I GIARDINI DELLA MORTE
I cimiteri sono luoghi strani. Stanno sulla soglia di un altro mondo, ne radunano i cittadini contandone fotografie e date di nascita e morte.
Lontani dai rumori delle nostre città, chiedono ancora l’esercizio di un silenzio difficile.
Lì, la morte sbatte le sue ali ricordandoci la finitezza della nostra parabola umana che altrimenti vedremmo estesa fino ai confini di ogni universo.
Peccato che i cimiteri di oggi somiglino sempre più alle nostre metropoli, con le loro costruzioni a più piani erette verso un cielo indifferente a quel tipo di "salita".
Cittadelle di marmo in cui gli uomini, anche da morti, si dividono i privilegi degli spazi migliori.
Ma non trovo, io, spazi migliori.
Anni fa, a Edimburgo, rimasi incantata da un cimitero. Le tombe erano lì, a contatto con la nuda terra, accarezzate dall’erba che cresceva sopra e intorno abbracciando chi lì giaceva, con i suoi resti mortali, per sempre. La natura prevaleva. E non era una natura pettinata, organizzata, condizionata come quella che pretendiamo di gestire oggi, perfino nei cimiteri dove l’erba cresce solo là dove l’uomo decide. Ma la morte, la morte cresce ovunque, e non accetta le altrui decisioni.
Così, in quel cimitero, a Edimburgo, i morti sembravano vivere perfettamente in armonia con la natura.
Tornati alla terra, quella terra che è anche simbolo di umiltà, humus, troppo spesso sottoposta all’arroganza dei nostri cimiteri moderni, tesi alla verticalizzazione, alla conquista di condomini affollati di ossa che si sottraggono all’umidità cavernosa di quella Madre Antica che ci partorisce e ci accoglie di nuovo dopo la nostra avventura.
Come sono brutti, quei condomini.
A Edimburgo, vagavo attraverso le tombe nella penombra del bosco, l’orecchio teso ad ascoltare la meraviglia dei suoni appoggiati tra il silenzio e il canto degli uccellini. Poche fotografie sulle lapidi, scritte semplici. Il senso del sacro pervadeva quel luogo, e quasi tornare alla vita, alla folla delle strade principali, ai negozi scintillanti che vendevano i kilt, sembrava una forzatura, uno strappo indebito al tempo incantato di una sospensione tra un mondo fatto di cose e un mondo d’aria e di memorie.
Non ho mai scordato quella sensazione. Qui, nei cimiteri moderni, mi smarrisco. Li trovo tristi, artificiali come la società che rispecchiano.
Forse è per questo che non vado mai a trovare mio nonno, grande amore della mia esistenza, rigore e bontà, crogiuolo di dolore sul respiro della sapienza.
Non mi piace, la cittadella di morti in cui vive. Abita al secondo piano di un palazzo dedicato alla sua, alla nostra famiglia. Ma come vorrei che la sua tomba si trovasse in un prato, semisepolta dalle foglie, offerta come dono all’erba e al cielo.
Quando arrivammo tutti lì, dopo il funerale, gli operai iniziarono la sistemazione della bara, spingendola all’interno del pianerottolo a lei riservato e richiudendo l’ingresso con calce e mattoni. Stavo accucciata in ginocchio, come un bambino smarrito fra le gambe dei parenti che, muti, assistevano all’estremo sigillo. Ricordo le calze trasparenti di mia nonna, ricordo che alzai il viso seguendo i confini delle sue curve stanche trovandomi davanti a due occhi muti, a una tristezza così raggrinzita da non avere più acqua per gli occhi. Mia madre poggiava la testa accanto alla sua mentre entrambe fissavano gli ultimi ritocchi degli operai.
Quel rumore secco, metallico, non lo scorderò mai. Era più doloroso della morte stessa.
Quando avevo toccato mio nonno nella bara, prima che fosse chiusa, la sua mano di ghiaccio mi aveva impressionato ma l’impressione presto era stata scalzata dallo stupore per quel corpo immobile, con quelle narici fisse dalle quali non usciva più l’aria, da quell’aspetto irreale a causa del trucco che ne aveva fissato l’espressione rendendola per sempre immobile, tesa in una posa quasi da fotografia.
Mi sembrò che si muovesse. Solo un attimo. Poi tutto tornò immobile. E sentii che non era più lì. Sentii che il corpo senza la vita è solo una massa di materia inerte, prossima alla decomposizione. Pensai al serpente e alla sua muta. Pensai alla crisalide e alla farfalla. Ecco, lui era diventato una farfalla. Era volato altrove, in un tempo senza tempo.
Certo, le sue ossa sarebbero rimaste lì, al cimitero. Ma non lo cercai più in quel luogo.
Lo cercai altrove.
Ogni giorno la gente insegue e onora la memoria in questi cimiteri moderni, così brutti e lontani dagli arcani misteri che circondano la vita e la morte.
Quando non ci sarò più, vorrei tornare polvere, e vorrei che quella polvere fosse gettata nel mare che ho tanto amato. Non voglio stare in quei condomini così freddi.
E poi penso che in fondo non mi importa. Mi importa solo l’attimo in cui saprò come ho vissuto. L’attimo in cui saluterò con la manina la vita abbandonando ciò che ho creduto e saputo. L’attimo in cui ogni orpello svanirà per lasciare spazio all’essenza.
I cimiteri sono pieni di fiori. Poveri fiori, uccisi dalla loro bellezza. Vengono colti in continuazione per adornare la morte altrui, per rendere meno triste quell’assenza che la nostra vita crede inspiegabile.
Mio nonno non li voleva, i fiori. Diceva che erano troppo belli per morire raccolti da mani svelte e distratte.
Fu così che la sua tomba non ospitò mai nessun fiore a morire accanto alle ossa di chi deve omaggiare.
La sua tomba è piena solo dei ricordi d’amore di mia madre e dei suoi fratelli. Solo qualche piantina, ogni tanto, cerca di avvicinarlo a quella terra da cui i nostri cimiteri moderni ci hanno allontanato.
Non abbiamo bisogno dei fiori. Il fiore più bello è l’amore che abbiamo provato.
SILENZI
A volte le parole sono come la neve. Non fanno rumore. Rimangono sospese nell’aria, come un sussurro che insegue una memoria.
Cadono con leggerezza, si sciolgono nel ventre della nostra Terra interiore e scompaiono, e tornano, e scompaiono, e tornano.
Chi scrive a volte ha bisogno di spazi vuoti tra le parole.
In quegli spazi chi scrive appoggia lo zaino ai piedi di un albero, si siede stanco, affamati e assetato per il lungo viaggio.
Ci vuole ordine, respiro, tremore.
Abbiamo con noi la nostra bussola?
E la coperta per le notti in cui avremo freddo?
Trasciniamo simulacri o memorie piene di verità?
Quali parole lasciamo andare?
Quali invece vogliamo scoprire?
Nel silenzio la parola fa il pieno, in quel vuoto ritempra sé stessa.
E riparte. Riparte sempre.
LA MAGIA DI MERLINO
Merlino detta le sue poesie
Ho cent’anni. Un secolo è un’eternità da vivere e, una volta che lo si è vissuto, un pensiero fugace dove tutto – gli esordi, la coscienza, l’invenzione e la disfatta – si rapprende in un’esperienza senzza durata. Porto il lutto di un mondo e di coloro che l’hanno popolato. Sono l’unico superstite.
(Merlino, Michel Rio)
Merlino è una delle figure più belle del ciclo arturiano. L’ho sempre amato, find a quando vidi il meraviglioso Excalibur. L’ho amato nelle pagine dei romanzi medievali che ne narravano ascesa e declino, l’ho amato in ogni notte di Luna in cui la magia si specchia nel mondo terreno e scivola dolcemente sul dorso delle cose, dissolvendone gli argini.
Merlino racconta di un mondo pagano che fu, di un mondo in cui l’uomo viveva ancora a contatto con gli spiriti sottili degli elementi, abbracciando una natura da cui era a sua volta abbracciato, in un tempo circolare, incorrotto.
La sua sapienza è operativa, usa l’Acqua la Terra, il Fuoco e l’Aria. E’ lui a conoscere i destini del mondo. Ma anche lui, come ogni uomo, ha una debolezza. Sarà infatti Morgana a farlo inciampare, imprigionandolo, rubandogli la magia.
Non basta la sapienza del mondo, a salvarci. Corriamo incontro al nostro destino anche quando sappiamo che ci faremo male, attraversando i crinali dell’esistenza, facendoci spazio tra foreste di pietra che vorremmo trasformare in brezza.
Merlino conosceva il suo destino, ma non poté evadergli. Così doveva essere. E così fu.
E questa figura malinconica, che sussurra nelle foreste di un tempo che fu, vigilando sull’opera umana che nessun dio è riuscita a fermare, attende il tempo della dissoluzione affinché una nuova aurora si compia.
Merlino è incanto. Merlino è stupore. E’ il seme del bene e del male. Bagliore di ogni conoscenza e della sua fine. Magia degli invisibili mondi che abbiamo smarrito.
Nel suo sonno, il respiro ancora oggi si mescola al vento della foresta di Broceliande. Là dove l’uomo non osa ascoltare.
LIBERTA’
Non vale la pena avere la libertà se questa non implica la libertà di sbagliare.
(Gandhi)
Pensiamo sempre alla libertà immaginando gioia, appagamento, cieli tersi e volo d’uccelli.
Ma Gandhi dice bene.
Libertà è soprattutto errore.
Essere liberi non può non implicare l’errore.
Ogni nostra scelta, ogni gesto, comporta conseguenze che non sappiamo.
In un film, una vecchietta dice al nipote: "Quando pensi di fare bene, fai male, quando pensi di fare male, fai bene…E chi lo sa veramente?"
Non lo sappiamo, infatti. E poi, spesso, gli insegnamenti più forti derivano dai nostri errori, o dai "mali" che ci sembra di avere compiuto.
L’azione è spesso ignota, ignota nel senso che non ne conosciamo appieno l’origine e la destinazione che si svelano invece man mano, rimbalzando avanti e indietro nel tempo che scorre.
E, in questo gioco, la libertà di sbagliare è un dono prezioso.
Non ci sono, in fondo, veri errori. Cos’è l’errore? Errore rispetto a chi e cosa?
L’unico vero errore è quello di chi pensa di non aver sbagliato mai.
IL COLORE DELLA NOTTE
Quando vi trovate davanti a una personalità grande, chiedetevi dove sta il suo dolore
(Léon Bloy)
Sto leggendo Variazioni selvagge e incontro questa citazione di Bloy.
Mi fermo. Come sempre, i grandi scrittori in una riga nascondono l’universo.
Dietro ogni talento, dietro ogni sensibilità, dietro ogni slancio iperbolico dell’intelligenza si annida un dolore.
È lui che scava negli anni, rintanato magari nella notte della coscienza (da dove però lavora, lavora ininterrottamente) oppure appoggiato più in superficie, aggrappato alle scogliere della nostra ragione per essere bagnato, di nuovo, ogni volta che il mare si agita per una delle infinite tempeste che attraversiamo.
Può mordere l’anima con un attacco diretto oppure scegliere la via del serpente, e allora eccolo lì che striscia, nell’ombra e nell’umido, avanzando, silenzioso, fra le pozzanghere che specchiano una memoria scomoda sulla quale potremmo affogare.
Ssst, non fare rumore, non ascoltarlo, è solo un dolore strisciante che non vuole farsi notare, schiacciato fra due sassi mentre tu, ostinato, con quella torcia stai cercando di illuminarlo salvo poi desiderare la fuga non appena avverti la pulsazione del suo sangue freddo, venefico. Non muoverti. Non muoverti. Non muoverti, per carità.
Se stai immobile, se fai finta di essere morto, se congeli il respiro e lo trasformi in cristallo, allora lui si sente al sicuro se ne va, si allontana senza aggredirti con il veleno di quel ricordo.
Oppure puoi decidere di affrontarlo. E allora il serpente comincia a danzare per compiere la sua muta. Ecco allora che la pelle muore mostrando la nudità del tuo dolore, la terribile, insolente, oscena nudità di quella ferita in cui si spezza ogni sigillo residuo.
Ha il colore della notte, il dolore. È un manto scuro privo di stelle su cui però possiamo appoggiare la luna, ricamando il cerchio latteo con dita sottili che reggono il filo della speranza.
E così spunta un piccolo fiore lunare. Tremulo, incerto, cresce nelle nostri notti illuminando la strada che, davanti, ci separa da lui, dal dolore, rendendolo più ovattato, più simile al sogno.
Ma ognuno, ogni "grande" personalità, come dice Bloy, ha un dolore immenso come il suo genio. La scintilla può essere artistica oppure incline alla geometria della ragione, può inseguire sogni e passioni o farsi tensione intellettuale, lama di rasoio che misura l’evidenza di ogni pensiero.
Non importa. Importa capire che lì dietro c’è un grande dolore.
Dove sta? Perfino nel comico più sguaiato e goliardico si nasconde il dramma della sofferenza (penso, adesso, al magnifico e mai dimenticato Vittorio Gassman), perfino quelle notti hanno il loro colore, hanno quel manto privo di stelle.
Chi è invece riuscito ad accendere una fiaccola, in quel buio, ha compreso che se la mutevole Luna ci darà sensibilità e compassione, è con quel fuoco che bruceremo per tutta la vita. Ma bruceremo di vita. Più grande sarà quella fiamma, più il dolore si farà tempra. Sarà gradino e non muro.
Purtroppo l’anima che molto soffre molto impara. Non si tratta di masochismo o moraleggianti e tediosi vademecum religiosi per la "salvezza"- E’ che il dolore ci forgia sul serio. Maestro spietato, tortura e cavillo dei nostri giorni affannati.
Ombra delle notti, febbre che spezza il riposo, assillo che insegue ogni parola e ogni gesto.
Sollevando la tenda della notte l’uomo può accarezzare la Luna mostrandole il fuoco ardente del Sole. E quel fuoco su cui si incendia il dolore sarà anche la forza centrifuga di ogni atto creativo.
Ognuno ha la sua notte. La porta segretamente con sé, nascosta sotto i vestiti, fra i capelli, dietro gli occhi oppure nella bocca serrata.
Se riusciamo a sentire dove sta quel dolore, se riusciamo a percepire la notte, avremo acceso una piccola alba.
In noi e in ogni altro essere umano che ci capita di sfiorare.
I NOSTRI MARI D’INVERNO
Sono nata in una cittadina sul mare. L’ho sempre visto dal terrazzo della casa in cui abitavo, disteso oltre i vecchi tetti delle case, oltre le costruzioni più nuove, violenza e vergogna di questa modernità a volte così oscena, l’ho visto adagiato sull’orizzonte come una dea nel suo Olimpo, o una ninfa in un sacro bosco.
Quel lembo di mare che confina con il cielo è sempre stato lì. Era lì nei giorni arruffati dell’infanzia, in quelli ribelli dell’adolescenza, quando il "no" tesse ogni parola. Io cambiavo, crescevo, e lui rimaneva lì, testimone muto delle mie migrazioni e dei miei rimpatri.
Anche adesso, in questa mattina precoce nella casa dei miei genitori, mentre il computer riflette il primo sole che abbaglia le nuvole chiedendo loro lo spazio, e queste si ritraggono, come intimorite, in attesa di veder spuntare tutti i raggi, simili a tante manine tese verso la terra che ancora dorme rannicchiata nei suoi sogni domenicali; anche adesso, dicevo, il mare è laggiù, mi accompagna, mi assiste, mi guarda. Sempre lo stesso mare. Io invece così cambiata.
Ogni ritorno in questa terra è anche la misura del mio cambiamento. E la misura dei limiti insuperati.
Ma nel suo respiro di sale, laggiù, avverto il gioco delle possibilità.
Lui è sempre stato più ampio di me, mi ha sempre incoraggiato a cercare il mistero del punto esatto in cui il Cielo incontra la Terra. Un non luogo fra due mondi, come il tramonto che separa e unisce il giorno e la notte.
Il mare d’inverno è un luogo magico per ognuno di noi. E’ simbolo e occasione, sogno e libertà.
Alcune leggende antiche dicono che il cielo stellato sopra di noi sia un altro tipo di mare, un oceano cosmico in cui nuotiamo alla fine dei nostri giorni. Un tuffo supremo, in cui non siamo più, immersi nelle acque di un altrove diverso.
Ho sempre camminato al mare, d’inverno. Ogni occasione di ritorno, qui, diventava una passeggiata fra le sabbie dei tempi in cui ero ancora una piantina giovanissima in cerca di spazio per allungarsi oltre ogni perimetro.
Quante orme serene, sulla sabbia. E quante impronte disperate. Le onde oscillavano come a inseguire i miei umori.
C’era con me un cane, allora. Un pastore tedesco. Il mio pastore tedesco, lasciato poi alla mia famiglia quando iniziarono turbamenti e pellegrinaggi in tutto il pianeta per scoprire, anni dopo, che esattamente lì, in quella sabbia umida di inverni e di lacrime, avevo già incontrato quello che ovunque stavo cercando. Brahma mi camminava avanti, inseguiva i sassi che le tiravo avanzando fra la nebbiolina che qui, da queste parti, cancella i contorni delle cose divertendosi a giocare con le nostre certezze.
Il mio mare d’inverno, quello vero, fu rappresentato da quella ragazza e quel cane lupo che sfidavano il freddo e camminavano senza sosta sulla battigia, divertendosi a seguire la linea incerta in cui le onde si infrangono sulla riva nella danza del vento.
Quando Brahma morì i miei non me lo dissero. Vivevo già a Roma da anni. Lei ne aveva undici, allora, e un tumore alla mammella che se la mangiava.
Seppi solo dopo, dalla voce tremante di mia madre, che il giorno in cui lei non si alzò più chiamarono il veterinario. Mio padre andò a prenderlo e lo portò a casa nostra. Mia madre, con quel coraggio arcano che solo una donna conosce, prese in braccio Brahma accarezzandola, sussurrandole dolci parole per il suo viaggio, mentre il medico le iniettava lentamente la morte. Mio padre, nascosto dietro un angolo, singhiozzava.
Da allora, da quando non c’è più, ripenso ai miei mari d’inverno con lei. A come, in quella semplicità , eravano felici. Lei con i suoi sassi e le onde che le schizzavano addosso, io con il mare accanto che a ogni mio passo, nella solitudine di quei freddi pomeriggi piovigginosi, cercava parole che pensavo di non saper ascoltare (ma che adesso decifro nella loro pienezza).
Da allora, quando capita, torno a passeggiare sulla sabbia d’inverno. E il mare mi segue, mi guarda, mi chiede. E io rispondo sempre: "Non posso restare, non posso andare. Posso solo cercare di essere". E lui mi risponde con le sue onde che sempre nascono e muoiono, come ogni respiro, come il giorno e la notte. Come ogni cosa che danza fra permanenza e mutamento. E io, accanto a questo mare infinito, sento ancora il sussurro del vento. Lo ascolto. Mi porta lontano, così lontano che mi aggrappo alla barriera dei miei ricordi sapendo che dovrò guardare oltre, nel segreto giardino che fiorisce nel luogo in cui il cielo incontra la terra.
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