I NOSTRI MARI D’INVERNO
Sono nata in una cittadina sul mare. L’ho sempre visto dal terrazzo della casa in cui abitavo, disteso oltre i vecchi tetti delle case, oltre le costruzioni più nuove, violenza e vergogna di questa modernità a volte così oscena, l’ho visto adagiato sull’orizzonte come una dea nel suo Olimpo, o una ninfa in un sacro bosco.
Quel lembo di mare che confina con il cielo è sempre stato lì. Era lì nei giorni arruffati dell’infanzia, in quelli ribelli dell’adolescenza, quando il "no" tesse ogni parola. Io cambiavo, crescevo, e lui rimaneva lì, testimone muto delle mie migrazioni e dei miei rimpatri.
Anche adesso, in questa mattina precoce nella casa dei miei genitori, mentre il computer riflette il primo sole che abbaglia le nuvole chiedendo loro lo spazio, e queste si ritraggono, come intimorite, in attesa di veder spuntare tutti i raggi, simili a tante manine tese verso la terra che ancora dorme rannicchiata nei suoi sogni domenicali; anche adesso, dicevo, il mare è laggiù, mi accompagna, mi assiste, mi guarda. Sempre lo stesso mare. Io invece così cambiata.
Ogni ritorno in questa terra è anche la misura del mio cambiamento. E la misura dei limiti insuperati.
Ma nel suo respiro di sale, laggiù, avverto il gioco delle possibilità.
Lui è sempre stato più ampio di me, mi ha sempre incoraggiato a cercare il mistero del punto esatto in cui il Cielo incontra la Terra. Un non luogo fra due mondi, come il tramonto che separa e unisce il giorno e la notte.
Il mare d’inverno è un luogo magico per ognuno di noi. E’ simbolo e occasione, sogno e libertà.
Alcune leggende antiche dicono che il cielo stellato sopra di noi sia un altro tipo di mare, un oceano cosmico in cui nuotiamo alla fine dei nostri giorni. Un tuffo supremo, in cui non siamo più, immersi nelle acque di un altrove diverso.
Ho sempre camminato al mare, d’inverno. Ogni occasione di ritorno, qui, diventava una passeggiata fra le sabbie dei tempi in cui ero ancora una piantina giovanissima in cerca di spazio per allungarsi oltre ogni perimetro.
Quante orme serene, sulla sabbia. E quante impronte disperate. Le onde oscillavano come a inseguire i miei umori.
C’era con me un cane, allora. Un pastore tedesco. Il mio pastore tedesco, lasciato poi alla mia famiglia quando iniziarono turbamenti e pellegrinaggi in tutto il pianeta per scoprire, anni dopo, che esattamente lì, in quella sabbia umida di inverni e di lacrime, avevo già incontrato quello che ovunque stavo cercando. Brahma mi camminava avanti, inseguiva i sassi che le tiravo avanzando fra la nebbiolina che qui, da queste parti, cancella i contorni delle cose divertendosi a giocare con le nostre certezze.
Il mio mare d’inverno, quello vero, fu rappresentato da quella ragazza e quel cane lupo che sfidavano il freddo e camminavano senza sosta sulla battigia, divertendosi a seguire la linea incerta in cui le onde si infrangono sulla riva nella danza del vento.
Quando Brahma morì i miei non me lo dissero. Vivevo già a Roma da anni. Lei ne aveva undici, allora, e un tumore alla mammella che se la mangiava.
Seppi solo dopo, dalla voce tremante di mia madre, che il giorno in cui lei non si alzò più chiamarono il veterinario. Mio padre andò a prenderlo e lo portò a casa nostra. Mia madre, con quel coraggio arcano che solo una donna conosce, prese in braccio Brahma accarezzandola, sussurrandole dolci parole per il suo viaggio, mentre il medico le iniettava lentamente la morte. Mio padre, nascosto dietro un angolo, singhiozzava.
Da allora, da quando non c’è più, ripenso ai miei mari d’inverno con lei. A come, in quella semplicità , eravano felici. Lei con i suoi sassi e le onde che le schizzavano addosso, io con il mare accanto che a ogni mio passo, nella solitudine di quei freddi pomeriggi piovigginosi, cercava parole che pensavo di non saper ascoltare (ma che adesso decifro nella loro pienezza).
Da allora, quando capita, torno a passeggiare sulla sabbia d’inverno. E il mare mi segue, mi guarda, mi chiede. E io rispondo sempre: "Non posso restare, non posso andare. Posso solo cercare di essere". E lui mi risponde con le sue onde che sempre nascono e muoiono, come ogni respiro, come il giorno e la notte. Come ogni cosa che danza fra permanenza e mutamento. E io, accanto a questo mare infinito, sento ancora il sussurro del vento. Lo ascolto. Mi porta lontano, così lontano che mi aggrappo alla barriera dei miei ricordi sapendo che dovrò guardare oltre, nel segreto giardino che fiorisce nel luogo in cui il cielo incontra la terra.
UN GIORNALISMO DIVERSO
Non c’è giornalismo possibile fuori dalla relazione con altri esseri umani. La relazione con gli altri è l’elemento imprescindibile del nostro lavoro. Nella nostra professione è indispensabile avere qualche nozione di psicologia, sapere come rivolgerci agli altri, come trattare con loro e comprenderli.
Credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzitutto delgi uomini buoni, o delle donne buone: dei buoni esseri umani. Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. Se si è una persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino.
(Ryszard Kapuscinki,Il cinico non è adatto a questo mestiere)
Per fortuna, ogni tanto, qualche idealista contesta l’idea che chi voglia lavorare le giornalismo debba per forza essere cinico. Se è per questo, oggi questo mondo chiede a tutti di essere cinici. Sembra diventato necessario alla quotidiana sopravvivenza.
Ma ci si può ribellare.
La penna di Kapuscinki non ha scritto solo riflessioni, ha raccontato, raccontato di un mondo che lui cercava di capire, trattendendolo sulla sua penna dopo averne smontato i pezzi, dopo aver cercato la gente.
E dice, a mio avviso, una cosa bellissima. Gli esseri umani non sono solo notizie, se si ha il coraggio di far "parte del loro destino". E ce ne vuole tanto, a volte, di coraggio.
In fondo essere cinici è più semplice. Il pelo sullo stomaco aiuta a digerire la realtà che, se vissuta in modo sensibile, può chiederci empatia, comprensione, compassione. E, accidenti, generosità.
Sarà che non sono mai riuscita ad averlo, questo benedetto pelo sullo stomaco. La mia pelle, lì, è bianca e fragile. Così fragile che a volte mi spaventa. Sarà forse per questo che mi sono tenuta alla larga dai grandi quotidiani e dai settimanali, preferendo un giornalismo dietro le quinte, fatto di cultura e di nicchie. Non so.
Ma so che Kapuscinski ha ragione. So che il bravo giornalista è anche quello che sa incontrare sul serio altri esseri umani. E a chi dice che questa sembra una visione arturiana, un’immagine onirica, un po’ come Camelot, rispondo che ci vuole molto coraggio, a volte, per sostenere questa diversità.
Perchè perbacco è vero, è vero che la maggior parte dei giornalisti sono cinici. Ma questo significa forse che la "fisiologia" di questo mestiere esiga il cinismo?
Allora è anche vero che tutti i nostri politici fanno più o meno schifo, ma questo non significa che il bravo politico non debba essere un generoso filosofo (nel senso più nobile e meno teorico della parola), come suggeriva Platone.
Non è un mestiere (che volentieri diventa una casta) a dettare il comportamento, sono gli esseri umani. Solo gli esseri umani. Quindi, ogni giornalista può decidere come vuole essere.
Può scegliere.
Il problema, temo, è più esteso. Il cinismo ha invaso la nostra vita, l’ha resa pesante, ombrosa, priva di gioia.
L’altro giorno ho guardato distrattamente i fiori di un’aiuola. Era sera, camminavo di fretta. Mi sono fermata a guardarli. Erano bellissimi, con i loro colori e i loro profumi messi lì, come un regalo, un regalo offerto a chiunque voglia apprezzarlo. Non vogliono niente, loro, ma stanno lì. Testimoniano la bellezza. Sembra così stupido, il cinismo, in questi momenti. Ecco, se un fiore fosse intervistato risponderebbe semplicemente: "Esisto. Seguo i mutamenti senza nulla pretendere. Conosco la Bellezza e l’Armonia. Del resto, perdonate, non mi intendo".
Ma ci vorrebbe un giornalista sensibile per intervistarlo.
Gli altri, gli altri non lo vedrebbero neppure.
GUARDAMI
Dipinsi un quadro – cielo grigio – e lo mostrai a mia madre.
Lei disse bello, suppongo.
Così ne dipinsi un altro, tendendo il pennello tra i denti,
Guarda mamma, senza mani. E lei disse
Suppongo che verrebbe apprezzato da qualcuno che sapesse
Il modo in cui lo hai dipinto e fosse inetressato alla pittura.
Io non so sono.
Suonai un assolo col clarinetto del Concerto Per clarinetto di Gounod
Con la Filarmonica di Buffalo. Mamma venne ad ascoltare e disse
Bello, suppongo.
Così lo suonai con la Sinfonica di Boston,
Sdraiata e usando gli alluci,
guarda mamma, senza le mani. E lei disse
Suppongo che verrebbe apprezzato da qualcuno che sapesse
Il modo in cui lo hai suonato e che fosse interessato alla musica.
Io non lo sono.
Preparai un soufflé alla mandorla e lo offrii a mia madre
Disse buono, suppongo.
Così ne preparai un altro usando il fiato per montarlo.
Glielo servii con i gomiti
Guarda mamma, senza le mani. E lei disse
Suppongo che verrebbe apprezzato da qualcuno che sapesse il modo in
cui lo hai preparato e che fosse interessato alla cucina
Io non lo sono.
Così disinfettai i polsi, eseguii l’amputazione, gettai
Le mani e andai da mia madre, ma prima che potessi dire
Guarda mamma, senza mani, lei disse
Ho un regalo per te e insistette perché io provassi
I guanti di capretto blu per accertarsi che fossero della mia
misura.
(Cynthya Macdonald, Complimenti)
Guardami. Guardami. Guardami. C’è solo un’ìstanza, nel bambino. Solo una preghiera, dichiarata, che ogni giorno recita come una litania. Guardami. Amami.
Ma non tutte le madri sono capaci di guardare, e di amare. La poesia taglia e non ricuce mai, conosce l’asprezza di rocce montuose, dimenticate, dove l’uomo non si incammina.
E il bambino vuole solo attenzione. Guardami. Amami. Dimmi che esisto. E capita che lei si distragga, che non sia all’altezza di questa pretesa assoluta che succhia via tutto, ingoiandolo dentro quei piccoli occhioni sgranati, fissi, aggrappati alla presenza materna.
C’è un film famosissimo, Mammina cara, in cui la figlia adottiva di Joan Crawford (interpretata da Fay Dunaway) rievoca il rapporto difficilissimo con la madre egocentrica, collerica, incapace di tenerezza.
Ma ci sono tante mammine care, sparse ovunque.
Oggi, forse, sono aumentate. Il dolore più grande di queste mammine care è la trafittura sull’anima, su quella piccola anima che si desta alla vita e che ha bisogno di bere e mangiare amore.
Guardami. Amami. Il bambino non vuole altro. Lei, la madre, è il centro del suo universo e in quello stesso punto si trova anche lui. Lei, ovunque, a circondare il suo mondo e dargli un senso.
Non è facile, a volte, reggere questa pretesa assoluta. Richiede di scomparire, di rimpicciolirsi mettendo altri nel proprio centro. Ma se quel centro in lei non esiste, allora il bambino rimarrà tagliato fuori, per sempre, come un satellite alla deriva nelle infinite galassie.
Guardami. Amami. Sono qui, mamma. Sono qui.
Ma lei non vede. E recide per sempre il fiore di ogni speranza per quella piccola vita che crescerà mutilata, un po’ come un sogno che ci si appiccica addosso ma di cui abbiamo perso le immagini, e che rimane sulla pelle con una sensazione di assenza.
Ci sono assenze strane, assenze maturate da una presenza che mai ci fu. O che fu intercettata fugacemente nel bagliore distratto di uno sguardo, in una carezza nata per sbaglio, che come un incidente sfiorò la nostra pelle ma che rimase lì, sospesa, con la sua involontaria promessa.
Questa poesia è terribile. Ogni volta che la rileggo sento un gran freddo. Penso a tutti quei bambini che hanno una Mammina cara.
Perché, purtroppo, lei, malgrado tutto, rimane sempre la Mammina cara di cui hanno un furibondo bisogno. E loro, i bambini, si amputano per eliminare la colpa responsabile di quello sguardo mancato, per buttarla fuori dal corpo che lei, la colpa, cattiva, ha contaminato. Se gli occhi di mamma non guardano, allora c’è qualcosa che non va nel bambino. Questo pensano gli scriccioli innocenti che vagano come satelliti alla deriva in altri universi, perché in quello bellissimo, in cui splende il sole materno, a loro è vietato l’ingresso.
E per sempre, anche quando saranno adulti, avranno un desiderio soltanto.
Guardami. Amami.
LA MATRICE
A mano a mano che seguiamo gli indizi – stelle, numeri, colori, piante, forme, poesia, musica, strutture – scopriamo l’esistenza di una vastissima intelaiatura di rapporti che interessa molti livelli. Ci si trova all’interno di una molteplicità riecheggiante, ove ogni cosa reagisce e ha un suo luogo e un suo tempo stabilito. È un vero e proprio edificio, una specie di matrice matematica, un’Immagine del Mondo che s’accorda a ognuno dei molti livelli, regolata in ogni sua parte da una rigorosa misura.
(Giorgio de Santillana, Hertha Von Deckend,Il mulino di Amleto)
Il Mulino di Amleto è uno di quei libri che ti cambiano la vita. Sono incontri straordinari, questi, occasioni in cui si trova ciò che si stava cercando, ciò che forse si era dimenticato. Il mondo è un ricamo geometrico e matematico, dice Santillana, popolato di miti e leggende che ovunque, a ogni latitudine e longitudine, raccontano sempre la stessa storia, quella dell’uomo che cerca sé stesso.
Tutti quei "pezzettini di cielo" sparso ovunque, quaggiù, possono essere ricollegati per trovare di nuovo la strade per le stelle (stelle che stanno fuori e dentro di noi).
La misura dell’armonia non è sempre facile da trovare, in questo mondo sempre più caotico e doloroso, somigliante più a un Tartaro che a un Eden. Ma se sappiamo guardare, guardare oltre il caos, oltre i limiti, inseguendo quei pezzettini di cielo, forse allora sapremo che il nostro respiro è figlio di un respiro più grande, immenso, che ci abbraccia e ci contiene.
Ho sempre amato i miti e le leggende ma quando ho incrociato questo libro sono rimasta stregata. Stregata per il modo di raccontare, per le investigazioni in ogni tempo e in ogni mito, per la sapienza con sui sono state tessute le analogie che superano la separazione del tempo e delle varie culture per trovare meravigliose concordanze, proprio come, in un concerto, i vari strumenti, seppur diversi, si uniscono in un coro armonioso di suoni.
Sì, una matrice c’è. E la cosa meravigliosa è che lo sapevamo da sempre. Eppure, eppure sono i successi di film come Matrix, oggi, a guidare la nostra attenzione, usando richiami filosofici di tempi antichi che l’uomo ha smarrito nella corsa verso il futuro.
Sì, una matrice c’è. Rappresenta una gabbia in cui gioca Maya ma allo stesso tempo anche la via di uscita. Si basa su armonie, assonanze, richiami di amorosi stupori.
Ma lo sapevamo, della matrice. Lo sapevamo da sempre.
Guardando indietro, ancora oggi mi meraviglio sempre di quante cose riesco a imparare.
E nei sussurri del vento penso a quanti mulini di Amleto possiamo scoprire…
INCONTRARE MEDUSA
Signor del campo, d’ogni parte intanto / agitava i destrieri il grande Ettorre, / di bel crine superbi, e rotar bieco / le luci si vedea, come il Gorgone, / o come Marte che nel sangue esulta.”
(Iliade, Canto VIII°).
Nessuno di noi vorrebbe essere mai Medusa. Simbolo del mostruoso, dell’infero, di ciò che, abietto, ci ritrae, come lumachine nel guscio, non appena osiamo guardare i nostri mostri interiori. Ma non si possono incrociare solo Venere e Apollo, Diana e Chirone. Nei nostri archetipi interiori vive anche lei, vive Medusa. E se per caso la incrociamo, se per ventura ci imbattiamo nel suo sguardo furioso che tutto trasforma in pietra, allora useremo lo scudo. Ma non possiamo evitarla.
Ho sempre temuto, da bambina, questa figura così raccapricciante. Mi spaventava, esattamente come faceva la strega-befana che stava nel comodino della stanza di mamma e papà. Ricordo ancora quando, avrò avuto sei anni, piombai in quella camera inseguita dalla mia sorellina, nello schiamazzo disordinato dei giochi infantili. Fu allora che vidi il ghigno della strega per la prima volta. Guardava me, proprio me. Cacciai un urlo furioso e corsi via, con il cuore che schizzava oltre la testa. Da allora ho sempre cercato di evitare il suo sguardo, vagando con occhi obliqui in quella stanza non più rassicurante.
In fondo, anche quella strega cattiva era una variante di lei, di Medusa.
Eppure, eppure dovremmo accettare anche questo, se davvero vogliamo conoscerci oltre la superficie tranquilla del lago sui cui galleggiamo ogni giorno, quello che mostriamo agli altri. Ma, nelle nostre grotte, anche noi abbiamo capelli di serpente, e uno sguardo che desidera trasformare in pietra la vita.
Solo, non vogliamo vederlo. Né dentro né fuori.
Quando, anni fa, incontrai la mia Gorgone che comparve una sera, a una festa, fissandomi per trasformarmi in pietra, non feci in tempo a usare lo scudo. E in effetti, qualcosa dentro di me si cristallizzò, il cuore pulsante divenne duro, immobile, pietrificato, e la traccia di quella memoria si fissò nel tempo, sfidando il suo avanzare, resistendogli come una sfinge che si prende gioco della sabbia misera che si avvicenda davanti al suo eterno sguardo.
Ma adesso so, so che ognuno di noi prima o poi la incontrerà. E questo incontro risveglierà la Medusa che vive dentro di noi.
Può accadere anche molto avanti, nella vita, quando abbiamo trasformato le nostre giornate in valvole di sicurezza, blindando paure remote e scricchiolii della coscienza.
E se non avremo preparato lo scudo (che serve ad affrontare l’incontro, non a evitarlo) allora sarà molto difficile non farsi travolgere.
Medusa, la strega cattiva, il femminino distruttivo fanno parte della Grande Ruota che anima il mondo.
Non possiamo tirarci indietro.
Quando la incontrai, lei mi vinse. Ma poi, piano piano, cominciai a capire che per tornare dalla pietra alla vita dovevo accettarla, riconoscerla dentro di me.
Ancora oggi, non è sempre facile.
Come non è facile usare bene l’energia di Marte, il guerriero che grida sempre vendetta, che si nutre di polvere e sangue.
Tuttavia ci sono anche loro, sono "forme dell’anima", per dirla con Campbell.
Ognuno ha la sua Gorgone da affrontare, e il suo Marte da gestire.
Se potessi ancora fuggire in un’altra stanza, come quando ero bambina, forse, in un impeto di vigliaccheria, lo farei. Invece provo, mio malgrado, ad avanzare verso quello sguardo utilizzando lo scudo. E’ buio, in quei momenti. Fa freddo. Ho paura. Ma faccio un altro piccolo passo. Né avanti né indietro. Un passo. Un passo e basta.
VIOLENZA E RESURREZIONE
"Chi dice che preferirebbe lottare fino alla morte piuttosto che farsi violentare è un idiota… Parlando di scalate o di traversate burrascose certa gente dice di essere diventata tutt’uno con la montagna o con l’acqua.Io divenni tutt’uno con quell’uomo. Quell’uomo teneva in mano la mia vita…"
(Alice Sebold, Lucky)
Ho appena terminato Lucky, il libro in cui Alice Sebold racconta dello stupro subìto quando aveva solo diciannove anni. Accadde una notte, in un parco. Lo stupratore le rubò il fiore della verginità, mandandone in mille pezzi i petali all’interno di una vecchia galleria, fra i vetri rotti e l’ansimare della paura.
Ma lei non mollò. Sostenne lo sguardo dei compagni di studi, le domande della polizia, la sua "diversità" che all’improvvio metteva una barriera fra lei il mondo, il resto del mondo.
Usò lo schermo del suo umorismo per impedire al mondo di penetrarla di nuovo.
Con una violenza carnale si viene scagliati nel Tartaro in cui scorre lo Stige. Trovare la via per la luce è così difficile che molte donne cercano di dimenticare, di seppellire il passato. Anche Alice ha tentato di farlo. Ma quello della violenza è un marchio di fuoco, una lettera scarlatta cucita per sempre nell’abito che mostriamo al mondo. E anche dentro, i lividi e i graffi dell’anima tormentano la mente che cerca di correre lontano, lontano dal momento che cambiò per sempre una vita.
Alice però è Lucky, fortunata. Anzi benedetta, come spiega lei. E’ stata all’inferno ma è anche tornata. Forse perché anni dopo ha incontrato di nuovo il suo stupratore, perché è riuscita a inchiodarlo, a sopportare la nuova violenza del processo in cui la donna, comunque, è sempre vittima di un sospetto mai dichiarato ma che volentieri circola, serpentino, nelle aule. Quello che in fondo, da qualche parte, sia lei la responsabile. Un sospetto maledetto che affiora e che di nuovo corrompe ciò che era stato già corrotto, segnato.
Quando le parole raccontano un’esperienza vissuta si fanno carne. Perché per quanto ci si possa sforzare, per quanto l’invenzione letteraria riesca a spingersi oltre il non vissuto per restituirci altri mondi che hanno il sapore della verità, solo il vivere un’esperienza ci rende davvero coscienti del suo significato.
Perciò ho accompagnato la storia di Alice come potevo, in punta di piedi e con grande rispetto. Con quel pudore che nasce quando avviciniamo i dolori degli altri. Ma nelle sue pagine ho sentito il graffio amaro della verità, la disperazione di una speranza ostinata, come quelle piantine che spuntano fra le crepe del cemento, quelle su cui nessuno scommetterebbe e che invece stanno lì, a testa alta, quasi con impertinenza, resistenti al vento e alla siccità, a testimoniare la forza sacra della vita. L’uomo è una canna pensante, scriveva Pascal. Si piega ma non si spezza.
Forse si spezza anche, penso. Ma penso anche che da quella rottura nasca una nuova vita.
Chi ha sofferto molto conosce le mutilazioni del dolore, ma conosce anche la forza della fragilità.
Il libro di Alice Sebold è doloroso, difficile come tutte le storie vere in cui abbiamo occasione di entrare, come ospiti invitati a sbirciare dietro una tenda.
Eppure quel dolore è il motore di una forza nuova che le fa dire, oggi, benedetta.
Benedetta ogni donna che muore e risorge.
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