La tragica storia di Marilyn mi ha sempre colpito per il contrasto che animava questa donna apparentemente così forte, brillante, ma in realtà fragile come un passero, affamata di un amore in qualche modo sempre negato. La sua storia traccia una linea di confine fra il mondo interiore, agitato dalle acque tempestose di un antico passato di violenze e abbandoni, e il successo pubblico della diva, della donna bellissima, sexy, desiderata da tutti.
La ferita del disamore non si è mai cucita, malgrado il successo, la bellezza, la gloria. Come spesso accade alle donne ferite, Marilyn ha nascosto la sua valigia piena di dolori e l’ha abbandonata in una soffitta, ha preso la chiave e l’ha buttata via. Ha nascosto la bambina fragile, brutta, tremante, l’ha vestita con abiti fruscianti da donna, l’ha truccata, rossetto per baciare il futuro e tanto rimmel da spazzare via i ricordi con un battito di ciglia .
Ma non è bastato. Il passato torna sempre.
La maschera dell’ochetta sexy, della vamp svampita ha fallito, come accade prima o poi con tutti i travestimenti.
Quando una donna si maschera, quando assume una caricatura del femminile può anche avere successo (lei ne avuto tantissimo, ancora oggi è un’icona appesa alla memoria di molti) ma sul suo tallone d’Achille prima o poi volerà la freccia che la distruggerà.
E questa freccia ha sempre e solo un nome, l’amore. Perché l’amore, come diceva Jung, ha una carica terribile in quanto ci rende nudi a noi stessi, liberando l’inconscio come nient’altro, al mondo, riesce a fare.
E infatti fu lì che le sue ferite sanguinarono ancora. Fu nel disperato amore che la legò a quel Kennedy che mai l’avrebbe sposata, e che la fece riparare verso il fratello, futile consolazione di un amore alla deriva appena fuori da un porto.
Forse Marilyn Monroe è morta per questo, come sembrano testimoniare anche le scoperte più recenti. O forse no. Di certo, il rapporto con Kennedy è stato il suo grande dolore.
Ogni volta che una bellissima donna si consegna al ruolo di amante penso a quello che io chiamo “il complesso di Marilyn”. E’ il destino delle donne a cui non manca nessun talento ma che sono costrette a giocare tutto sul filo dell’eros, della donna scintillante da visitare durante la sera, mordendola come si fa con un panino durante una gita.
Il contraltare ideale per la moglie precisa, austera, elegante, padrona di un focolare che governa in modo impeccabile (maestosamente incarnata, come figura archetipale, proprio dalla perfezione di Jackie Kennedy). Moglie che possiede il ventre (dà i figli al marito) e l’accoglienza devota, insieme a quell’insieme di buone maniere che rendono ogni marito felice. Solo che il marito, spesso, fugge via in cerca di una Marilyn.
Ma le donne che hanno il complesso di Marilyn in fondo non nutrono abbastanza fiducia in sé stesse per competere con l’imago mulier, e usano la sensualità per difendere la loro fragilità, nascondendo volentieri l’intelligenza ferita dietro risatine e ironia.
Quanto dolore, in realtà, in queste amanti eterne, per sempre costrette a svanire nella chimera del sogno. Mutilate della speranza di una vita alla luce del sole, vivono nelle ombre notturne, si muovono come pipistrelli nelle notti senza luna adorando le stelle che come coperte nascondno lo scandalo di un desiderio proibito.
Sono tante, queste donne. Sono sempre esistite.
Rappresentano l’incarnazione di Lilith, la Eva oscura, e di Medusa, di Ecate. Sono l’ombra indicibile di molte san(t)e famiglie, la memoria scomoda come un rimorso, l’eco lontana dei rumori di un mondo pubblicamente approvato. Alcune eroine della letteratura lo hanno sfidato finoa soccombere, come Emma Bovary, come Anna Karenina.
Splendide figure che mescolano amarezza e ammirazione.
Sposate, loro. Dunque moglie che decidono di tradire. Ma anche loro infelici, rese schiave da un matrimonio grigio in cui irrompe l’amore che, guarda caso, arriva a cavallo di un principe piuttosto meschino, incapace di generosità vera, di autentico dono. Anche lui un uomo mascherato, in fondo, che dietro l’esibizione del fascino nasconde i suoi limiti molto materici, pesanti, che gravano come pietre sull’amante conquistata.
Mi fanno tanta tenerezza, le Marilyn di questa terra. Quelle che non si sono sposate, come come Emma o Anna, e che dunque non hanno neanche potuto provare il brivido di una rivoluzione, di una scucitura alla regola coniugale che le rendeva infelici.
Ne ammiro il disperato coraggio del sogno, la resistenza infinita con cui attaccano i pezzi sparsi dei loro incontri d’amore cullandoli, cantandogli una ninna nanna ogni sera.
Spesso, però, queste donne meriterebbero una vita migliore. Ma non sanno confrontarsi con l’ombra per vincerla. La sfida è troppo penosa. Lei, la Madre-Moglie che domina il loro inconscio si vendicherebbe annullandole. O almeno, così credono. E allora si accontentano di riparare in un quartiere mentre la vita scorre intera nella città di un’esistenza.
Il complesso di Marilyn vive e cresce nelle ferite, matura nel buio, come un frutto inverso che si nutre di luna e di muschio.
Mi torna in mente un libro difficile e allo stesso affascinante, Perversioni femminili- la tentazione di Emma Bovary, in cui la Kaplan racconta lo strazio di queste donne che si travestono per apparire più forti ma che in realtà non sopportano lo sguardo tagliente della verità, quella nascosta all’interno del cuore, quella che le fa smarrire, amanti sempiterne, abbandonandole al loro destino che compie il segreto amore.
Con più coraggio, forse, molte Marylin avrebbero vissuto una via piena. Perché ciò che conta non è la gloria, ma solo l’amore dato e ricevuto. E la nostra capacità di sfidare le ombre per volare via libere in mare aperto.