SE QUESTO E’ UN UOMO
Povero orso bruno, te ne stavi lì con la tua compagna e tuo figlio, nel posto dove nessuno avrebbe potuto farti male, proprio come un bambino accanto alla sua mamma. Ma ti sei trovato davanti una bella carcassa di pecora. Boccone troppo ghiotto per resistere. Non potevi sapere che qualche uomo cattivo ci aveva messo il veleno. Avevano deciso che dovevi crepare. Forse avevi mangiato la pecora di qualcuno (ma pensa quanti animali ammazziamo noi umani, e quanti avanzi buttiamo nella spazzatura quando, sazi, ruttiamo sul piatto).
O forse qualche cacciatore si era arrabbiato per il restringimento delle zone di caccia per colpa di stupidi orsi che qualche stupido uomo ha deciso di proteggere.
Ti hanno preparato il banchetto letale. E tu, la tua compagna e tuo figlio ci siete cascati. Non conoscete le strategie serpentine di questa umanità infera, mefistofelica. Si uccide per mangiare, si mangia per vivere. La vostra legge è semplice. La nostra è più complicata, sai? Da noi si uccide anche per divertimento, o per stanchezza. Per noia, per gelosia, per vendetta. Insomma, si uccide per un sacco di motivi che non hanno a che fare con il nutrimento e la sopravvivenza. Si uccidono perfino animali che stanno scomparendo e che hanno bisogno di protezione speciale. Ma la terra, sai, appartiene a noi uomini. Non so quando lo hanno deciso, so solo che un tempo non era così. Un tempo l’indiano che uccideva il bisonte ringraziava per quel sacrificio, necessario alla vita. Oggi uccidiamo con uno sprezzo che mi fa paura. E non ringraziamo, no. Non ringraziamo mai. E fuggiamo come vigliacchi dopo aver avvelenato tre orsi e due lupi.
Devi avere sofferto molto, mi dispiace tanto. L’avvelenamento è un processo lungo, doloroso, che comporta un’agonia che infiamma lo stomaco e spacca la testa. Pare che a morire per primi siano stati la tua compagna e tuo figlio, e che tu abbia assistito.
Sono certa che sei stato davvero in gamba, con loro. Chissà che hai pensato, nel bosco, mentre gli uccellini cantavano, il sole giocava con le foglie e tu non capivi perché.
Sai, molti uomini sciocchi preferiscono pensare che gli animali non hanno emozioni. Non è vero e le ultime ricerche scientifiche lo hanno dimostrato. Perfino gli animali da allevamento, quelli che consideriamo meno di zero, hanno un complesso mondo emotivo. Lo sai, povero orso bruno, che se il maiale ascolta la musica classica cambia atteggiamento e sembra commuoversi? La casa editrice Donzelli ha pubblicato un bel saggio, Il maiale che cantava alla luna. Ma noi uomini possiamo anche leggerci tutta la biblioteca di Babele senza cambiare coscienza.
Chissà com’era, il tuo mondo emotivo. Chissà se ti sei preoccupato quando hai visto la tua orsa crollare, lamentarsi, star male. Io penso di sì. E due lacrime si fanno spazio nello spazio rotondo degli occhi.
Sai, quando ero piccola dormivo nel lettino accanto a quello di mia sorella distribuendo intorno a me tutti i mie pupazzetti di pelouche, schierati come soldatini in difesa davanti alla minaccia della notte scura. Ma c’era un orsetto, in particolare, che faceva galleggiare nel mio cuore un mare di tenerezza.
Tutti siamo stati bambini. E abbiamo amato gli animali che scoprivamo man mano attraverso i libri illustrati, i film, i documentari.
Poi siamo cresciuti. Alcuni si sono dimenticati di quel bambino e lo hanno cacciato. Lui deve essersi rintanato in qualche altrove lontano dal cuore.
Hanno anche dimenticato, questi uomini, le fiabe che raccontavano di boschi e di animali straordinari. C’era una volta un uomo che oggi non è più. Eccola, la fiaba più triste.
Ma io sono stanca, stanca degli abusi su un mondo che sta declinando. Stanca di vedere gli orsi polari annegare perché non trovano più solide lastre di ghiaccio. Sai che è successo l’anno scorso, in quella terra nordica in cui vivono i tuoi cuginetti dal pelo di neve? E’ successo che quando i cacciatori sono andati a massacrare le piccole foche – sopresa sorpresa – le hanno trovate già morte. Erano annegate nel ghiaccio acquoso diventato una tomba.
Tu invece, qui da noi, dovevi essere più al sicuro. Ma nessun animale è al sicuro. Come nessuna foresta e nessun cielo. Siamo arrivati ovunque, come un esercito di cavallette. E dove arriviamo, portiamo la morte.
Certo certo, qualcuno ora insorgerà parlando di progresso, di civilità, di democrazie e migliori sistemi di vita. Ma sai che cosa c’è? Non me ne frega niente. Un sistema moderno che si basa sulla distruzione di un pianeta non sopravviverà a sé stesso (e c’è chi si preoccupa di campare fino a centocinquant’anni nella sua presunzione di onnipotenza).
Scusaci, povero orsetto. Adesso ti sezioneranno alla ricerca di tracce, si daranno da fare per trovare i colpevoli. E poi? Intanto tu sei morto, e con te se ne è andato un altro pezzettino di speranza.
La terra nostra era anche la tua. Avevi gli stessi diritti. Ma noi siamo Dio, abbiamo fatto il mondo a nostra immagine e somiglianza. Infatti, sai, fa schifo davvero, questo mondo.
E per qualche volo solitario di anime ancora vibranti, c’è una massa che ha deciso di chiudere gli occhi sul destino di questa nostra terra, madre violata, sfruttata, agonizzante.
E noi, figli ingrati, nutriamo i nostri egoismi.
Orso, orso caro, a me i cacciatori non piacciono. Specie quelli che lo fanno "per sport". Non c’è divertimento nell’uccisione, solo barbarie.
Dovremmo uccidere, come te, solo per sopravvivere. O difenderci da un pericolo.
Io sono stata male, davanti a questa ennesima, triste notizia. Spero solo tu non abbia sofferto troppo. L’orso Bruno, in Germania, è stato abbattuto a fucilate, come se non avessimo, oggi, i mezzi adatti per catturare un animale. Tu invece sei stato avvelenato.
Spero che i tuoi occhietti, prima di chiudersi, abbiano potuto guardare un’ultima volta questo mondo perdonando la nostra miseria. Siamo miseri, davvero. E meschini, e crudeli.
Ogni animale protetto che muore è un passo avanti verso l’estinzione. Ma non si tratta della vostra. Sarà la nostra estinzione, alla fine, quando non ci saranno più orsi e foche, lupi e balene, tigri e foreste, quando i mari saranno di fiele e il cielo non distribuirà più aria.
Siamo ancora troppo presuntuosi per saperlo.
Comunque io non ti dimenticherò. Ti porterò nel cuore, come quel vecchio, piccolo orsetto che vegliava i miei sonni di bambina.
Una volta qualcuno disse che la civiltà di un popolo si vede da come tratta i suoi animali.
Beh, che dirti, orso caro? Se questo è un popolo.Se questo è un uomo.
IL PROFUMO DELLA SPERANZA
Ci sono momenti, nella vita di ognuno, in cui una speciale letizia esalta ogni fibra dell’essere. Accade spesso davanti a un dettaglio infinitesimale, quasi invisibile. In quei momenti il dolore si attenua, la memoria si arresta mentre ci affacciamo sul presente, solo su quello.
Non c’è anima che non abbia conosciuto questi momenti. L‘essere che giace dentro di noi si sveglia, si stiracchia, sgomita e si fa strada attraverso i labirinti mentali. Poi è, semplicemente.
In quei momenti il cuore palpita di speranza, zampilla profumi d’ambra e di miele, la terra non pesa più ma si solleva invece come uccelli pronti per la migrazione.
Me li ricordo, io, questi momenti. L’ultima volta è accaduto quando un raggio di sole mi ha toccato il viso. Camminavo svelta, ingavinata nell’uragano dei miei pensieri. E poi il sole che filtrava attraverso la foglia di un albero, vestendolo d’oro, mi ha colpito i capelli e le guance.
Ecco, silenzio, respiro, silenzio. Il mondo va avanti nonostante noi. Se sappiamo guardarlo ci regala carezze inaspettate. Piccole piccole.
Un’altra volta, anni fa, furono le nuvole che galleggiavano in una promessa di serenità. Mi sentii leggera come loro, con le braccia simili ad ali pronte a sfidare la convessità degli universi.
Accade solitamente con la natura, con il verde, guarda caso, della speranza.
Forse è per questo che oggi siamo tutti più tristi, imprigionati nel cemento, vibriamo al richiamo antico che un tempo ci appartenne.
La speranza profuma d’erba e di bosco, di fiori e di frutti. E’ fatta della sostanza del cielo. E’ sogno vivente.
Poi la vita ci atterra, ci schiaccia con il suo peso, spezza le primavere.
Eppure la speranza è sempre lì, nell’attimo sublime in cui ci arrendiamo.
PAGINE
La lettura è leggerezza. Anche quando è profonda. Somiglia un poco a quella "gravità senza peso" di cui parlava Calvino.
Essere buoni lettori è difficile, richiede impegno, attenzione, misura. Sospesa fra le parole, l’anima volta, poi plana sui personaggi, li immagina, li veste, mette loro addosso occhi e capelli. Parte di nuovo, si innalza in cielo per seguire le volute di pensieri che si librano in alto, a galla su una realtà invisibile fatta di sensazioni, parole non dette, tremori.
Ma è dopo, e veramente dopo, che cogliamo appieno il fiore della lettura. E’ quando, anni più tardi, la memoria incrocia una frase, una pagina; quando annusa l’odore di un personaggio, quando respira il messaggio sublime di qualche concetto che ha penetrato la pelle annidandosi dentro, in qualche luogo della coscienza.
Il buon lettore non dimentica mai nessun libro e allo stesso tempo li dimentica tutti.
Diventano "suoi" ma hanno bisogno di essere fecondati, come polline in cerca di fiori.
Li fecondiamo, quei libri, con l’elaborazione e la riflessione. Troppo spesso, invece, rimangono aridi esercizi di erudizione oppure, a seconda del tema, vacanzieri passaggi in giorni che tentano di evadere la noia.
I libri, che siano saggi o romanzi, hanno una vita propria solo se incendiano il cuore del lettore (il cuore, non la testa). Troppo spesso, invece, vengono usati come soldatini schierati sul campo presuntuoso dell’intelletto, che deve "mostrare" la sua inviolabilità culturale.
Ma loro, i dispettosi, fanno finta di piegarsi e invece si rifugiano più in là, ritirando dalle parole la linfa vitale. E le parole morte non servono a nessuno.
Le parole morte sono il corteo funebre che invisibile scorre accanto a ogni testa che le ha separate dal cuore.
IL GRILLO PER LA TESTA
Del Movimento 5 stelle si parla molto, ma è bene sugli unici punti in cui è davvero attaccabile, in cui mostra tutta la sua debolezza.
Li riassumiamo, per comodità.
Un movimento che ha come unico luogo deputato un blog di proprietà privata non è democratico. La democrazia prevede il dibattito, il confronto, la sintesi di risultati nati dalle discussioni. Ma né il blog, né il logo, entrambi di proprietà di Beppe Grillo, aderiscono ai fondamenti di un partito che si proclama democratico e soprattutto “nato dal basso”. Ma quale basso? Il “basso” esiste a livello territoriale, locale, ma la politica nazionale desta ben altri…pruriti. Ed è lì che il Movimento rivela le sue falle maggiori.
Il famoso portale per la democrazia diretta, promesso dal 2009, non è ancora arrivato. Possibile? Ma decidere in due è più semplice che decidere in ventimila. E qui né Grillo né Casaleggio dimostrano buone intenzioni. Strano, poi, che un partito che inneggia agli open source, al free web e affini sia così dispotico e blindato proprio nel suo nucleo essenziale: i sistemi di voto e partecipazione diretta degli attivisti. Non si crederà alla favola delle parlamentarie, così come si sono svolte? Un pugno di utenti e un pugno di voti non certificati da terzi.
Chi ha controllato? Manipolare, sul web, è molto semplice. Lo sa bene Casaleggio, con i suoi influencer e con i fake.
Dunque meglio calare dall’alto una piattaforma DOC, ovvero a Direzione Ovviamente Controllata. Ed è quello che arriverà.
I soldi. Se si pretende la trasparenza, bisogna anche essere i primi a mostrarsi inappuntabili. Quali sono gli introiti del blog? E’ con quei soldi che si autofinanzia il partito? sappiamo bene che girare con i camper a suon di pane e mortadella non basta… ed è qualcosa che sa di radical chic e soprattutto di finto.
Il giorno in cui tutti potremo conoscere le cifre della trasparenza, allora forse il Movimento avrà fatto un passo avanti.
Ma Casaleggio, se vuole uscire dal conflitto di interessi che somiglia tanto a quello di Berlusconi, con il quale condivide una massa di gente in mano a uno (due, qui) leader carismatico, deve chiudere la sua azienda. Punto e basta.
E piantarla di usare il sito di Beppe Grillo trasferendoci tutto. Anche le attività del parlamento, ovviamente sono lì. E ogni clic sul sito sono soldi, indicizzazioni, fama e potere.
Casaleggio vuole fare politica, come ha mostrato già dal 2004 candidandosi con un successo condominiale? Bene, lo faccia. Lo sta già facendo. Ma non mescoli interessi pubblici e privati. Per 20 anni abbiamo già subito un manager che voleva fare la (falsa) rivoluzione. Ora basta.
La frode. Possibile che nessuno degli attivisti si sia insospettito quando Casaleggio al Corriere ha dichiarato di essere il co-fondatore del Movimento? Per anni hanno creduto fosse “un semplice tecnico” (parole loro, non mie). Beh, qualcosa non va.
Anche per quello che riguarda i post. Che sono stati spacciati per post di Beppe Grillo. Solo i più accorti si erano resi conto già da qualche anno che quello stile, e alcune raffinatezze, non erano di Grillo. E a me, personalmente, non piace questo “Vangelo apocrifo” (lo chiamo Vangelo non a caso, dato che loro, nei social, esortano a “spargere il Verbo”). I post sono di Casaleggio. Il Richelieu che dietro le quinte si muove davvero come un cardinale.
L’illusione della democrazia diretta.
La democrazia diretta propinata agli attivisti è un bel concetto, una bella idea, ma lo sappiamo, come lo sapeva Platone, che a noi, che viviamo nel mondo della Carverna, arriva solo il riflesso distorto e illusorio di quell'idea.
Perché è un’idea realizzabile su scala nazionale. Per molti motivi. La contrapposizione creata tra democrazia diretta e rappresentativa è funzionale all’abbattimento di ogni mediazione, che serve a decidere, utile per fare e disfare a proprio piacimento dando alla massa l’illusione di una effettiva partecipazione. Che a livello locale è importante, ma su scala nazionale rischia di essere un pugno di mosche. E lo sa bene Casaleggio, uomo di marketing e, soprattutto, manager con lunga esperienza aziendale.
Ma veramente crediamo che i cittadini passeranno ogni giorno a discutere di decreti leggi e faccende internazionali orientando il parlamento, il governo?
La vera soluzione sarebbe un mix: una democrazia diretta che realizza uno stretto ed effettivo controllo sui rappresentati eletti direttamente, suscettibili di ricambio in caso di provate inadempienze e disonestà (una chimera, ancora oggi).
Tuttavia l’alta partecipazione dei cittadini comporta una cosa che il Movimento 5 stelle si è ben guardato dal fare: la formazione.
Al di là dei tavoli locali di discussione, mancano, sono mancate e mancheranno proposte formative per attivisti e cittadini.
Non si può parlare di democrazia diretta senza formare le persone sulle questioni importanti.
Che non solo politiche. Del resto, Grillo è il primo a mancare di questa formazione. Divide il mondo in bianco e nero (lui è il bianco, ovviamente) proiettando anche rabbie personali (non mi si venga a dire quanta gente andava ai suoi spettacoli: l’ego narcisista vuole ben altro, in fondo anche le televisioni e i giornali di Berlusconi andavano benissimo… ma lui è sceso in campo comunque, guarda un po'). Il suo ingiusto allontanamento dalla Rai ha creato comunque una V (for Vendetta) che finalmente vede la possibilità di placarsi. E non è consapevole (o se ne frega, ma io opto per la beata ignoranza, in questo caso) dell’influenza di un leader/padre (ogni leader diventa un padre, con tutti i fantasmi e le proiezioni annesse) sugli elettori/figli che impareranno, così:
il non confronto
la denigrazione del “nemico” e la sua non legittimazione all’esistenza
la non tolleranza verso un pensiero diverso
l’uso della volgarità come norma
l’aggressione come unico mezzo di relazione con gli altri
Bella responsabilità. Se Berlusconi ha generato una massa di amebe, Grillo rischia di opprimerci con un esercito di piccoli Stalin. Non so, ma anche il quel “cittadino” al posto di “onorevole” sento echi stalinisti. Non è un cittadino o un compagno che fa la differenza. Anzi, ho sempre paura di quel “cambiare tutto per non cambiare nulla”.
In fondo, perché non lasciare “onorevole” assumendosi l’onere…di esserlo sul serio?
Sicuramente grillo e Casaleggio sanno come cavalcare le masse. E scendere in piazza. Peccato però che spesso inneggino alle agorà greche dimenticandosi la grande lezione di civiltà che ci hanno impartito. Lì si discuteva, nel rispetto di un confronto democratico….Qui si impone, si urla davanti a una folla di “adepti” per poi sottrarsi a ogni dibattito e confronto (mandando altri, a pugni chiusi, che manifestano la stessa arroganza). Il pensiero diverso viene bandito.
L’intelligenza collettiva della Rete. Si sente sempre più parlare di intelligenza collettiva della Rete. Come se fosse un ente a sé stante, un Golem che vive di vita propria. Invece è una semplice somma. Se ho tanti deficienti, avrò una deficienza moltiplicata. Borges scriveva “Temo due cose, gli specchi e la copula, perché moltiplicano l’uomo”. Beh, in questo senso, io temo anche la Rete. Specialmente osservando i commenti dell’utente medio, da facebook a twitter, dalle faccende culturali a quelle politiche.
Dunque la somma funziona se i singoli hanno maturato davvero una coscienza, cosa sulla quale bisogna ancora lavorare, mi pare.
La Rete, per Casaleggio, è una nuova Religione. Diffidate sempre di chi vede solo le luci, e ignora le ombre. Vanno di pari passo.
Ora, i due sono comunque bravissimi. Anche nella scelta del logo, con il famoso richiamo a V for Vendetta.
Ma di Anonymous c’è poco o nulla, i quanto qui si tratta di un’organizzazione verticistica, blindata, chiusa a ogni dissenso interno ed esterno.
Insomma, io diffido del nuovo Verbo di Grillo. Che tanto nuovo, a parte i mezzi usati, non è.
LE NOTTI DI TUTTI
Così, domenica dopo domenica, anno dopo anno, abbiamo imparato cose che a dirle sembrano ridicole tanto dovrebbero essere patrimonio comune: che c’erano due Italie e che non ce n’era per definizione una buona e una cattiva, che entrambe avevano cose che ci piacevano, che da tutte e due le parti c’erano persone per bene, che a destra, a sinistra, al centro si potevano trovare risate, affetto, belle chiacchierate, discussioni, disagio o tristezza. Di una cosa mi resi conto subito: che eravamo una famiglia che spiazzava, in modo positivo, rompevamo gli schemi. Quando con mia madre entravamo all’inaugurazione di una mostra etichettabile come di sinistra, ci poteva essere un attimo di gelo, ma non ce ne siamo mai preoccupati perchè poco dopo il clima cambiava, tornavano al centro le persone e allora la gente ci guardava con simpatia e forse rimetteva in discussione qualcosa.
(Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là)
Pinelli assassinato.
Me la ricordo, questa scritta. Ero solo una bambina, ma quelle parole in carattere stampatello, rosso, che riempivano il muro della scuola, non se ne sono mai andate via dalla mia mente. Perché anche i bambini hanno presagi, leggono e ascoltano le cose dei grandi e intuiscono, intuiscono l’orrore di un mondo adulto in cui nessuno ti protegge più. In cui forse ti ammazzano.
E io all’epoca non sapevo ancora leggere.
Crescendo diventai più alta, imparai un sacco di cose sulla storia e sul nostro paese, cominciai a fare progetti per il mio futuro. E imparai a leggere. E la scritta divenne più minacciosa. Stava lì, sempre uguale. Solo il rosso, con il tempo, virò verso un rosato, come velato da una leggera nebbia mattutina. Ma allo stesso tempo resisteva, ostinato, alle piogge.
Così venni finalmente a sapere chi era Pinelli. E perché tanta gente era arrabbiata. E perchè avevano ammazzato, nel 1972, Luigi Calabresi.
In seguito mi appassionai molto agli anni di piombo (l’evidenza dell’impatto acerbo con quella scritta, e del fascino inquieto e misterioso che provocò su di me è ancora nitida). Lessi libri, giornali, cercai, come tutti, di capire.
Quegli anni mi hanno sfiorato con il vento leggero dell’infanzia, mentre altri sono stati invece colpiti dal piombo delle pallottole. Tanti, troppi morti. Ovunque.
Anni di ideologie, di lotte armate, di morti ovunque.
Ma la morte è sempre la morte. Non è di destra, nè di sinistra. E’ un fatto democratico. Eppure, come avvoltoi, schediamo i morti e prontamente li mettiamo in fila, ordinati, etichettati. Invece il dolore dei parenti, quello è uguale per tutti. Proprio come la morte. Già, ci sono due cose che sfuggono alla danza delle etichette e delle commemorazioni: la morte e il lutto dei familiari. Uguali, senza colori e confini. Infiniti. Non importa se a morire erano fascisti o anarchici. Le famiglie piangevano lo stesso pianto, la vita di molti si sgretolava nell’attimo in cui il respiro di qualcuno si spezzava sulla soglia delle sue labbra.
Il libro di Mario Calabresi è molto giornalistico, ricco di fatti, dati e citazioni. Ma racconta anche di un dolore privato che diventa pubblico, e di come quel "pubblico" nasconda anche ostacoli e delusioni.
Ma, soprattutto, è una storia d’amore. Verso un padre perduto e una madre che ha resistito.
Fino all’arrivo di Tonino, il pittore di sinistra che aiutò a colorare di nuovo i giorni foschi di quella famiglia. A questo si riferisce il brano che ho tratto. Non più destra, non più sinistra. Il mondo borghese incontra quello scarmigliato delle "comuni" e nasce un sodalizio vero, che attraversa i pregiudizi.
C’è qualcosa di meraviglioso in tutto questo. Un commissario ammazzato perchè diventato ostaggio di una campagna di linciaggio, un simbolo, suo malgrado, del potere reazionario e fascista. E un artista di sinistra che accoglie fra le sue braccia quella famiglia mutilata, e la aiuta a "spingere la notte un po’ più in là".
Anche per questo Mario Calabresi oggi è un uomo equilibrato, ricco di una misura che dimostra una vera elaborazione interiore.
Il piombo dal cuore non si solleva mai veramente. Ma si va avanti, e si cercano le ragioni. Le si cercano al di là degli schieramenti e dell’odio.
Così dovremmo fare, sempre. Con mente aperta, con cuore disponibile. Difficile, certo.
Io non so se Pinelli sia stato assassinato, non so se la polizia lo ha buttato dalla finestra, quel giorno.
Non lo so. Ma so che è morto.
Un uomo è morto.
E non so se Calabresi si trovasse davvero in un’altra stanza, come confermano alcune prove. Ma so che è morto, anche lui.
Un altro uomo è morto.
Pinelli e Calabresi, legati per sempre. Ogni morte prematura è una notte che piega il sole, lo depone in cantina. E quelle morti, le morti di piombo, sono una notte che appartiene a noi tutti.
Ieri come oggi, le notti di tutti noi.
IL GESTO DI MIO PADRE
A. morì in un giorno precoce. La sua vita ancora giovane si spezzò e cadde come un ramo in inverno.
A volte i talenti non ti salvano dalla distruzione operata dalle parti infere che, operose, lavorano dissolvendo, corrodendo, mutilando.
Era un bel ragazzo, A. Aveva tutto ciò che sembra necessario: era bello, aveva una famiglia ricca che non gli faceva mancare nulla, era pieno di donne.
Ma il suo dolore, dentro, se lo mangiò pezzo per pezzo. Usò l’eroina per farlo.
La sua vita si schiantò ai bordi di un’autostrada mentre andava a cercarsi una dose.
Conoscevamo da sempre lui e la sua famiglia.
Sapevamo delle lotte infinite di sua madre, eroina contro un’altra eroina, letale. Sapevamo delle sue speranze e delle suoi crolli angosciati. Oscillava come un pendolo, seguendo emersioni e ricadute del figlio. Tic Tac. Tic Tac. Tic Tac…
Fino allo schianto.
Mio padre le era sempre stato vicino, ne aveva raccolto le lacrime nelle mani a coppa.
Il giorno dei funerali – un giorno senza tempo, come quello di ogni funerale – ci fu la fila per le condoglianze. Facce tristi, sussurri alle orecchie della mamma rimasta sola, strette di mano.
Quando toccò a mio padre, lui fece qualcosa che è per sempre rimasto impresso nella mia memoria.
Si mise davanti a lei. Non le strinse la mano nè le baciò la guancia.
La fissò con occhi disperati e dolci, alzando le sopracciglia a chiesetta sopra un sorriso triste. Scosse delicatamente la testa sulle spalle sollevate, con le braccia allargate a dimostrare l’impotenza nel dire o nel fare qualunque cosa.
Come se tutto fosse troppo grande per dire o fare qualcosa di davvero sensato.
Come se quel gesto racchiudesse tutto il suo amore e la condivisione di quel dolore.
In quell’attimo, lo amai di un amore profondo. Fece l’unica cosa possibile. Vera.
Infatti non puoi consolare una madre alla quale la droga ha rubato il figlio.
Ma c’era, nei suoi occhi, nel suo sorriso triste mentre la guardava, anche un’intesa profonda, quella di un genitore che sa e che ha condiviso parte di quella battaglia perduta.
Lei ha ricambiato quello sguardo speciale, ha annuito per poi procedere con le strette di mano e i baci sulla guancia che si affollavano e pigiavano dal fondo.
Non ho mai scordato quell’attimo.
Ricordiamo le persone attraverso gesti piccoli, infintesimali. Da subito, ho saputo che quello era uno dei momenti speciali che avrebbe custodito, nel tempo, la memoria di mio padre.
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