AMORE E VIGILANZA
La storia di Eros e Psiche si ripete, da sempre, ogni giorno. Fa parte di quegli archetipi che ci incontrano nell’aurora dei nostri giorni, e ci accompagnano, instancabili, fino al nostro tramonto, fino al giorno in cui il destino spegnerà l’ultima stella.
E spesso noi, come Psiche, avventati ci gettiamo sull’amore prima ancora di poterne scrutare il volto segreto. La paura che ciò che afferriamo ci sfugga rende il nostro sguardo ardito, insistente e goffo, come mani di adolescenti impegnate nella prima carezza.
L’amore è il più bello dei mari da navigare, in questo nostro viaggio terreno. Eros ne sostiene le ali che, come vela gonfiata dal vento, scivolano via silenziose. Eppure quante cadute. E quanti rimorsi. E rimpianti. E nostalgie.
Potremmo essere più saggi. Ma come Psiche avanziamo in fretta, troppo in fretta, bruciando con l’olio dell’imprudenza il volto amato che si ritira, e sfugge per essere conosciuto in silenzio.
Tenere senza trattenere è difficile. Ecco perché i corpi degli amanti finiscono per fare la guerra, gemendo, rantolando, inseguendo il flusso rapace della carne e del sangue. Eppure Eros è anche delicatezza, carezza soave che si fa trasparenza, immobile pietra di volta nell’arco che ci sostiene.
La storia di Eros e Psiche racconta agli amanti della difficoltà di conoscere davvero l’Amore.
E poi che amiamo dell’altro? Cosa rende fragili i nostri confini trascinandoci nel lago in cui annegheremo?
Perché non c’è amore senza tempesta. Senza un postumo dolore randagio a mietere sofferenza là dove c’erano gioia e calore.
E le ossa di squassano, e il vento del dolore sbatte via i remi alla barca che si inabissa in mezzo ai flutti.
Ma ognuno di noi, guardando indietro, sa che ne è valsa la pena.
Anche se è stato stupido e ingenuo come Psiche, e se a differenza di lei non ha avuto la forza per iniziare il suo viaggio verso la conoscenza di quell’amore.
Forse non siamo mai pronti davvero, per amare. Forse siamo sempre in ritardo di quell’attimo che sospende lo scorrere del tempo aprendo lo squarcio al mistero dell’altro che è noi. Approdiamo invece alle bellezze e alle meraviglie, questo sì, spasimando subito perché siano eterne. E finiamo per credere all’immobilità della memoria che lesta lavora per imbalsamare ogni cosa in un’ illusione d’ amore che non coincide mai, in realtà, con la sua vera essenza.
Se volessimo conoscere davvero, come Psiche dovremmo fare un viaggio ignoto, lungo e tortuoso. Da non confondere mai con le pene amorose che interrompono i lieti giorni.
Si tratta di un altro viaggio. Ma a noi basta già la sofferenza che patiamo quando naufraga un amore. E anche questo è comunque un viaggio difficile da affrontare.
Vorremmo non partire mai. Ma sempre, invece, dobbiamo andare…
LA SEMIOLOGIA DELLE COSE
Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, caompestre o urbano, può escludere un’infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servono. Lo sguardo di un regista – su quello stesso paesaggio – non può invece non prendere coscienza – quasi elencandole – di tutte le cose che vi si trovano. Infatti mentre in un letterato le cose sono destinate a divenire parole, cioè simboli, nell’espressione di un regista le cose restano cose: i "segni" del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i "segni" del linguaggio cinematografico sono appunto le cose stesse (…). Dunque se fossi andato nello Yemen in quanto letterato, sarei tornato con un’idea dello Yemen completamente diversa da quella che ho essendoci andato in quanto regista. Non so quale delle due sia la più vera. In quanto letterato sarei tornato con l’idea – esaltante e statica – di un paese cristallizzato in una situazione storica medievale: con alte e strette case rosse, lavorate di fregi bianchi come in una rozza oreficeria, ammassate in mezzo a un deserto fumigante e così limpido da scalfire la cornea: e qua e là vallette con villaggi, che ripetono esattamente la forma architettonica della città, tra sparuti orti a terrazza, di grano, di orzo, di piccole viti.
In quanto regista ho visto invece, in mezzo a tutto questo, la presenza "espressiva", orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati caoticamente – casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c’erano le mura della città – edifici pubblici in uno stile Novecento arabo spaventoso, eccetera. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo e babelico sistema espressivo.
(Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane)
Rileggendo le Lettere Luterane, non posso non stupirmi in continuazione della lucidità di Pasolini. Sul mondo delle cose, poi, i nostri sguardi hanno deposto di tutto. Dalle icone scintillanti d’oro alle corna del diavolo, dai bisogni che diventano sogni alla magnifica proiezione terrena del mondo delle nostre "cose interiori". Non si tratta delle idee platoniche, ahimé. Si tratta della nostra visione del mondo sul quale il velo di Maya accumula, come in un gigantesco parcheggio, la nostra verità sulle cose. Raccontarsi la parzialità del nostro sguardo è già un passo avanti verso la demolizione dello sguardo "assoluto", con la sua pretesa di granitiche verità sul mondo. Il mondo è e sarà sempre limitato, parziale, corrotto dalla nostra percezione. E allo stesso tempo sarà bello proprio per questo, se solo ne manteniamo coscienza.
Gli sguardi sono tanti, come scrive Pasolini. Quando il suo è venuto a mancare, pochi mesi dopo la scrittura di queste e altre lettere, certamente al mondo è stato sottratto uno sguardo importante.
MA CHE BEL CASTELLO, MARCONDIRONDIRONDELLO
Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme. Li vediamo anche d’estate, al mare, tutti presi a scrutarsi per poi darsi immediatamente la manina e tuffarsi negli schizzi allegri del mare.
Mia nipote ha due anni e bacia tutti. Abbraccia famelicamente ogni bambina, distribuisce golosi bacini sulla sua guancia, allarga il sorriso mostrando i dentini, lucidi come piccole perle bianche.
Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme.
Anche se sanno essere impietosi e sadici come solo nel tempo dell’infanzia è concesso. E crudeli e tiranni.
Come quando arriva il bambino sfigato e nessuno vuole giocare con lui. Come quando tanti anni fa, ero una ragazzina, l’amichetto di mio fratello, Samuele, compì sei anni davanti a una torta troppo grande per quella festa vuota, senza invitati. Nessuno della sua classe era andato. Mi ha inseguito, negli anni, quel ricordo. Più volte. Avrei voluto andare da Samuele, bussare alla sua porta con una cesta piena d’affetto e di regali.
Ma i bambini sono così. Mutevoli come la luna. Irruenti come un uragano. E, quando vogliono, soavi e dolci come la carezza di un angelo.
Peccato che debbano imparare subito la competizione. Peccato che già alle elementari siano spinti a fare il primo della classe (quello che tutti abbiamo odiato, quello che spesso aveva la evve moscia come Bertinotti e gli occhialetti tondi da piccolo Einstein).
Se nel bambino iroso, nella peste in preda alle rivendicazioni che segnano subito la proprietà nei liberi territori del gioco, i singulti durano quanto una nuvola in cielo (e infatti "cattiveria" e "bontà", egoismo e generosità si alternano con moto fulmineo), con l’inizio della competizione reale, quella che condurrà al successo sociale, entra in gioco la strategia.
Inizia così il declino di quella spontaneità che dovrà cedere il posto alla educata ipocrisia del compromesso, cioè a quella maschera che vestiamo da adulti, quella che ci permette di vivere e di difenderci (ma è necessaria davvero?).
Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme.
Anche perché sono veri. Nel loro bene e nel loro male. Quando danno i bacini e quando tagliano la coda della lucertola. Quando mollano l’amichetto tutto solo a festeggiare le assenze e quando ti regalano all’improvviso i loro giochi, salvo poi piangere perché li rivogliono indietro.
Ma l’essere primi, nel tempo acerbo dell’infanzia, significa solo avere il palcoscenico tutto per sé, in modo che la mamma possa guardare i protagonismi e magnificare "his majesty, the child", come diceva una mia amica psicologa. E’ un vizio dell’affetto, una fame d’amore.
Il mondo magico e distante dei grandi deve sempre guardare e approvare, è lo specchio che misura il senso e il confine di ogni bambino.
Più tardi, invece, si viene educati alla supremazia in una cultura individualista, "democraticamente" votata all’importanza dell’essere primi. Bisogna allora schiacciare il compagno, battere il concorrente (con ogni mezzo, e lo vediamo ogni giorno, nei mediocri adulti che furono i magnifici bimbi di ieri).
Ecco, inizia l’era della strategia. Dalla scuola in poi, bisogna correre scansando tutti gli avversari, come in una partita di rugby.
I moti infantili dell’animo si fissano in una struttura, quella del vincitore. Perché non è vero che gli ultimi saranno i primi. Un motto popolare, americano, recita: "Il secondo arrivato è solo il primo degli sconfitti".
Ma che bel castello, marcondirondirondello…
IDENTITA’ E LEGGEREZZA
La parte più gravosa della nostra identità coincide con ciò che gli altri pensano o sanno di noi. Ci guardano e sappiamo che sanno, e con il loro silenzio ci costringono a essere ciò che si aspettano da noi, a comportarci in accordo con le nostre azioni precedenti o con sospetti che abbiamo destato senza esserne consapevoli. Ci guardano e non sappiamo chi vedano, cosa inventino o cosa decidano per noi. Per chi ti incontra sul treno di un paese straniero sei uno sconosciuto che non esiste al di fuori del presente.
(Antonio Munoz Molina, Sefarad)
Sono cresciuta in una cittadina di mare che contava poco più di cinquantamila anime. Ricordo i pomeriggi tersi della mia adolescenza, quando le nuovole dell’età adulta non ombravano ancora gli alberi del destino. Però ci conoscevamo tutti, e a ogni saluto corrispondeva un "ciao", come in un passo doppio di danza.
Tutti conoscevano tutti, ognuno avvistava l’altro nell’intercettazione continua che avveniva ogni giorno nelle strade del centro. Così, il "peso del nome" mi sottraeva aria e leggerezza. Invece all’estero, nei miei viaggi continui, scoprivo la meraviglia dell’anonimato, quella sensazione di fresca trasparenza che ti fa galleggiare sopra e oltre la folla. Ecco perché il viaggio è per molti liberatorio. Ci libera "dal male" del nome nostro.
Non essere più nessuno. Accade nelle grandi città, e tuttavia ogni quartiere ripropone la confidenziale convivenza del paese, dove ci si scambia saluti e ognuno sa chi sei, dove vai, cosa fai. Anzi, più che sapere, sospetta. E proietta. E giudica. E mormora.
Senza quasi saperlo, accendiamo dinamiche continue nelle nostre interazioni con chi ci conosce. La moltitudine delle nostre immagini chiede udienza, e la chiede a seconda dell’interlocutore di turno. In questo condominio affollato, noi dove siamo?
In realtà siamo oltre quel nome. Siamo là dove chi ci "ci conosce" non arriva più. Lì si estende la verità dell’anima nostra, il fiore del nostro giardino, in cui vivono le piante più belle. Quelle che nessuno ha mai nominato. Quelle il cui nome è rimasto segreto.
IL MATTATOIO DELLA COSCIENZA
Io non c’ero, quei giorni. Non ero lì. Non ho visto la scuola Diaz ridotta come un "mattatoio messicano", come l’ha definita Fournier questi giorni.
Non c’ero ma ho rivisto, di nuovo, le immagini di quei giorni di guerra.
Mi ha fatto male. Il cuore si è stretto, rimpicciolito fino a diventare un granello di sabbia.
Perché fa sempre male osservare come in fondo nulla cambi mai sul serio.
La violenza, il sangue, le botte. La polizia e gli studenti. Sembrava di essere indietro, nel tempo, in quel tempo non vissuto ma respirato nella pancia di mamma, quando lei distribuiva i volantini all’università finché un giorno non ha smesso per diventare una brava mamma borghese. E poi i libri, le immagini, l’atmosfera delle lotte di classe che accompagnavano i primi passi innocenti di bimba. Perché la televisione c’era. E in casa si parlava. In giro si intercettavano gli umori di piombo.
Da adulta scoprii i libri, i racconti, i documentari. E sperai che qualcosa sarebbe cambiato. Ma le cose non cambiano. Non cambiano mai.
Oggi come allora, abbiamo sempre bisogno di un "buono" e un "cattivo", di un "chiaro" e di uno "scuro". Di una polizia e di un gruppo di manifestanti. E di tanto odio che scorre in mezzo, come uno Stige fuligginoso.
Quei giorni di sole e sangue, nel 2001, c’erano di nuovo tanti ragazzi in guerra.
Vestiti in modo diverso, schierati, come in una partita di scacchi, dalla parte dei jeans e degli zainetti o da quella degli scudi e dei manganelli.
Mi ha fatto male vedere quelle sfilate di sangue rappreso, di occhi pesti, di anime tumefatte in quella bolgia infernale in cui all’improvviso la difesa è diventata aggressione, violenza, stupro collettivo. E’ inutile tentare la via della latitanza, dell’incertezza, della menzogna di corporazione: la polizia ha massacrato un sacco di ragazzi. I nervi sono saltati, si sono sciolti insieme all’asfalto squagliato dal sole. La polizia si è scatenata colpendo alla cieca stuoli di ragazzi e ragazze in cui si mescolava l’anima purulenta, piena di livore di alcuni a quella più ingenua, volenterosa di altri (sebbene io creda che la pace non sia un arcobaleno disegnato su una bandiera ma un non colore appoggiato sulla coscienza). Nessuna sentenza postuma potrà risarcire del tutto quei danni.
Alcuni danni, poi, sono irreparabili. Come il buco nel cuore del signor Giuliani, che ha lo stesso diametro della pallottola che ha ucciso suo figlio.
Altri danni, invece, sono quelli che si misurano lentamente, nella storia, attraverso l’assenza di una redenzione reale malgrado tutti i delitti e castighi di cui siamo colmi dall’antichità.
Non impareremo mai.
Del resto, mentre le immagini scorrono vedo anche, all’improvviso, gli occhi atterriti di tre giovani poliziotti con la maschera antigas sollevata. Uno di loro ha le labbra che tremano, gli occhi sollevati in alto quasi a cercare una fuga in quel cielo così remoto e sereno, il volto di un biancore lunare.
Impossibile non ripensare alle frasi di Pasolini su Valle Giulia, alla sua strenua, appassionata difesa di quei poliziotti figli di povera gente, spinti a fare la parte dei cattivi per svoltare il lunario mentre loro, i "borghesi" figli di papà, fanno le loro rivoluzioni che segnano le distanze dall’ombra dei genitori.
Io non so se quei poliziotti, a Genova, erano figli di povera gente. E non so se quei ragazzi distribuiti nei cortei lungo le strade erano ragazzini ribelli che giocavano a Robespierre. Forse era anche così.
Ma so che Pasolini, quella volta, ha comunque scavato una fossa nella superficie intatta dei luoghi comuni. Peccato, ci è finito lui, in una fossa, in un tempo precoce. Ma le sue parole sono rimaste e allora come oggi indicano comunque una via, quella del dubbio, quella di una complessità del reale che sfida le pantofole delle certezze che ci fanno da cuccia.
Questo non solleva il sangue dal mattatoio di Genova, nè attenua l’orribile peso di una polizia che si è comportata come un branco attraversato dal pulsare della follia, proprio come accade ai leoni quando cominciano a vedere il sangue della gazzella, e allora si riuniscono eccitandosi e scavalcandosi per strappare i brandelli di carne. Ma i ragazzi non erano gazzelle. Eppure la carne gliel’hanno strappata. A volte in modo così violento da lasciar scoperte le ossa. Alcuni erano davvero ragazzini, avevano le loro buone idee e però avevano avuto la pessima idea di manifestarle quel giorno.
Purtroppo accade anche, ogni volta, che un luogo pubblico diventi l’arena di proiezioni personali e private, in cui il nemico, l’altro, è per forza il cattivo, l’elemento sbagliato.
Così è stato anche a Genova.
E così, se l’evidenza dei fatti fa orrore (e di questa evidenza la polizia, mi auguro, dovrà rendere conto fino alla fine), è anche vero che pure fra i poliziotti ci saranno stati ragazzi con la stessa faccia brufolosa e spaurita, da passero spennato, di quel giovane inquadrato dal primo piano.
C’è una mattanza peggiore di quel mattatoio messicano di cui ha parlato (finalmente) Fournier. E’ quella che riguarda il non voler imparare. Quella che fa del passato solo strumento per le retoriche del ricordo. A che serve la memoria se non a salvare un presente? E invece ci sono, di nuovo, solo i sommersi. I salvati stanno altrove, nei nostri sogni. Il mondo continua così, con il suo schifo e la sua ignoranza.
Ma non riesco più a dividerlo sempre in buoni e cattivi. Non più. Non come prima. Perchè il dubbio, questo tarlo aspro che rosicchia le sicurezze, mi impone sempre, alla fine, un pensiero costante. Penoso da sostenere perché fa vacillare ogni bagliore di quell’assoluto che ovunque andiamo cercando (è rassicurante, l’assoluto).
E allora che paura che fa, giudicare qualcosa. Perché ciò che vedi è forse solo un pezzetto di una realtà complicata, difficile come il labirinto in cui senza il filo di Arianna tutti ci perderemmo. E se il filo fosse rappresentato dal dubbio?
Non so, non ho risposte. La realtà delle cose è così facile e allo stesso tempo così difficile da decifrare.
Forse aveva ragione Socrate. Forse bisogna sapere di non sapere per conoscere davvero qualcosa…
IL TEMPO DELLE PAROLE
In una video intervista a Simone Barillari (che uscirà con il prossimo numero di Silmarillon) si parla di letteratura e giornalismo.
Simone sostiene che la differenza fondamentale stia nel concetto di tempo: il giornalismo esiste sul tempo, la letteratura, invece, contro il tempo.
Ha ragione, Simone. Ha ispirato alcune riflessioni che avevo sempre inseguito in modo frastagliato, senza l’unificazione di un gesto del pensiero che pur brevemente donasse loro una forma in qualche modo compiuta.
Le parole del giornalismo frugano i fatti, la contingenza, usano la velocità mercuriale per raggiungere la resa delle storie in tempo reale. Fanno del tempo la loro guida e il mezzo stesso del loro esistere. Sia la cronaca che il commento (editoriali, fondi, ecc.) si basano infatti proprio sul concetto di tempo. Tempo storico, tempo quotidiano della cronaca, tempo dell’esistenza che si concentra in quell’orologio che scandisce i nostri giorni.
La velocità, elemento essenziale del giornalismo, deve essere per forza la stessa di quelle lancette inesorabili, di quel tempo meccanico, arbitrario su cui abbiamo fondato l’esistenza che si stende sui luoghi dell’alba e del tramonto, estremi del ponte sul quale passa la vita, quel tempo sempre in corsa, che comprime l’anima e al tempo stesso la dota di adrenalina.
Penso sempre ai surfisti che ammiravo in California, tanti anni fa. Erano lì, a cavalcare le onde giganti dell’oceano Pacifico. Senza riposo, tutto il giorno, incalzati dal tramonto in cui si concevano invece, tutti insieme, il riposo dolce sulla tavola finalmente immobile (stavano tutti lì, come macchie nere sull’acqua disegnate dalla luce fiamminga di quella sfera rotonda, misteriosa, su cui annegava il giorno).
Il giornalista è un po’ come un surfista. Ed è un po’ come i ladri e i cacciatori. Il giornalista è infatti sia ladro che cacciatore. Ladro perché ruba a chiunque, con i suoi occhi sgranati sul mondo, le orecchie abili a cogliere il più sommesso ronzio. Cacciatore perché esplora ogni riserva, pronto a raccogliere storie, notizie.
Le sue parole sono nel tempo. Raccontano il tempo. Tempo degli uomini, dei fatti, delle piccole storie di cui è tessuta la grande Storia. Lavora, il giornalista, sul rettilineo del tempo, sempre cosciente di un "prima" e di un "dopo", di un passato e di un futuro. E di un presente nel quale si snodano, ogni giorno, gli eventi. Il tempo lo governa, lo orienta. Lo stimola e lo stressa, ne è cuore e motore.
La letteratura invece rifiuta il tempo. La letteratura aspira all’eternità. Se la il giornale si esaurisce quando la luna spinge via il sole, la letteratura non si interessa invece dei moti alterni che segnano il giorno e la notte. La sua altitudine siderale vuole abbattere il Tempo per congiungersi all’eternità. Il suo è il Tempo circolare, quello delle assenze e degli eterni ritorni, quello in cui il raziocinio cede il posto alla danza della Musa, che sussurra i suoi segreti notturni. Ma è la notte dell’anima, la notte degli dèi, la notte in cui è possibile veder sorgere comunque il Sole.
La parola dello scrittore pascola sui prati dell’anima, tenta disperatamente (e a volte ci riesce) di innalzarsi sulle altezze siderali di un’amosfera iperurania che cerca di evadere il tempo dell’uomo. E’ lotta contro la prigione fisica, è grimaldello per aprire le porte del tempo che scorre entrando nel Tempo immobile, per sempre cristallizzato dalla stessa parola che ne fissa la qualità.
Lo scrittore cerca gli spazi solitari che lo allontanano dal brusio del mondo, con quelle ciarle e quei moti continui che potrebbero sconfiggere l’ambita meta, quella della scrittura trans-temporale che unisce l’uomo agli spazi infiniti sui qwuali converge il suo desiderio di immortalità.
Per questo i giornali si buttano e i libri vivono per sempre.
E tuttavia, tuttavia le parole del tempo, quelle del giornalismo, sono altrettantro rare e preziose. Diffiderei, anzi, di chi tende a snobbarle ripiegando solo sui libri. Perché finché siamo qui, sulla terra, abbiamo anche bisogno del tempo. E quei surfisti, scultorei sfidanti delle onde che non a caso divengono in continuazione, come la nostra stessa esistenza, sono la perfetta metafora dell’uomo che impara a cavalcare l’esistenza (che come un’onda ci sbatte qua e là) e che si nutre anche delle parole che lo raccontano. Ogni giorno.
Imparando a lavorare sul limite si impara a superarlo. E non a caso qualche scrittore si è trovato con le ali bruciate, impavido Icaro che ha osato le eterne parole prima che fosse pronto a tuffarsi fuori dal tempo.
Insomma, la qualità delle parole, nel tempo e oltre il tempo, è necessaria nella sua doppia funzione.
Io le amo entrambe. Le parole del giornalismo aiutano a comprendere la vita nella materia di cui è tessuto il quotidiano, fatto anche della sua fuligginosa ambivalenza, con le cronache terribili che ci ricordano quanto siamo lontani da quel paradiso perduto; le parole della lettratura consolano, invece, i giorni fuggitivi portando il respiro sopra ogni il limitare di quella materia, sul bilico dell’eternità.
Amo i diversi sentieri del tempo delle parole nel cui giardino, come nel racconto di Borges, le biforcazioni diventano intersezione, coincidenza, inversione.
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