia nella superficie dell’acqua, è anche vero che da sempre evoca atmosfere umbratili, notturne, connesse con la magia.
Lo specchio è magia, porta di accesso verso altri mondi?
Pare che Cagliostro, discussa figura vissuta alla fine dell’ottocento, ne conoscesse bene i misteri. La superficie riflettente sarebbe in grado, per alcuni, di proiettare l’uomo fuori dalla materia, verso le dimensioni più rarefatte.
Chissà.
Le fiabe, comunque, ne hanno narrato il magico mondo, spesso infero, legato al Male, al mondo del sottosuolo.
Il suo fascino è certamente innegabile, così come la sua potenza evocativa. Ho visto persone coltissime, razionali, attraversate da un’ombra davanti allo specchio che si rompeva, evocando, come narra la tradizione, sette anni di miseria e sfortuna.
Specchi rotti, specchi interi, specchi magici.
L’uomo che si trova davanti all’immagine riflessa (in cui le direzioni si invertono, interessante) guarda davvero?
Tante volte ho pensato che senza gli specchi saremmo costretti a guardarci davvero nell’unico luogo capace di riflettere davvero il senso e il moto della nostra esistenza, quello, cioè, del nostro prossimo.
Ma quanto è difficile.
Eppure, una parte di noi conosce realmente l’evanescenza di quel doppio che ogni mattina ci saluta, magari un po’ stropicciato, appena mettiamo piede nel nostro bagno.
Ma preferiamo ignorarla, fissandoci sui dettagli che ci rassicurano, che raccontano "la materia" della nostra esistenza.
C’è chi ne fa un feticcio, o addirittura una morbosa estensione di sé. Forse ci rassicura, nascondendo le nostre "brutture" dietro l’aspetto brillante che ostentiamo pubblicamente.
Ci mette confini (non avere confini spaventa), adulando l’Io che vuole farla, sempre, da padrone.
E se invece fuggissimo, come fa l’ombra birichina di Peter Pan?
I LUOGHI DELLE PAROLE
Sono le parole le vere colpevoli. Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. (…) La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non viono nei dizionari, vivono nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E’ indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. (…) Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che sente e che pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. (…) E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.
E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il bisogno di cambiare. Perché la verità che cercano di affermare ha tante facce. (…) E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che noi ci concediamo una pausa, vogliono che diventiamo incoscienti, Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
(Virginia Woolf, Il mestiere delle parole – da Ore in Biblioteca e altri saggi)
Questo brano mi ha accompagnato per anni, e continua a farlo. Ci torno in modo misterioso, come quei richiami di cui non sai l’origine ma conosci la destinazione. Trovo che ci sia tanta "verità" in questa esposizione così palpitante, vigorosa, precisa. La Woolf riesce a penetrare nella sua grotta per avvicinarsi, trovarle, lasciarsi avvolgere. Ma ci vuole coraggio.
Il passaggio sulla grotta mi ha richiamato alla mente>>un post di poco tempo fa in cui raccontavo dell’avventura, appunto, in una grotta. Ecco, mi immagino le parole come tanti pipistrelli che abitano, a testa in giù (sì, perchè "quelle" parole di cui parla lei sono rovesciate rispetto alla norma che governa la superficie solare) i nostri sottosuoli. Possono essere trovate solo al buio, e solo se ci lasciamo prendere e non tentiamo di catturare. Sono queste le parole che fanno la differenza tra i capolavori dell’eternità e il ciarpame di una stagione.
Il genio che le anima esce fuori solo se sfreghiamo il nostro luogo interiore, facendoci così piccoli da scomparire, anche se solo per un istante. Loro, in quel momento, abbandonano la convessità oscura così cara e familiare uscendo fuori, sopra la carta, per sorvolare i nostri pensieri.
Il problema è che oggi l’uomo ha costruito un sacco di inutili scuole per insegnare il setaccio della parola (alludo alla pestilenziale profusione di corsi per imparare a scrivere romanzi e racconti) che, arenata sotto un sole cocente – il sole delle regolette e delle tecniche di pronto uso – preferisce morire e tacere piuttosto che servire padroni improbabili.
Le parole, in fondo, somigliano ai gatti. Non hanno padroni. Non tollerano regimi e costrizioni. Si può solo convivere, mai dominare. Siamo noi, gli ospiti di questo salotto interiore. Mai loro.
Chissà, forse è per questo che molti scrittori hanno sempre un gatto vicino (un po’ come i maghi e le streghe).
Purtroppo la scuola le uccide, le parole. Nel migliore dei casi, attenta alla loro salute.
La grammatica scolastica è infatti il sepolcro di ogni parola; ne succhia la linfa vitale, ne rinchiude il moto libero costringendole a un allevamento in batteria.
La scrittura vera, quella che diventa capolavoro, tensione narrativa, spirito stesso di ogni letteratura di ieri e di oggi, è sempre scaturita da un’insubordinazione.
Qualcuno, ieri come oggi, ha chiuso le regole nel loro recinto, poi è andato nella sua caverna e ha spento la torcia, liberando il volo umbratile, notturno, caotico e allo stesso tempo preciso di quelle creature.
Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
Da quel volo nasce lo stupore, la meraviglia dei matrimoni perfetti fra le parole.
Virgina Woolf ha celebrato questo matrimonio più e più volte nella sua vita.
La "pazza", come si faceva chiamare, penetrava là dove le nozze si compiono.
Le parole non vivono nei dizionari, vivono nella nostra mente.
Ecco perché sono più difficili da avvicinare. Bisogna accettarne l’ambiguità. E la mobilità.
I puristi vorrebbero fermare la lingua, ma è come voler arrestare quel mondo che il demiurgo un giorno ha fatto ruotare.
Sarebbe triste, se non fosse impossibile. Mi fa pensare, questa immagine, a quelle farfalle meravigliose trafitte da uno spillo e infilate in rassegna in una scatola, a far mostra di sé e della bellezza che fu loro e solo loro, miseramente paralizzata (l’imbalsamazione è paralisi, in fondo) dall’uomo che di tutto si appropria tranne dell’anima, sua e della vita che lo circonda:
odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura
Chi scrive cnosce benissimo il tormento della ricerca infruttuosa, lo sconforto dei momenti "da dizionario", quelli in cui la pietra della ragione copre l’ingresso nella caverna.
In questi momenti si possono certamente scrivere cose belle, intelligenti perfino, e interessanti. Ma saranno come quelle farfalle morte.
Di ben altro tenore è il momento in cui la caverna lascia volare via i suoi tesori. Se ne riconosce il sapore, il suono, il colore. Sono momenti magari semplici, come quando Borges scrive: "Camminavo a Buenos Aires in una vacanza serenissima della mente" o certamente più intensi, evocativi, come quando il colonnello Buendìa "ricorda quel pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio".
Ma sono fatti della stessa natura. Provengono dalla stessa scintilla.
Il cacciatore di parole non deve cacciare nulla. Deve solo tacere e ascoltare.
ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso
L’ispirazione dalla quale provengono nasce dal caso, dall’incontro fortuito. È fiamma improvvisa che guizza e scompare, lasciando una traccia bella.
Meno si cercano, le parole, più occasioni abbiamo di lasciarci avvicinare.
Solo così saremo in grado di svegliare il cuore e la mente dal suo consueto torpore.
Dietro le parole, poi, inizia un’altra grande avventura.
Ma è già tanto annusarne il profumo fino ai confini del visibile mondo.
IL REGALO DELL’ANGELO
Mi è sempre piaciuto, fin da bambina, immaginare l’angelo custode.
Ricordo come se fosse adesso, in questo istante preciso, la ricerca spasmodica che facevo. Volevo trovarlo, volevo trovare il mio angelo custode.
Lo cercavo ovunque. Avrò avuto sei anni, in quel tempo bizzarro che scorre fermo, scosso da entusiasmi e tremori.
Il mio chiodo fisso era lui: l’angelo.
La mamma diceva che era il mio custode, che stava sempre con me. Perché non riuscivo a vederlo?
Così, per fregarlo, mentre camminavo all’improvviso giravo di scatto la testa. Prima e destra, poi a sinistra. Niente. Lui non c’era. Era più veloce di me, il birichino. E riusciva sempre a nascondersi.
L’ho cercato invano, l’ho cercato per anni.
Quando sono cresciuta, la mamma mi ha detto che non era poi così sicura dell’esistenza dell’angelo.
Forse era per questo che nella mia famiglia nessuno andava alla messa, la domenica mattina. Perché gli angeli non esistevano.
Sempre in quel periodo scoprii che tutti i regali che radunavo e impacchettavo di giorno, sistemandoli sul davanzale del terrazzino prima di coricarmi, non se li prendeva Dio ma la mamma. Li rimetteva a posto dicendomi che lui li aveva apprezzati, che erano piaciuti. E io ero tutta contenta.
Cosa regalavo? Scatole, bambole, nastri…
Ma non era lui a prenderli, era la mamma.
Così, a un certo punto, ero orfana di un angelo e di un dio.
Poi mi sono allontanata dalla chiesa, crescendo ancora, e dopo qualche strimpellata di chitarra con i boy scout ho deciso che ero troppo peccatrice per proseguire, che Maddalena mi stava più simpatica di Maria e che i ragazzi mi piacevano troppo per evitare incontri ravvicinati. In più la Storia dei libri di scuola additava la chiesa mostrandomi tutti i suoi errori. Fuggi a gambe levate.
Ma dell’angelo birichino ho sempre conservato il nitore di una memoria stabile, sempre presente.
Finchè un giorno, tanti anni dopo, in un momento fragile, uno di quei momenti che sotterrano l’anima e piegano il cuore, all’improvviso ho sentito una carezza invisibile sfiorare la pelle. Sarà stata suggestione, sicuramente, ma ho sentito il mio angelo.
Anche se la finestra era chiusa quel piccolo soffio di vento che premeva piano piano sulla carne si è fatto corpo, presenza, sostegno.
Dire di più non so. Ma in quel momento ho pensato a quante volte, tanti anni prima, avevo provato a fargli tana in tutti i modi. E adesso eccolo lì, non cercato, non richiesto, a bussare sulla mia spalla all’improvviso.
Non lo attendevo, avevo smesso di attenderlo. E lui è invece arrivato.
Birichino. Come sempre.
IL BUON LETTORE
Una sera, in un remoto college di provincia, dov’ero capitato in occasione di un giro di conferenze che si era prolungato oltre il previsto, proposi un piccolo quiz; su dieci definizioni del lettore, invitai gli studenti a scegliere quattro risposte che, messe assieme, indicassero i requisiti del buon lettore. Ho smarrito quell’elenco, ma, per quanto ricordo, le definizioni erano più o meno queste. Un buon lettore dovrebbe:
1.appartenere a un club del libro
2. identificarsi con l’eroe o l’eroina
3.concentrarsi sull’aspetto socio-economico
4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha
5. aver visto il film tratto dal libro
6. essere un autore in erba
7. avere immaginazione
8. avere memoria
9. avere un dizionario
10. avere un certo senso artistico
Gli studenti si mostrarono in massima parte favorevoli all’identificazione emotiva, all’azione e all’aspetto socioeconomico o storico. Ma, naturalmente, come voi avete intuito, il buon lettore è chi ha immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l’occasione.
(Vladimir Nabokov, Lezioni di Letteratura)
E noi, che lettori siamo?
Per quindici anni ho fatto della lettura (e della scrittura) il mio mestiere. Prima una rivista culturale, poi un’agenzia letteraria e una nuova rivista di informazione editoriale, ora una rivista online e uno studio di editoria e comunicazione…
E sempre, in questi anni, ho letto. Consulenze editoriali, editing di romanzi, recensioni…
Mi interrogo da quindici anni sul famoso "buon lettore". Su come dovrebbe essere. E ha ragione lui, ha ragione Nabokov, il buon lettore deve avere immaginazione e disciplina. Usando le parole di Borges, un altro gigante della letteratura, direi che deve essere "algebra e fuoco". Sì, algebra e fuoco. Possedere, cioè, il rigore senza però smarrire il sentimento, la pelle d’anima che sconfina nel mondo, che palpita dondolandosi sulle parole.
Le letture cerebrali, quelle che innamorano solo la mente, non approdano a nulla. Se ne stanno lì, con le loro belle paroline pettinate (odio le parole pettinate), tutte in fila, organizzate come soldatini.
La mente deve essere corrosa, deve incrociare, sulla sua rotta, un grimaldello che ne scardini la fortezza, arroccata intorno alla logica, per introdurre un brivido, quel famoso "brivido alla spina dorsale" di cui parla lo stesso Nabokov.
Senza quel brivido non c’è nessuna buona lettura. Nessun lettore.
Questo non significa votarsi esclusivamente alla pancia, al mondo emozionale. Occorre trovare il cuore, luogo di sintesi e transito del nostro nord e del nostro sud. Occorre farlo anche nella lettura.
La lettura professionale è difficile, impegnativa. Devo scansare i mie gusti, mollare gli ormeggi della mia estetica per navigare acque sconosciute, ignote, tese verso orizzonti che non mi corrispondono. Ma devo farlo, non posso confinarmi nell’orticello privato delle mie inclinazioni.
Cercare di essere oggettivi. Si può essere mai realmente oggettivi, anche davanti a un libro? Ci sarà sempre uno scampolo di proiezione, un residuo persistente che dice di me, che mette me nel giudizio sul testo.
Eppure devo tentare di essere imparziale, come farebbe un giudice. Ma chi sono io per giudicare un libro? Il peso della lettura professionale, dopo anni, vorrebbe liberarsi dei trucchi del mestiere per respirare di nuovo l’ossigeno della libertà. Libertà di scegliere secondo i miei gusti, le mie convenienti o sconvenienti passioni, poco importa.
Forse è per questo che mi sto ritirando dalle consulenze editoriali, che sto concentrando la mia attenzione solo sul giornalismo, mia antica passione, origine e ritorno di ogni perlustrazione.
Forse voglio tornare – e in modo definitivo – a essere una lettrice qualunque. Una lettrice che non è pagata per leggere, che non deve trovare refusi, lavorare sul testo o scrivere una quarta di copertina. Nè deve elaborare una scheda di valutazione infrangendo il sogno di un aspirante scrittore.
Insomma, voglio tornare a leggere accartocciata sul mio divano, con la pioggia che cade dalla finestra, tic tic tic, il gatto accoccolato nell’incavo delle ginocchia, il plaid giallo che gira intorno come una nuova soffice.
Voglio leggere così, in modo sparpagliato, senza obblighi e senza orari. Senza che nessuno mi chieda cosa ho letto, o pretenda un resoconto professionale.
Libri di nuovo clandestini, confidenti privati, depositi di sospiri remoti, battiti d’ala di sincronie improvvise nelle quali un altro mondo entra e confonde il perimetro della realtà.
Leggerli sgranocchiando un dolcetto, ciondolando sul tempo che se ne va senza urgenze.
Sarà stata una buona lettrice, nella mia professione? E sono una buona lettrice nei momenti privati, quelli in cui un romanzo mi spoglia finalmente degli abiti professionali lasciandomi lì, nuda, a rabbrividire in mezzo alla danza delle parole? Sì, ecco, di nuovo, finalmente. Quell’antico e ritrovato piacere segreto che ogni lettore sa, e che non vuole condividere con nessuno.
Accade quando qualche parola trema nel giardino del nostro cuore, abbassandone le difese.
Succede a tutti i buoni lettori. La lettura "di testa" non serve, come inutili sono le ruminazioni di concetti e pensieri. Neanche ci aiuta l’identificazione con il protagonista, che si rivela sempre fallace non appena, una volta cresciuti, i nostri passi non coincidono più con i suoi (ecco che allora nella rilettura avvertiamo un senso di straniamento, una sensazione di imbarazzata cordialità, come con qualcuno che abbiamo un tempo conosciuto ma di cui non rammentiamo neppure il nome).
Ci aiutano invece quegli attimi in cui veniamo scagliati, attraverso le nostre letture, nella vertigine extratemporale in cui galleggiano confini più grandi del nostro, e del mondo che ci contiene, ecco che allora sentiamo quel famoso brivido di cui parla Nabokov.
Essere buoni lettori è un’impresa. Possiamo diventare eruditi, collezionare a memoria, con pappagallesco sapere, i titoli di ogni saggio e romanzo, con tanto di sinossi allegata, oppure annegare nelle emozioni evasive di avventure che pizzicano i sentimenti, attardandosi sul romanticismo con il quale tentiamo di scalare il muro delle nostre giornate.
Ma in questo modo non saremo mai buoni lettori. Nè in privato né nella nostra professione.
Richiedono due atteggiamenti diversi, i libri letti a casa e quelli letti in redazione. Ma hanno anche tanti punti in comune. Si incrociano più volte nei territori della sensibilità, stringendosi attorno al lettore che insegue il filo di ogni parola, tessendone il canovaccio dal quale ci guarda, invisibile, il volto eterno di ogni scrittore.
Ecco, sì. Tutti i lettori del mondo si somigliano in queste segrete armonie. Per ognuno diverse e uguali.
Non so se sono una buona lettrice, ma ci provo e ci ho sempre provato.
Ho scoperto che "il mestiere" deve comunque ogni volta tornare a lezione, frequentando le classi della maestra umiltà.
Nessun lettore, altrimenti. Ma solo suggestioni in odore di presunzione.
Se ricordassimo, ogni volta, che leggere non ci rende automaticamente migliori, aprendo invece solo una porta, una possibilità verso uno scatto della coscienza, sapremmo essere sicuramente, al di là di ogni divertito decalogo, buoni lettori.
Io, da parte mia, continuo a provarci. Goffamente, a volte. Ma insisto.
LE NOSTRE GROTTE
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Noi non sappiamo nemmeno dove sia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, come si chiami. Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare. Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergognamo, lo consideriamo un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati-morti, ed è già un pezzo che non nasciamo più neppure da padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un’idea. Ma basta, non voglio più scrivere "dal sottosuolo"…
(Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)
Qualche giorno fa, con la persona che mi è più cara al mondo, sono stata a visitare le grotte di Collepardo.
Era la prima volta che entravo in una grotta. Sono rimasta stordita, affascinata. Le rocce annerite su cui gocciolava l’acqua, insistente, come una memoria scomoda, mi parlavano con un linguaggio muto fatto di echi sommersi, di sospiri trattenuti, di segreti di pietra e di fuoco.
L’antro buio, le stradine illuminate da piccole luci artificiali costeggiate dai pilastri rocciosi su cui sembravano issati occhi umani, la volta fuliggionosa il cui silenzio immemore era interrotto solo dalla presenza dei pipistrelli (udibili ma non visibili, unica forma di vita in quel luogo di ombra e di terra) formavano un paesaggio spettrale e allo stesso tenpo accogliente.
Qui, tanti anni fa, quando eravamo ancora vicini alle stelle da cui eravamo caduti, avevamo celebrato i riti ctoni della Grande Madre, la Terra possente che ci nutre e contiene.
Qui avevamo vissuto, lontani dalla ferita del sole.
Qui avevamo ascoltato il cuore della terra, il tamburo che batte al suono dell’acqua che cade sulla pietra trasformandola, corrodendola, donandole nuova forma.
Ebbene, quel cuore stava suonando per me. Potevo sentirne il battito quasi impercettibile, come un soffio di brezza.
Camminavo in quel sottosuolo ignoto che sembrava conoscere ogni mio pensiero remoto, ogni scatto dell’anima, ogni segreto.
Un paesaggio magico, notturno, evocatore dei crocicchi nei quali l’antico viandante incontrava Ecate.
Accarezzavo le rocce seguendone con il dito le forme singolari, figlie di un’umidità senza sole, quel sole assente che qui non penetra mai per ferire lo spazio con la sua luce.
Ho pensato a quanto somigliavano, quelle grotte, ai sotterranei del nostro inconscio, luogo di dimenticati sepolcri e di notturne terre inesplorate.
Come una grotta è impermeabile alla luce solare della quale neppure sospetta l’esistenza, così l’inconscio non conosce la superficie rettilinea e razionale del nostro pensiero.
Non a caso gli antichi affidavano al Sole le valenze del pensiero razionale, cosciente, riservando alla notte e alla Luna i misteri e i pericoli della magia, delle ombre remote in cui l’uomo si perde.
"Portare alla luce" significa infatti consegnare alla coscienza le nostre cantine uggiose, ingombre di irrazionali tremori, di fantasmi sepolti, di angosce che erano prima che la notte fosse, prima del tempo, di ogni nostro tempo.
Dove il sole non batte cresce il muschio delle nostre paure. Eppure allo stesso tempo è lì che si celano gli arcani dell’anima, è lì che può brillare il nostro sole di mezzanotte.
Il furore ctonio può essere anche violento, come Ade che rapisce Persefone trascinandola sotto la superficie terrestre (ma se non l’avesse rapita Demetra non l’avrebbe cercata, e non sarebbero nati i Misteri Eleusini). Senza la protezione del sole i fantasmi sgusciano via dalle rocce affollando le nostre stanze, riempendole con il magma incandescente del non conosciuto, orrore e terrore di ognuno, perfino di chi si professa libero, di chi anela al pionierismo dell’anima.
Le nostre grotte sono accoglienti, ma si tratta un’accoglienza diversa, riservata solo all’avventore che avanza con la lanterna del coraggio per illuminare la notte oscura dell’ignoranza.
Conoscere sé stessi vuol dire percorrere queste grotte, piene di incubi, scheletri, mostri.
Il tempo del sottosuolo non è quello della vita sulla superficie, scandita dalle lancette di un orologio che costringono l’uomo nell’illusione di un rettilineo procedere, di un prima e di un dopo.
Qui, nel sottosuolo, tutto è. Non sarà, nè mai fu. È. Adesso, ora, qui. Senza presente o passato.
La meridiana solare non segna nessun procedere nella terra delle ombre che avvolgono ogni cosa nell’immobilità di un tempo non tempo, mai scalfito da una successione.
Tempo di sospensione, di sogno, di incubo. Tempo di conoscenza senza coscienza.
Mentre camminavo in mezzo alle grotte pensavo a quel ventre pietroso, culla occulta di ogni nascere e di ogni morire, ragione dell’assenza del sole, matrice di nebbie che avvolgono l’umano destino e allo stesso tempo forbice che taglia il velo lanuginoso dietro il quale si nasconde ogni perché.
La Madre Terra è oscura, misteriosa. Danza una danza immobile.
La sua veste è di tenebre, di abisso ogni suo sguardo.
Eppure mi seduce come un’amante scomodo che aggroviglierà il nostro futuro e che tuttavia non riusciamo a schivare.
Come la Iside dei Tarocchi, lei tiene in mano le chiavi della mia conoscenza. Ma si soffoca, quaggiù, senza luce.
Niente rumori familiari. Nè alberi, nuvole e piante. Solo roccia, solo forme a volte diaboliche, solo gocce d’acqua che cadono schiantando al suolo ogni pensiero.
Ecco sì, respiro con lei. Quaggiù, in queste grotte, la terra mi racconta dei miei sottosuoli.
Quanti pipistrelli non ho ancora sentito volare quel volo strano fatto di cerchi, come un sasso lanciato nell’acqua; quanti volti di pietra non ho mai visitato (forse per timore di fare la fine della moglie di Lot, trasformata in una statua di sale); quanti scantinati ho lasciato pieni di memorie scomode.
Percorrere quella grotta è stato un po’ come trovarmi nella regione in cui il pensiero di ferma, in cui la notte delle emozioni cala il mantello sul governo dell’Io.
Sensazioni strane, fatte di stupore e sospetto.
Chissà, forse è per questo che a un certo punto qualcosa premeva sul petto, costringendomi a cercare immediatamente l’uscita, come fossi un pesce tirato fuori dall’acqua.
Ma quando ho raggiunto l’uscita, la luce del sole non mi ha promesso conforto. Ho invece avuto la sensazione di aver perso qualcosa. Vedevo di nuovo le nuvole, i colori, le forme. Sentivo gli uccellini gioire della giornata primaverile. Tutto era di nuovo nitore, perimetro, consistenza. Ma mancava qualcosa.
Mancava la magia della profondità. La notte del nostro soggiorno terreno, di cui la grotta è simbolo e segno, ci invita al mistero di un altrove remoto in cui si cerca l’origine.
Forse, laggiù nella grotta, ho avuto paura dei miei mostri, ho temuto le contraddizioni, gli smottamenti delle certezze.
Eppure in superficie il sole sembrava quasi rapire la forma di conoscenza maturata nell’ombra.
Capii, in quel momento, perché Ade aveva rapito Persefone. E perché Demetra aveva così celebrato, alla fine, i misteri a Eleusi.
Solo che non ero ancora pronta. Non ancora.
LA MAPPA DELLA LIBRERIA
L’altro giorno, a casa mia, un amico mi rimproverava la posizione sghemba dei libri ammucchiati su scaffali ormai invasi, troppo stretti, come un golfino infeltrito.
"Sono creature – mi ha detto – hanno bisogno di stare dritte".
Una frase bellissima. Vera, probabilmente. Solo che ognuno, i libri, li vive a modo suo.
Proprio perchè sono vivi, febbricitanti, i volumi della mia libreria condividono il disordine che anima la mia esistenza. Sono ammucchiati, sparpagliati, eppure non naufragano via in cerca di bussola. Semplicemente respirano il mio modo di essere, all’unisono con l’anarchico ordine (può sembrare assurdo, ma non lo è) in cui ogni cosa che si smarrisce viene trovata. Sì, insomma, come in un gigantesco frattale. Li ho amati, annusati (da quando ero piccola infilo le mie narici in ogni libro, con voluttà e persistenza), segnati; ne ho piegato le orecchie (ma ne ho assorbito la capacità di sentire), accarezzato il dorso come si fa con un amante dopo l’amore, disegnato il profilo nello scaffale. Alcuni hanno buoni vicini di casa, vanno d’accordo, altri si trovano un po’ spaesati, in compagnia di alcuni titoli con i quali non hanno nulla in comune (ma alla fine si rilassano e convivono, lo fanno meglio di quanto riusciamo a fare noi). Mi guardano dalla libreria, mi invitano a repentine riletture, a ricerche esasperate davanti a un romanzo scomparso, a piccole soste con gli occhi che innestano il carburante della memoria. Altri attendono di essere letti. Così, con pazienza. Sanno che prima o poi accadrà. E se non accade, va bene lo stesso. Sono meno ansiosi di noi, loro.
Ma non sono soldatini, i miei libri. Non sono intruppati in reparti. E neppure per autore. O per collana.
Stanno lì, randagi. Si spostano soffiati dal vento dei miei umori, che ora ne mette in evidenza alcuni, ora altri. Ma sono sempre accuditi. Perfino quando qualcuno di loro finisce con il dorso girato (ancora più prezioso il suo ritrovamento).
La mappa della mia libreria è casuale, come il tiro di un dado. Ma allo stesso tempo rivela tracce precise, ondulazioni tra passato e presente che scavano un’ansa nel tempo, cullandosi in uno spazio lontano. E’ stropicciata. Sì. Somiglia più a una strada sterrata che a una via di cemento. Ma il suo essere selvaggia, il suo rifiutare l’addomesticamento di spazi e percorsi, è anche lo spazio di libertà in cui la vita si abbandona a sé stessa.
Certo, a volte sono costretta a lunghe ricerche. Ma ne vale la pena. I libri privilegiati, invece, godono di uno spazio particolare, accanto al divano, impilati senza un perché ma con un quando. Quando li leggerà? Ora, presto, domani. Più tardi. Non importa. Importa cercare.
E capire che ogni libreria ha le sue mappe e i suoi tesori.
Bisogna rispettare chi fa dei libri una reliquia, accudendoli come anziani all’ospizio (in effetti alcuni di loro sono molto vecchi), ma allo stesso tempo capire che si possono anche vivere così come si fa, a volte, con la vita: spargendoli intorno e dentro di noi, strusciandoci fisicamente la nostra esperienza, che li strapazza insieme alle rughe che compiono i nostri giorni.
Si possono bere e mangiare, i libri. Hanno suoni, odori e sapori.
Dalla libreria assistono, immobili, al nostro affaccendarci di formiche intorno alla tavola apparecchiata dei nostri giorni.
Eppure si muovono, dentro e fuori, dentro e fuori, tic tac, come le lancette di un orologio. Ed è la memoria a conservare nella testa e nel cuore i doni più belli che ci hanno fatto.
Molti di noi sognano i titoli che rileggeranno in vecchiaia. Mi sono ripromessa di rileggere Proust, ad esempio. Tutto, di nuovo. E poi anche un po’ di Borges, di Calvino, di Woolf.
Quanti appuntamenti mancati, in alcuni libri che non ho avuto o voluto leggere. Ma sono come le occasioni perdute, come quei famosi treni che passano. E poi chissà, a volte la vita ti rimette davanti una situazione, il treno ripassa, forse si ferma. Anzi sono io ad abbassare il passaggio a livello fermandomi, con la valigia del tempo, davanti allo scaffale in cui quel famoso libro mai letto mi stava aspettando.
Ma molti ancora vorranno essere letti.
So che forse non ne avrò il tempo, e tuttavia la consapevolezza non corrode il gioiello del sogno.
Ognuno di noi conosce i segreti della sua libreria. Sa quali libri sono stati importanti, come i grandi amori, quelli rari, quelli che il cuore conserva con un sussurro; e sa quali invece sono stati solo comparse, intersezioni veloci, fugaci, che hanno lasciato un pallido segno.
Ci sono i libri mai finiti (perché non si deve finire un libro, il rapporto è libero, è anche uno scavo interrotto), quelli invece su cui gli occhi si sono attardati più volte, quasi sbiadendo – come per magia di costanza – i colori della copertina.
Le posizioni che assumono nella nostra biblioteca sono percorsi, direzioni dell’anima, indicatori del rapporto con il loro lettore.
I miei, lo ripeto, vivono una vita scarmigliata. Un po’ come me. Ma sanno di essere lì, alla rinfusa, pronti però a ogni nuova avventura, a ogni spostamento dettato dal caso o dall’intenzione.
Ogni lettore possiede la mappa della sua libreria. É una faccenda personale.
L’importante sono i tesori ai quali la mappa conduce. E quei tesori non stanno comunque nei libri, ma nel respiro allargato della nostra coscienza.
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