Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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I GIARDINI DELLA MORTE

 

 

I cimiteri sono luoghi strani. Stanno sulla soglia di un altro mondo, ne radunano i cittadini contandone fotografie e date di nascita e morte.

Lontani dai rumori delle nostre città, chiedono ancora l’esercizio di un silenzio difficile.

Lì, la morte sbatte le sue ali ricordandoci la finitezza della nostra parabola umana che altrimenti vedremmo estesa fino ai confini di ogni universo.

Peccato che i cimiteri di oggi somiglino sempre più alle nostre metropoli, con le loro costruzioni a più piani erette verso un cielo indifferente a quel tipo di "salita".

Cittadelle di marmo in cui gli uomini, anche da morti, si dividono i privilegi degli spazi migliori.

Ma non trovo, io, spazi migliori.

Anni fa, a Edimburgo, rimasi incantata da un cimitero. Le tombe erano lì, a contatto con la nuda terra, accarezzate dall’erba che cresceva sopra e intorno abbracciando chi lì giaceva, con i suoi resti mortali, per sempre. La natura prevaleva. E non era una natura pettinata, organizzata, condizionata come quella che pretendiamo di gestire oggi, perfino nei cimiteri dove l’erba cresce solo là dove l’uomo decide. Ma la morte, la morte cresce ovunque, e non accetta le altrui decisioni.

Così, in quel cimitero, a Edimburgo, i morti sembravano vivere perfettamente in armonia con la natura.

Tornati alla terra, quella terra che è anche simbolo di umiltà, humus, troppo spesso sottoposta all’arroganza dei nostri cimiteri moderni, tesi alla verticalizzazione, alla conquista di condomini affollati di ossa che si sottraggono all’umidità cavernosa di quella Madre Antica che ci partorisce e ci accoglie di nuovo dopo la nostra avventura.  

Come sono brutti, quei condomini.

A Edimburgo, vagavo attraverso le tombe nella penombra del bosco, l’orecchio teso ad ascoltare la meraviglia dei suoni appoggiati tra il silenzio e il canto degli uccellini. Poche fotografie sulle lapidi, scritte semplici. Il senso del sacro pervadeva quel luogo, e quasi tornare alla vita, alla folla delle strade principali, ai negozi scintillanti che vendevano i kilt, sembrava  una forzatura, uno strappo indebito al tempo incantato di una sospensione tra un mondo fatto di cose e un mondo d’aria e di memorie.

Non ho mai scordato quella sensazione. Qui, nei cimiteri moderni, mi smarrisco. Li trovo tristi, artificiali come la società che rispecchiano.

Forse è per questo che non vado mai a trovare mio nonno, grande amore della mia esistenza, rigore e bontà, crogiuolo di dolore sul respiro della sapienza. 

Non mi piace, la cittadella di  morti in cui vive. Abita al secondo piano di un palazzo dedicato alla sua, alla nostra famiglia. Ma come vorrei che la sua tomba si trovasse in un prato, semisepolta dalle foglie, offerta come dono all’erba e al cielo.

Quando arrivammo tutti lì, dopo il funerale, gli operai iniziarono la sistemazione della bara, spingendola all’interno del pianerottolo a lei riservato e richiudendo l’ingresso con calce e mattoni. Stavo accucciata in ginocchio, come un bambino smarrito fra le gambe dei parenti che, muti, assistevano all’estremo sigillo. Ricordo le calze trasparenti di mia nonna, ricordo che alzai  il viso seguendo i confini delle sue curve stanche trovandomi davanti a due occhi muti, a una tristezza così raggrinzita da non avere più acqua per gli occhi. Mia madre poggiava la testa accanto alla sua mentre entrambe fissavano gli ultimi ritocchi degli operai.

Quel rumore secco, metallico, non lo scorderò mai. Era più doloroso della morte stessa.

Quando avevo toccato mio nonno nella bara, prima che fosse chiusa, la sua mano di ghiaccio mi aveva impressionato ma l’impressione presto era stata scalzata dallo stupore per quel corpo immobile, con quelle narici fisse dalle quali non usciva più l’aria, da quell’aspetto irreale a causa del trucco che ne aveva fissato l’espressione rendendola per sempre immobile, tesa in una posa quasi da fotografia.

Mi sembrò che si muovesse. Solo un attimo. Poi tutto tornò immobile. E sentii che non era più lì. Sentii che il corpo senza la vita è solo una massa di materia inerte, prossima alla decomposizione. Pensai al serpente e alla sua muta. Pensai alla crisalide e alla farfalla. Ecco, lui era diventato una farfalla. Era volato altrove, in un tempo senza tempo.

Certo, le sue ossa sarebbero rimaste lì, al cimitero. Ma non lo cercai più in quel luogo.

Lo cercai altrove.

Ogni giorno la gente insegue e onora la memoria in questi cimiteri moderni, così brutti e lontani dagli arcani misteri che circondano la vita e la morte.

Quando non ci sarò più, vorrei tornare polvere, e vorrei che quella polvere fosse gettata nel mare che ho tanto amato. Non voglio stare in quei condomini così freddi.

E poi penso che in fondo  non mi importa. Mi importa solo l’attimo in cui saprò come ho vissuto. L’attimo in cui saluterò con la manina la vita abbandonando ciò che ho creduto e saputo. L’attimo in cui ogni orpello svanirà per lasciare spazio all’essenza.

I cimiteri sono pieni di fiori. Poveri fiori, uccisi dalla loro bellezza. Vengono colti in continuazione per adornare la morte altrui, per rendere meno triste quell’assenza che la nostra vita crede inspiegabile.

Mio nonno non li voleva, i fiori. Diceva che erano troppo belli per morire raccolti da mani svelte e distratte.

Fu così che la sua tomba non ospitò mai nessun fiore a morire accanto alle ossa di chi deve omaggiare.

La sua tomba è piena solo dei ricordi d’amore di mia madre e dei suoi fratelli. Solo qualche piantina, ogni tanto, cerca di avvicinarlo a quella terra da cui i nostri cimiteri moderni ci hanno allontanato.

Non abbiamo bisogno dei fiori. Il fiore più bello è l’amore che abbiamo provato.