LIBERO DI SCEGLIERE
La foto che da ieri scatena molte polemiche mediatiche immortala Miuccia Prada che si serve di un uomo-gradino per salire sul suo aereo privato.
Feltri, che la pubblica in prima pagina su Libero (giornale che a me, personalmente, fa venire l’orticaria) lancia il sasso nello stagno ma non ritrae la mano, criticando i "nuovi negrieri della sinistra", cioè tutti quei radical chic che predicano bene e razzolano male.
Segue subito la smentita dei diretti interessati, che replicano indicando uno scherzo fra vecchi amici.
Ecco partire subito il valzer di chi ci crede e chi no.
Radio, televisione e stampa ci intrattengono con l’amletico dubbio mentre il Cavaliere inizia a fare i conti con la Lega nella composizione di un governo che si annuncia afflitto dai parlamentari padani e le loro aumentate poltrone.
Nello stesso momento, l’America ribadisce la volontà di proseguire con la pena di morte respingendo la richiesta di due condannati che chiedevano una dose letale di barbiturici al posto della famosa iniezione (che comporta tre iniezioni, in realtà, di cui una letale che provoca una paralisi di polmoni e diaframma).
Che dire? Mi sembra che abbiamo faccende ben più gravi di affrontare del fare le pulci alla foto in questione, che pure suscita perplessità.
Ognuno è "libero" di dire la sua, comunque, su una foto che, per quanto scherzosa, agita alcuni fantasmi.
Che però non meritano decisamente una foto in prima pagina, a tutto campo. Ma Libero è libero, appunto.
E se i fantasmi, dicevo, dei negrieri ricchi e di sinistra superano per lui alcune questioni forse più drammatiche, ha fatto bene. Almeno non ci sono più i comunisti che hanno ucciso i bambini (e sono scomparsi davvero, stavolta. Perfino dal Parlamento). Al loro posto, la sinistra ricca che predica bene e razzola male (che, diciamo la verità, esiste, esiste eccome, ma ognuno ha i suoi scheletri e le sue contraddizioni, a destra e a manca, senza sconti per ambo le parti).
Forse la signora Prada ha scherzato. Forse no. Uno scherzo antipatico, certo. E decisamente funzionale (un "ti faccio da tappetino" egregiamente eseguito).
Ma chissenefrega.
Ognuno mediti sulla foto e trovi la sua interpretazione.
Con una domanda: ma sulle prime pagine dei quotidiani non abbiamo di meglio da fare?
Forse il modello di Novella 2000 è più affascinante.
Quanto alla signora Prada…forse stasera, sul treno che mi riporta a Roma, chiederò a una mia amica di farmi da scalino.
POLITICHE
Jorge Luis Borges
C’è un mistico indiano, Aurobindo, il quale diceva che non è possibile alcuna rivoluzione o evoluzione nella società, se non cambia e non migliora ciascuno degli individui che la compongono.
D’accordo, e credo che oggi si tenda a dare troppa importanza allo stato. E non solo allo stato; si pensa che un paese dipenda dal governo che lo amministra, ma forse i governi non sono poi tanto importanti, forse quel che importa è ciascun individuo, ogni singolo modo di vivere. Prendiamo un esempio a caso: supponiamo che la Svizzera sia retta da una monarchiae la Svezia sia una repubblica: i due paesi cambierebbero forse in qualche modo?
Tutto dipende dai cittadini.
Proprio così. Si tende a supporre che certe cose siano importanti, ma forse non lo sono affatto; si cade anche nell’errore di supporre che il governo sia il responsabile di tutti i mali che ci affliggono, ma forse il governo è smarrito e perplesso quanto noi, come ciascuno di noi. E’ la cosa più probabile.
Perciò Socrate dedicò la vita a educare l’uomo come cittadino.
Certo.
Infatti, se l’uomo non è formato come cittadino, anche se il governo è ottimo, la società non può funzionare.
La verità è che ciascuno di noi dovrebbe riformare se stesso, e solo così potremmo salvare la somma di individui che chiamiamo patria.
E’ così.
E dunque il mondo, perché il mondo è fatto di individui.
(Jorge Luis Borges, Altre conversazioni – con Osvaldo Ferrari)
Ecco, al di là degli tsunami elettorali (come li definisce la stampa questi giorni) forse dovremmo tornare a riflettere anche sul senso profondo dell’essere cittadini.
Tutto qui.
IL NASTRO SULL’ABISSO
La vita è un nastro rosa teso su un abisso.
(Virginia Woolf)
E a volte questo nastro sembra davvero fragile. Disperatamente fragile.
E allora ci attacchiamo sopra paillettes dorate, bottonicini colorati, profumi di lavanda e fili argentati.
Ma l’abisso rimane. E il nastro, piano piano, precipita.
TRA IL DIRE E IL FARE C’E’ DI MEZZO…
L’esperienza è reale; le parole non sono reali: le parole sono degli altri, l’esperienza è solo vostra.
(B.K.S. Iyengar, L’albero dello yoga)
Anche se ho fatto delle parole un mestiere cerco sempre di tenere alta la guardia. Il fatto è che ho visto schiere di intellettuali e filosofi incantare le folle con le loro sapienti parole, allo stesso modo in cui le mani sapienti dell’amante percorrono il deserto della pelle amata deponendovi rugiada fresca di albe umide.
Ma l’esperienza, poi, ha smascherato l’inganno.
Perché niente ti mette davanti a te stesso come la pratica del quotidiano. Quella che verifica ogni intenzione, ogni limite, ogni incoerenza,
E’ qui che franiamo tutti. Chi più chi meno, anche a seconda del grado di spietatezza con cui osiamo guardare noi stessi. Possiamo anche mentire usando nuove parole. In fondo le parole possono essere spade o coperte. Dipende da come le usiamo.
E, soprattutto, dipende dal loro legame intimo con la nostra realtà. Quella che si basa sull’esperienza, su ciò che realmente facciamo, non su ciò che diciamo.
Le parole sono seducenti e birichine. Danno una forma ai pensieri, li vestono con il loro suono.
Per questo occorrono prudenza e attenzione.
A volte è meglio essere diffidenti. Avvicinarle di soppiatto, scrutando continuamente il confine tra la parola parlata e la parola agita, vissuta.
Non a caso nelle religioni si parla di vivere ciò che si legge.
E invece regna una profusione di oratori pieni di belle parole, in ogni campo (basta vedere il circo politico che precede queste elezioni) ma poveri di significato interiorizzato, realmente vissuto.
C’è una pratica impietosa, crudele. Quella che consiste nel verificare ogni giorno la sintonia delle nostre teorie con il nostro fare.
Sì, l’esperienza è reale (malgrado gli inganni del gioco di Maya) perché è li che le frodi vengono estinte.
E tuttavia come è bello dondolarsi sulle parole, farsi confortare, cullarsi nel mare del dire.
Poi, però, poi dobbiamo darci da fare.
PANTALONI PANT PANT
Live fast, recita la nuova pubblicità della Diesel.
E voilà, ecco la foto di una neo mamma postmoderna in corsa, che spruzza velocemente un po’ di talco sul culetto del suo bambino.
Mah.
Sarà perché penso che la cultura della fretta sia proprio quello che ci sta imbarbarendo, ma questa foto mi ha impressionato negativamente. Molto negativamente.
Non si tratta di fare del bieco tradizionalismo, ma di applicare un po’ di buon senso e mettersi nei panni (anzi, nei pannoloni) di quel povero pargoletto sballottato qua e là, alle prese con la sua nevrastenica mamma. Perché andare di corsa – mi spiace – non è un bel vivere. Proprio no.
Ma siamo nell’era dei Tutto intorno a te, dei Connecting people, dei Fastweb, delle comunicazioni globali in tempi reali.
Perché la mamma dovrebbe dunque salvarsi? Giusto.
Peccato che questa vita moderna – celebrata anche dalla Diesel- produca milioni di ipersterssati che fanno le fortune di psicologi, centri benessere, maghetti e apprendisti stregoni.
La fretta non è una virtù. Fretta significa superficialità, pressapochismo, incapacità di fissare quello che stiamo facendo.
Ma proseguiamo, proseguiamo nella magnificazione di questo falso mito.
E così anche le mamme adesso corrono con i loro bei pantaloni Diesel.
Il tempo rilassato del contatto con il bambino è scaduto, come uno yogurt conservato troppo a lungo nel frigorifero.
Ripeto: mah.
Dovremmo recuperare quel tempo prezioso che fa di noi degli esseri umani, e non degli automi efficienti efficaci produttivi organizzati.
Ma la neomamma che non ha tempo può consolarsi: archiviate le corse quotidiane, la sera può rilassarsi davanti al televisore, magari scegliendo fra Cogne di Vespa e la Rosa Bazzi di Matrix.
Cosa vuole di più dalla vita? Un Lucano.
LE COPERTE DI LINUS
Tutti abbiamo la nostra coperta di Linus.
Calda, familiare, confortevole, sta sempre lì. Se per caso si usura, eccoci pronti a crearne un’altra. Magari morbida morbida, più di prima.
E poi, poi senza copertina fa freddo.
Stare nudi davanti a noi stessi potrebbe provocarci una polmonite, esposti come siamo ai venti fracassoni dei nostri tormenti interiori, dei nostri limiti veri (e non di quelli presunti), delle nostre incertezze,
Se per caso proviamo a depositarla che accade?
Brr. Freddo. Tanto freddo. Voglio la mia copertina, Voglio ciucciarmi il ditino.
Ci sono persone e situazioni che rischiano di portarci verso la soglia di un abisso.
Quell’abisso in cui, nudi, precipitiamo in noi stessi.
E allora fuggiamo via, spaventati. Ci infiliamo di nuovo sotto la nostra copertina, cuciamo gli strappi, laviamo con Perlana i colori, cerchiamo di nuovo la sicurezza.
Quante coperte di Linus ci sono?
Tante. Moltissime.
Possono essere i vari fidanzati, focolari, lavori, viaggi, palestre di turno. Perfino le ricerche spirituali possono essere trasformate in copertine di Linus.
Ovunque si trovi la nostra sicurezza, lì sta la coperta.
Ce la mettiamo addosso cambiandola nel tempo inseguendo il mutare dei nostri bisogni, delle necessità.
Ma c’è sempre l’attimo spietato della verità. Quello in cui osiamo guardare davvero.
La copertina fatata delle nostre proiezioni allora cede, si sfilaccia, mostra l’usura. A quel punto, molti corrono a procurarsene un’altra. Altri, invece, restano al freddo.
Impauriti, incerti, tremanti, restano lì.
Senza coperte la vita fa male. A volte penso che crescere significhi semplicemente accettare il dolore di essere non come vorremmo – o immaginiamo – ma come siamo.
Ecco perché, alla fine, ci tiriamo fin sopra la testa la nostra bella copertina di Linus.
Spegniamo la luce. Buonanotte.
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