CANONI INVERSI
Nello Yoga la posizione invertita, a testa in giù (sirsasana) è la posizione per eccellenza, una delle più importanti e significative.
Ci fu un momento, quando me la spiegarono, in cui rimasi folgorata. "E’ la posizione che inverte il rapporto tra cuore e testa – mi disse l’insegnante – Qui il cuore, sopra, assume il governo, mentre la testa, sotto, segue".
Il cuore sopra, la testa sotto. Magnifico. La portata simbolica e filosofica è immensa.
Già, perchè il rapporto "cuore-testa" è quello che ci fa essere in un modo o in un altro.
Io la penso come gli antichi, che sempre mi insegnano cose meravigliose: tante ere fa, nelle aurore del tempo, l’uomo viveva a contatto con il suo cuore.
Poi, però, la testa ha cominciato a prevalere, con le sue funzioni logiche, analitiche, separatorie, dualiste (tipiche dell’Albero della Conoscenza). Si è messa in testa di essere il cuore e di guidarlo.
Lo sa bene chiunque tenti di conoscerlo, quel cuore antico.
Comunque, sirsana è la posizione che inverte il rapporto tra testa e cuore.
Cuore sopra, testa sotto. Cuore sopra, testa sotto. Cuore sopra, testa sotto…
Quando ci ho riflettuto mi sono stupita, meravigliata, innamorata.
Ma quando ho iniziato i miei approcci invertiti subito l’Ego ha gonfiato le piume. Perché stare a testa in giù è anche "fico", non sanno mica farlo tutti.
E qui cascano tutti i praticanti, o quasi. E ci sono cascata anche io, con tutte le zampe.
Poi però, piano piano, ho iniziato a percepire che dietro gli entusiasmi ginnici si celava davvero qualcosa di molto profondo.
Stare a testa in giù è una sfida alle leggi di gravità, agli orientamenti convenzionali, a ogni pensiero acquisito.
Provare a rovesciarli, i pensieri, genera un approccio nuovo. Che ti fa capire subito quanto sei attaccato alle tue credenze, quanto sono diventate comode le pantofole della tua mente.
Cambiare sul serio visione del mondo fa paura. Sperimentarla - invece di raccontarla – atterrisce.
Con il cervello in basso e piedi in alto, appoggiati sull’aria, ogni faccenda comune assume prospettive diverse. Cambiare lo sguardo vuol dire dare nuova linfa alle cose.
Esiste un simbolismo complesso e meraviglioso legato all’Uomo/Albero i cui piedi/radici affondano in cielo ricostruendo sottilissime omologie. Ma questo rischia di essere "mente" se non viene davvero vissuto, davvero esperito.
Invertirsi è complicatissimo. E non è un caso.
All’inizio ti aiuti con un muro, dove poggi il corpo rovesciato quando finalmente, dopo cento e cento cadute, riesci a vincere la gravità che, implacabile, te lo ributta a terra.
Il muro, per me, è metafora dei nostri pensieri radicati, delle consuetudini.
Piano piano, ho imparato, fra mille esitazioni e delusioni, a staccarmi dal mio muro. Poco poco. Solo per alcuni istanti frugali.
Per il corpo e per la mente è una postura così estranea a qualunque abitudine che bisogna affrontare ogni sorta di ribellione. Ma poi ecco che, lentamente, si acquista confidenza con ciò che prima era ignoto, con ciò che faceva paura.
E questo è l’insegnamento prezioso.
Non so stare in sirsasana per più di qualche minuto. Ma non voglio arrivare alla famosa mezz’ora, meta agognata di molti praticanti.
Ho scoperto che a me interessa la qualità di quell’esperienza. Solo quella.
Mi interessa, anche solo per un istante, abbandonarmi con i piedi in cielo e guardare il mondo a rovescio: tutto è nuovo, tutto è possibile.
Mi interessa sentire come mutano i pensieri e si fanno meno pressanti, affollati. Diventano leggeri leggeri, come la neve.
Mi interessa ascoltare ciò che accade dentro quando, per un breve, fragilissimo momento, ci si rilassa nell’inversione di ciò che si crede abitualmente, entrando e camminando in una dimensione diversa in cui non si sa più dove appoggiare…i piedi.
Ecco perché l’acrobazia dell’Ego deve provare a lasciare il posto al mistero dello stupore.
Il mio Ego ha le dimensioni di una montagna e tuttavia, tuttavia ogni giorno provo comunque a rovesciare il mio albero.
E, a testa in giù, con malinconia penso a quanto sono lontana dal cielo.
Finché, per un istante soltanto, quella distanza si accorcia.
E mi sento a casa.
SORRIDERE COME IL BUDDHA
Mi insospettiscono sempre un po’ le persone che se ne vanno in giro a sentenziare angelicamente quanto tutto sia splendido e meraviglioso e pieno di luce. Quando incontro persone del genere mi viene una voglia travolgente di uscire e andarmi a comprare una pistola. Gente simile contribuisce a propagare un falso ideale. Non mi riferisco al silenzio che circonda percettibilmente un monaco tibetano, il quale davvero è quel silenzio; mi riferisco a quel tipo di bontà esibizionista, vistosa, sbattita in faccia, sulla quale andrebbe appeso un cartellino: "attenzione, pericolo". Per citare il proverbio: troppo bella per essere vera.
(Donna Fahri, Lo Yoga nella vita).
Finalmente, finalmente qualcuno che la dice tutta. Ce ne sono pochi, così, in giro, nell’era delle comunità di Osho, dei weekend new age dove ti illumini tutto e diventi tanto, tanto buono. Tutta la cacca che ti avvolge crolla immediatamente al tocco del guru di turno, si squaglia nel canto con i compagni, svanisce anche nel bel gruzzoletto di soldi che sborsi per comprarti un pezzettino di cielo spirituale.
Peccato che l’anima non si compri (anche se la Chiesa ci ha provato più volte, e non solo con la vendita delle indulgenze).
E peccato che tu, invece di acquisire il misterioso, magico sorriso del Buddha, il sorriso di chi ha compreso l’inganno del gioco di maya e che lo ha trasceso, ti infili in un sorrisetto beota, quello dell’uomo "buono", anzi "buonista", quello dell’uomo che è stato spiritualizzato dal tocco magico (e costoso) di qualche guru durante uno dei suoi raduni in pizzo a qualche monte o in qualche bella vallata nostrana.
E così ti identifichi (tu, che dovevi smascherare le identificazioni e le maschere) nel tuo nuovo personaggio spirituale, e non molli più quel sorrisetto beota ad imitatio Buddhi con il quale vai in giro, rinnovato.
E annunci a tutti che il mondo è bello, è buono, è stupendo. Dispensi abbraccini e bacini (ci sono perfino ritiri in cui si insegna ad abbracciare il prossimo), tutto felice della scomparsa del vecchio Io fragile, triste, pieno di problemi, in favore di questo Io scintillante, angelico, che lustri ogni giorno come una macchina nuova.
Ecco, d’ ora in poi il Mulino Bianco non è solo un’illusione pubblicitaria. E’ la tua realtà. Via i brutti, via i mostri, via i cattivi. Via, via, via (ma non fanno così anchd i bambini?). Non c’è, il brutto nel mondo, quello che ti fa paura, non c’è. E soprattutto non c’è più il bau bau interiore, quello che ti spaventava perché ti chiedeva di guardare in faccia anche i mostri, cioè le paure, le ombre, i fantasmi, i limiti che ognuno si porta dietro. Ma che ti importa adesso? Non c’è bisogno di fare alcuna discesa agli inferi, nè di guardare l’ombra. Non c’è più, l’ombra.
Oggi sono tante, troppe le persone anestetizzate da questi vademecum spirituali pronti per l’uso. E sono false, sì, hanno qualcosa di artificiale.
Qualche hanno fa ho frequentato un gruppo, attratta da alcuni insegnamenti filosofici orientali.
Tutti belli in circolo, con i loro sorrisi ieratici e quel "volemose bene" alla rinfusa, quello che mi faceva pensare a una vecchia scena di un film di Verdone, in cui lui faceva l’hippy che tra una canna e l’altra biascicava teorie di fratellanza universale.
Pacche sulle spalle, denti mostrati a destra e a manca, postura da "persona felice" (c’è pure quella).
Peccato, però, che se qualcuno osava fare domande strane (tipo: ma il Cristo allora era meno o più illuminato? Era un maestro anche lui o no? ) tutti i sorrisi Durbans dei vari Boccasana scomparivano per lasciare spazio a un’agitata difesa…dei confini permessi.
Ergo il sorriso non veniva turbato a patto che non si scomodasse il giardinetto sul quale si era seduto.
L’altra cosa bizzarra era che, appena usciti fuori, molti di questi "sorrisi" sfanculavano subito l’impavido pedone che osava attraversare arrestando la corsa del loro motorino. "Figlio di! "Tiè!" "Tu e li mortacci…"
Alla faccia del sorriso del Budda. Alla faccia dei fiorellini nel cuore aperto che non conosce più odio aggressività e altre bassezze varie. Ma non importa. Questo è solo un "incidente", l’altro è "verità".
Il "buonismo" spirituale può diventare una fucina di ombre irrisolte che, cacciate nell’ombra, appunto, diventano sempre più scure…
La vita non è solo bella e meravigliosa e piena di luce e di magia. La vita è anche terribile, dura, spietata, piena di crudelità e ingiustizie. Non si può essere sempre felici, quindi. Solo un idiota ci riuscirebbe. Il distacco spirituale è ben altra cosa. Ma è per questo che non ho mai visto nessuno…sorridere come il Budda.
Tra l’altro, maggiore è la foga con cui difendiamo la nostra felicità spirituale, con cui attacchiamo alle frasi fatte dei guru di turno, maggiore è il terrore che qualcuno ci guardi dentro, ci guardi davvero dentro e colga tutto ciò che abbiamo sepolto.
Ma è da lì che si parte. "Se i miei demoni se ne andranno, temo che anche i miei angeli mi lasceranno" scrivera Rilke.
Invece eccole, queste "Angelopoli" che fioccano qua e là, rintuzzate da ritiri, raduni, libri (il marketing spirituale è uno dei più potenti, in questo inizio millennio).
Peccato che io penso che gli antichi avessero ragione, e che non a caso nell’oracolo di Delfi avessero scritto una cosa terribile, che mette a fuoco e fiamme ogni nostra illusione:
Nosce te ipsum. Conosci te stesso.
E quel conoscersi ha bisogno di un tutto, non di una sola parte. Di nuovo, cerchiamo di barare nella scacchiera universale, cerchiamo di eliminare i neri senza neppure averci mai giocato davvero.
E quando cantiamo, tutti felici, tutti contenti di aver schivato il Male o quantomeno di averlo archiviato in modo veloce veloce, in linea con i tempi moderni che chiedono di non perdere tempo, dovremmo ricordarci cosa canta Battiato:
"E lo sapeva bene Paganini/ che il diavolo è mancino/ e suona bene il violino…"
Nosce te ipsum. Conosci te stesso.
TEMPI DI GITANI E DI IN-CANTI
The man who cried è una storia sulla sopravvivenza. Il racconto in parte avviene attraverso la musica: dalle lievi arie tenorili delle opere italiane alle ossessionanti musiche zingare, cariche di ritmo. La musica è un’espressione dell’anima dei popoli, un modo per ricordare chi si è, da dove si proviene. Spero che questo film possa servire come voce per coloro che erano (e sono) costretti al silenzio; per piangere coloro che si sono persi, e per celebrare, gioiosamente, la sopravvivenza di chi è rimasto.
(Sally Potter)
The man who cried (L’uomo che pianse) è un film malinconico, suggestivo. Ha il tocco della eccentrica Sally Potter, regista di Orlando (coraggioso tentativo di trasporre cinematograficamente il magnifico libro della Woolf) e di Lezioni di Tango.
Poco apprezzato dalla critica che certamente non lo ha sostenuto, il film ha avuto un frugale successo al botteghino. Eppure, eppure ci sono in giro vari estimatori, come ho potuto verificare navigando un po’ in giro. Bene, io sono fra questi.
Pur con alcuni limiti (come quello di qualche enfasi melodrammatica, qua e là, che urta con i toni prudenti ancorati alla suggestione delle atmosfere che suggeriscono i fatti ma mai li definiscono), The man who cried è un’opera singolare, impregnata di una struggente quanto delicata tensione.
Racconta del riconoscimento di una ferita, la ferita di chi sente diverso, straniero al mondo. E su questa ferita canta la musica, canta come fa la vecchia curandera con le ossa sparse dei lupi, canta per sussurrare all’anima di cercare l’alba ancora una volta.
Nella Parigi minacciata dal vento nero del nazismo Susan-Fegerle, la giovane ebrea (interpretata da Cristina Ricci) strappata alle sue radici russe, si specchierà davvero solo nello sguardo intensissimo e umbratile di Cesar (Jonnny Depp), lo zingaro che lavora insieme a lei nella compagnia teatrale in cui un arrogante tenore italiano (John Turturro)amico dei salotti e dei poteri, canta le arie di Verdi.
Incantevoli le scene notturne di questa Parigi surreale in cui lo zingaro passeggia nel lungo Senna in groppa al suo cavallo bianco, quasi a segnare i fragili confini della materia troppo greve per chi ha grandi ferite.
Due solitudini che si riconoscono finiscono per proteggersi e per difendersi, a ogni costo.
Ma non mi va di raccontarvi la storia, vi invito a vederla (e ascoltarla, se avrete l’occasione. la musica è straordinaria):
Le scene del villaggio zingaro inquisito dai nazisti di Hitler ci ricordano come ogni omologazione sia pericolosa, come le etichette facili con cui cataloghiamo popoli e persone sfuggano alla complessità della vita.
Le vicende del film sono sempre accompagnate dalla musica: dall’Opera per il pubblico del teatro al falò del villaggio zingaro, dalla lirica intrisa di forza e passione ai canti gitani tessuti di lune e di notti, il legame fra anima e canto, destino e vita, racconta di come in fondo alla materia ci sia uno spazio in cui la densità lascia spazio alle nuvole, al galleggiare sottile negli interstizi del tempo.
Ho sempre amato le musiche dei popoli diversi dal mio. Mi aiutano a spostare i confini più in là, mi aiutano a soffocare di meno quando l’identità nazionale si fa prevaricazione.
L’incontro folgorante, quasi venti anni fa, con l’allora sconosciuto Emir Kusturika e il suo Il tempo dei gitani, ha lasciato una traccia profonda sintetizzata da Ederlezi, di Goran Bregovic.
Intensa, vivida, appuntita come una lama e liquida come un oceano. Ogni volta che mi capita di ascoltarla l’anima mia sconfina verso le geografie delle emozioni più belle, più vicine a una malinconia foriera di un creativo sentire.
Sia The man who cried che Il tempo dei gitani godono di una musica intensa che evoca malinconie dolcissime, narra di echi di gente perduta nel tempo e nella storia, di amanti mai ritrovati, di storie appese alla memoria della voce e del canto.
Forse abbiamo bisogno di meno parole e più canti.
CANI IN AFFITTO
Non ci sto. Non ci sto a veder spacciata per cinofilia l’ennesima trovata del marketing americano. Quale? Quella della moda dei cani in affitto.
Basta andare sul sito della Flexpetz per trovare gli adorabili cagnolini pronti per l’uso.
L’idea nasce da un atto d’amore, raccontano i titolari. Un atto d’amore verso quei cani che, invece di finire nei canili, verrebbero gestiti da una famiglia allargata.
Peccato che la famiglia allargata non adotti ma…affitti. Sì sì, mentre questi ultimi giorni pare che i lapsus in politica abbiano la meglio, anche qui pare esserci una certa confusione tra… affido e affitto.
Malgrado l’assonanza, non sono la stessa cosa. Niente affatto. L’affido è un dono, l’affitto un pagamento. Infatti portare a spasso un cagnolino della Flex costa circa 40 dollari al giorno.
Gli strampalati americani ne pensano sempre di nuove. E, guarda caso, le loro idee migliori profumano sempre e comunque di soldi.
Non so, ma io continuo sempre a pensare che i veri atti d’amore…siano gratuiti.
Affittare un cane – mi pare – non rientra davvero in questa visione umanitaria e compassionevole.
E poi, diciamocelo, cosa passa per la testa di questi poveri animali, alle prese con cento padroni che li caricano e li scaricano in una tarantella continua?
Il cane, ancora più del gatto, esige attenzione, un’ attenzione esclusiva che solitamente fagocita, senza mai risputarlo fuori, il suo padrone. Il cane si sente subito abbandonato, ha bisogno di un rapporto totalizzante, fusionale, come quello di un bimbo con la sua mamma. Provare per credere.
Questa gestione allargata diventa una faccenda complessa, per lui.
Meglio della vita in canile? Certo. Ovvio. Lapalissiano.
Ma, come nel caso del personal shopper, l’idea che tutto si compri, o che tutto si risolva con i soldi, continua a orientare le nostre giornate, a guidare il nostro modo di vivere.
Perché allora non optare per un sano volontariato, senza affitti di sorta? Ben vengano, come accade da sempre, le generose elargizioni di chi mette a disposizione un poco dei suoi risparmi per i più deboli, animali compresi.
Ma spesso il denaro è legato al "prendere", al senso del "mio". Io ci metto i soldi, dunque quel cane è mio. Io io io io…Mio mio mio mio.
E’ un’idea fantastica per chi non può permettersi un cane a tempo pieno, incalzano gli amorosi gestori della Flex.
E che diamine, se uno può permettersi un cane, se lo permette. Se non può, non può.
Preferisco quei volontari silenziosi che passano ore nei canili, fra cacche, disagi e malattie, a questi lustri e allegri "affittuari" che in cambio del loro denaro si portano a spasso il cagnolino di turno. Magari tutto leccato, con il fiocchetto rosso al collo.
Sporcarsi le mani senza il senso del "mio" è un’altra faccenda. Forse un po’ più generosa. Forse generosa davvero.
IL ROSSO E IL BIANCO
Stanotte ho sognato gatti. Forse un sogno non molto felice. C’era un cucciolo di tigre che assaliva Anakin- il mio bellissimo micione grigio – e poi si avventava su un altro gatto ancora, un gatto frutto della finzione onirica. Bianco, bellissimo. Cucciolo anche lui.
A un certo punto mi accorgo che il gattino bianco è ferito: sul suo pelo immacolato, lucente come le distese di ghiaccio, spunta una macchia rossa dalla ferita aperta. E mostra uno squarcio di carne che si apre nella profondità del corpo.
Il contrasto tra il rosso e il bianco mi ha molto colpito.
Mi ha fatto pensare a una scena antica, vista tanti anni fa in televisione.
Un coniglietto ferito da un predatore lasciava macchie di sangue sulla neve, con la quale condivideva il bianco assoluto.
Quelle gocce rosse, stagliate sulla distesa di neve, scandivano gli intervalli del sangue, dando un ritmo sinistro ma allo stesso tempo affascinante a quel bianco privo di forma e di tempo.
Ecco, ho provato di nuovo la stessa sensazione.
E ho pensato alla magia del bianco e del rosso. Uno simbolo di purezza, l’altro di passione.
Echi alchemici si affacciano nella memoria mentre rivivo, a occhi aperti, il bagliore di quel contrasto.
E penso che i sogni sono così misteriosi. Hanno un codice universale e al contempo privato, di cui ciascuno possiede la chiave.
Sognare i gatti, poi, è un po’ faccenda da strega.
Sono esseri strani, misteriosi. Legati alla luna, all’eros e ai misteri notturni.
Una mia amica sostiene che se una persona detesta i gatti o i piedi nudi siamo in presenza di un inconfutabile indizio di problematiche legate alla sessualità. Senza scomodare Freud, sono certa certa che questa creatura ha a che fare con significati sottili e profondi.
E oggi, nell’ora di veglia, il gatto bianco, il gatto ferito, torna a trovarmi.
E mi sembra che quel bianco e quel rosso abbiano qualcosa da raccontarmi…
VERY PERSONAL
Senza dubbio è l’era del personal. Personal coach, personal stylist, personal trainer…
Personal è glamour, è in, è trendy.
Ma a volte è anche stupido. Terribilmente stupido. Perché mai privarsi del piacere di gironzolare e scegliere cosa comprare per affidarsi a uno strapagato personal shopper?
E’ il caso, per esempio, di Alessia Piva, 31enne personal shopper a Venezia, che guadagna da 50 a 200 euro per un pomeriggio di compere insieme al cliente. Ha pure un sito, insieme a un’amica: www.styleandshop.com.
Be’, lei è un genio. Davvero. Farsi pagare per comprare scarpe e abitini insieme alla signora indecisa o senza gusto è proprio un bel colpo. Complimenti.
La capisco. Tiene anche dei corsi di formazione per aspiranti personal shopper, mestiere che pare conquisti clienti.
Chi non capisco, invece, è il cliente. Disposto a pagare per comprare in compagnia. Per carità, ognuno fa quello che vuole. Ma questo tipo di lusso mi infastidisce un pochino.
Forse perché quello dello shopping è un fatto talmente personale, da condividere magari con un’amica (due donne insieme, in questo caso, possono fare "danni " seri in giro per la città). Ma pagare qualcuno perché ci accompagni nei nostri pellegrinaggi…beh, mi sembra un po’ esagerato.
Il gusto è qualcosa di talmente personale da non avere bisogno – appunto- di un personal shopper. Ognuno ci mette il suo estro, il suo senso cromatico, estetico, le sue preferenze…e i suoi soldini. Perché aggiungerne altri per avere consigli?
Oggi paghiamo tutto, questo è il problema. Paghiamo tutto e tutti pur di sentirci alla moda, pur di piacerci e di piacere. Insomma la famosa "Milano da bere" della pubblicità anni ’80 non è affogata.
Mi viene in mente un’immagine triste, quella di un servizio dello sguaiato e prurignoso Lucignolo televisivo che mostrava, un anno fa, una folla di comuni mortali schiacciati come sardine sul molo di Porto Cervo. Aspettavano – da tutta la notte – il rientro in porto di uno dei tanti yacht su cui si affollavano vip.
Ore e ore in piedi, tutti premuti e spremuti per attendere l’attimo magico in cui i "personaggi" scendevano dallo yacht volgendo appena uno sguardo distratto a quella marmaglia. Mah.
E allora ecco, ecco che forse un personal shopper può avvicinarci un passettino di più verso quell’Olimpo radioso.
Saremo più "personal", meno anonime.
Belle come Venere, con le nostre borsone piene di acquisti e la nostra costosa consigliera al fianco, fedele come un soldato (mercenario), potremo sentirci vicine alle mode e ai modi dei nostri modelli.
Questa smania di personalizzare, però, alla fine ci rende tutti uguali.
Buffo, no?
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