MAGIA DELLE FORBICI
E’ una deformazione professionale, ma non posso non trovare refusi o ragionare sulle scelte di alcuni editing neppure quando leggo per diletto.
Questo materiale lo uso poi, puntualmente, nella didattica.
L’altro giorno, leggendo il libro di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi (già segnalato sul blog) mi sono imbattuta in un paio di eccessi che, a mio avviso, rovinano un po’ la bella impalcatura stilitsica dell’opera.
Giordano usa intuizioni descrittive piene di picchi efficaci (come quando, per esempio, paragona "una spolverata di forfora" a un piccolo cielo stellato), si attarda sui dettagli di luoghi e situazioni ("il buio si era preso tutto il cielo, a parte una striscia sottile che correva lungo l’orizzonte e non serviva a nulla"), indaga la complessità di alcune zone fragili nelle nostre vite ("La gente si prendeva quello che voleva, si aggrappava alle coincidenze, quelle poche, e ci tirava su un’esistenza").
Insomma una scrittura tersa, precisa, affilata.
Tuttavia a volte la prosa si appesantisce inutilmente. Accade, qua e là, quando Giordano, laureato in fisica teorica (anche il protagonista del libro si dedica a materie analoghe), usa termini troppo scientifici che risultano ridondanti.
Come a pagina 184:
"Lo buttò (un panetto di burro, n.d.a.) nella padella per mantecare il risotto e quello si sciolse, liberando tutti i suoi grassi saturi e animali".
C’è uno stridore, si avverte un peso arbitrario in quella coppia di aggettivi, "saturi e animali", troppo precisi, troppo "tecnici" per il contesto narrativo. Peraltro l’io narrante non è Mattia, il protagonista-scienziato a cui fa da contraltare Alice, l’altra protagonista che sogna di fare la fotografa mentre affoga nelle sue tensioni irrisolte. Dunque il lessico non deve per forza ricorrere a queste precisazioni.
Bastava scrivere, a mio avviso: "liberando tutti i suoi grassi". Punto.
Come lettrice ho avvertito una piccola punta di irritazione, punta che si è replicata anche altrove nel testo, sempre davanti all’eccesso di precisazioni simili. Inutili, secondo me. Artificiose.
Sebbene la prosa sia piuttosto elegante, raffinata, si mantiene quasi sempre nei paraggi di una letterarietà che non sconfina però in virtuosismi barocchi rimanendo semplice e soprattutto plausibile.
Invece davanti a quei grassi saturi e animali mi sono infastidita. Chissenfrega, di quanti tipi di grassi ci siano. Non aggiunge nè toglie nulla in quel contesto.
A volte le forbici fanno meraviglie, sui testi.
Specie quando snelliscono gli aggettivi, da usare sempre con cautela perchè, come accade con il punto esclamativo, rischiano di ferire con la loro invadenza una prosa altrimenti agile.
Come editor e consulente editoriale, preferisco sempre mettere mano alle forbici piuttosto che usare le extension.
Come lettrice per hobby sono piuttosto esigente, probabilmente perchè a forza di valutare testi letterari negli anni si perde un po’ il gusto di una lettura spontanea, libera dal giudizio professionale. Ma sono anche consapevole che il lettore, alla fine, è il vero destinatario di un’opera.
Non lo è l’autore, non lo è l’editore, non lo sono editor e correttori di bozze.
E il lettore di solito fiuta qualche tranello in cui casca l’autore, anche se non sa sempre dargli una forma.
In tutti questi anni di frequentazione assidua con la scrittura ho apprezzato la magia delle forbici pronte a potare ridondanze e velleità narrative.
Il libro di Giordano, comunque, rimane un libro apprezzabile.
Un’opera prima che, come accade per la maggior parte delle opere prime, prelude a una successiva maturità in cui alcuni attaccamenti pretenziosi vengono solitamente abbandonati.
Per quanto riguarda gli aggettivi, l’uso imprudente si paga.
Si paga quando il lettore si arresta, quando sente uno stridore improvviso che urta la piacevolezza della navigazione.
SCRITTURE CONTEMPORANEE
Segnalo l’uscita del nuovo numero di Silmarillon.
Del resto, il mulino di Amleto e Silmarillon interagiscono nei contenuti e sono davvero fratelli.
ll dossier di questo numero prosegue il viaggio intorno alle scritture contemporanee.
Interviste a:
Dacia Maraini
Veronica Raimo
Matteo B.Bianchi
Stefano Bory
Gianni Romoli
Roberto Carvelli
Stavolta la videointervista riguarda il mondo dell’editing:
Daniela D’Angelo parla del mestiere dell’editor
Buona lettura!
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI
I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo più in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi.
Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che a anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci. Il secondo pensiero lo sfiorava soprattutto di sera, nell’intrecciarsi caotico di immagini che precede il sonno, quando la mente è troppo debole per raccontarsi delle bugie.
(Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi)
Bello, questo libro dell’esordiente Giordano. Bello malgrado alcuni dei vizi formali tipici degli inizi (come qualche leziosismo di troppo, qualche enfasi eccessiva) e malgrado un finale che si sfilaccia rispetto alla pregevole tensione delle prime pagine.
Bello, però, soprattutto per l’intuizione di questa metafora matematica che da sola, almeno per me, regge il romanzo (che, come ripeto, scivola su alcune ingenuità).
Perchè è vero, è vero che esistono questi "numeri primi" sempre vicini ma sempre divisi, sempre separati, costretti all’isolamento nonostante la possibilità di trovarsi gli uni accanto agli altri.
Le affinità elettive a volte sono spietate. A volte producono tensioni, conflitti, separazioni.
I due cuori e la capanna famosa si restringono, come una maglietta di cotone lavata in acqua bollente. Diventano così piccoli – o così grandi, è la stessa cosa – da non permettere alcuna esperienza da vivere. Sono come un grido taciuto per sempre.
Ma non è solo nell’incontro con l’altro che il numero primo sbanda e si schianta, per ritrovarsi più isolato di prima.
Accade anche ogni giorno, in quell’incontro mai reale con tutti, con il mondo che esiste solo come frammento separato, reso meno greve a volte dall’illusione di una penetrabilità che poi si rivela fragile, troppo fragile, e se per per un attimo quel mondo somigliava a una bolla di sapone con dentro tutti i colori sospesi (un po’ come quelle palline magiche con i paesaggi che, rovesciate, producono l’incanto della neve), l’attimo successivo torna a essere muro, cemento, dolore.
E così, i numeri primi, sempre troppo intelligenti ma allo stesso tempo lesi nello spazio intimo che cuce la pelle al cuore, continuano a vivere profondamente ma tragicamente.
E nell’attesa sembra consumarsi il loro destino.
Penso a uno di questi numeri primi, che ho conosciuto. Penso al giorno in cui mi disse "Sto aspettando di iniziare a vivere". Ma aveva già vissuto, aveva molto vissuto. Si trattava tuttavia di una vita interiore, di una vita di studi e di pensieri e di nuotate notturne nel mare dei desideri mai realizzati, desideri d’amore, di quell’amore normale che pare sempre riservato a tutti tranne che a loro, ai numeri primi.
Non avrebbe mai iniziato a vivere, non in quel senso. E infatti, da allora, ha continuato a sfiorare i suoi sentimenti senza mai toccarli davvero, senza affondare nella carne di un altro per risalirme appagato. Solo comparse, solo bagliori, fuochi fatui di promesse tradite all’alba.
E tuttavia, tuttavia nella solitudine c’è anche un dono prezioso.
Ma a volte fa troppo male afferrarlo.
NELLA PENOMBRA
Ancora mettiamo entrambi le mani sul fuoco:
tu per il vino del lungo fermento notturno
io per la mattinale acqua sorgiva, che non conosce i torchi.
Il mantice attende il maestro, in cui confidiamo.
Non appena l’ansia lo scalda, il soffiatore giunge.
Va’ via prima di giorno, arriva prima del tuo richiamo:
è antico, come la penombra sopra le nostre ciglia rade.
Di nuovo egli fonde il piombo nella caldaia di lagrime:
per una coppa a te – occorre solenizzare il tempo perduto -
a me per il coccio pieno di fumo – che sarà versato nel fuoco.
Mi scontro così con te, facendo tintinnare le ombre.
Scoperto è chi esita, adesso,
chi ha scordato la formula magica.
Tu non puoi e non vuoi conoscerla,
bevi sfiorando l’orlo, dove è fresco:
come un tempo, tu bevi e resti sobrio,
le ciglia ti crescono ancora, tu ancora ti lasci guardare!
Io con amore all’attimo protesa sono già, invece:
il coccio mi cade nel fuoco, piombo mi ridiventa
qual era. E dietro al proiettile sto,
monocola, risoluta, defilata,
e incontro al mattino lo invio.
(Ingeborg Bachmann, Poesie)
Poco da aggiungere, quando la poesia conosce gli arcani di pensieri e parole, quando traccia soavi combinazioni alchemiche in cui l’anima danza.
La parola resta sospesa nello stupore, dondola sul tempo avanzando verso altri lidi, notturni, liquefatti, misteriosi come questa penombra stessa.
Ecco, in questa domenica uggiosa di maggio, questi versi sono semplicemente perfetti.
IL DECLINO DEL PUNTO E VIRGOLA
C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
Che coppia modello –
la gente diceva –
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa
(Gianni Rodari)
C’era una volta. Oggi non più.
Forse a causa della crescita vertiginosa dei divorzi, il matrimonio tra il punto e la virgola è in crisi, tanto che i due stanno tornando a ingrossare le fila dei single.
E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Sarà, ma io continuo ad apprezzare – pur non usandola molto – questa vecchia coppia che ha superato le nozze d’oro e d’argento.
La lingua è qualcosa di mobile, dinamico, che può ospitare stili diversi senza per questo schierare in campo odiate fazioni.
Di sicuro Kurt Vonnegut non adora il punto e virgola. Di lui dice, con fare tagliente: "Se vuoi davvero infastidire i tuoi genitori e non sei tanto audace da essere omosessuale, il minimo che puoi fare è darti all’arte. Ricordati di non usare mai i punti e virgola, però: sono ermafroditi travestiti, che non stanno a significare nulla. Tutto ciò che fanno è mostrare che sei stato all’università".
E Getrude Stein, con la sua consueta anemia di virgole:"Essi (i punti e virgola, ndr) sono più potenti più imponenti più pretenziosi di una virgola ma essi sono una virgola lo stesso. Hanno davvero in sè profondamente in sè fondamentalmnete in sè la natura di una virgola".
Su Repubblica di sabato 5 aprile Stefano Bartezzaghi dedica un lungo, interessante articolo a questa crisi interpuntiva facendone una diagnosi poco promettente per il futuro.
Del resto, la società cambia, oggi corriamo tutti e in questa corsa lasciamo andare ciò che ci sembra una zavorra. Pesano, le frasi lunghe con le subordinate, pesano gli aggettivi abbondanti, e pesa il punto e virgola (la sola virgola è più light, più leggera, in linea con il fare dietetico che contraddistingue la nostra tentazione moderna in reazione alla bulimia che ci perseguita).
Ma togliere "il grasso" alla lingua italiana non vuol dire per forza far bene. Se il vitello è cibo apprezzabile, anche la trippa ha una sua funzione.
E di questo a mio avviso si tratta, al di là della metafora alimentare.
Il punto e virgola non è inutile. E allo stesso tempo non è obbligatorio. Chissà, forse sta qui il suo dilemma.
Come dice lo Zingarelli, si tratta di un segno grafico che "introduce un membro del periodo in posizione autonoma rispetto all’antecedente". Dunque ha "un suo perché", come dicono oggi i giovani parlando fra loro.
Il vero punto (punto, non punto e virgola) sta nel fatto che tendiamo a perdere la sensibilità linguistica verso le raffinatezze della nostra prosa. Tendiamo all’omologazione, a un generico fare che perde per strada il gusto per i dettagli, per le particolarità.
Con questo non intendo incriminare chi ha chiuso in soffitta il punto e virgola. Niente affatto. Dico solo che, ancora una volta, come sempre, dovremmo guardare le infinite varianti e le infinite possibilità di un linguaggio che, vivaddio, può offrire molteplici emanazioni.
E poi mi viene un dubbio mefistofelico: se in tanta voglia di abbatterlo ci fosse l’incapacità di usarlo in modo efficace? Il posizionamento all’interno di una frase, proprio per il "colore" particolare, un po’ indefinito, di questo segno che va certamente dosato, è più complesso di quello dei suoi compagni, i due punti e la virgola (ahi, qui tocchiamo un altro luogo dolente, specie per noi italiani: ci torneremo un’altra volta).
Personalmente non lo uso spesso (finora, qui, non ne ho inserito nemmeno uno) ma dipende anche dal tipo di linguaggio che uso. Se scrivessi un romanzo di un certo tipo forse lo corteggerei, forse lo inviterei nelle mie frasi.
Ma se scrivo su un blog, con un taglio meno letterario e più veloce, ricorro invece volentieri alla virgola e al punto. Rapidi, agili, dal taglio certo. A questo proposito è interessante osservare come i segni abbiano un peso diverso nel ritmo che danno alle frasi. La virgola somiglia a un taglio, a una ferita che impone una pausa, un arresto.
Il punto, il meraviglioso punto è minuscolo eppure affilato, affilatissimo (Niente trafigge più d un punto, diceva Carver a proposito del suo utilizzo in una farse, paragonato a quello dell’insopportabile punto esclamativo).
Tornando a questo dilemma, dovremmo pensare che ognuno ha il suo stile.
Non me la sento, però, di abolire definitivamente, senza appello, il punto e virgola mandandolo in soffitta insieme alle cose osbolete. Alcune case editrici lo fanno. Capisco, hanno le loro norme redazionali. Ma si può inserire una norma in un romanzo? Che è invece stile libero, flusso personale e uso individuale di un linguaggio che facciamo nostro. Vecchia faccenda, quella dello stile e dei suoi confini con la sintassi e la grammatica. Anche su questo torneremo un’altra volta.
Io continuo a difendere l’eclettismo della lingua, che può asciugarsi deliziandoci in prose dal respiro breve, come in quelle di Borges o di Calvino (ma loro che rapporto avevano con il punto e virgola? andate un po’ a controllare, per curiosità…), oppure farsi trascinare dalla corrente generosa di un Proust, con le sue frasi che scendono a valle in mille rivoli.
E oggi, nella letteratura contemporanea? Oggi, di certo, il punto e virgola è in declino. Sto leggendo "La solitudine dei numeri primi", mi aspettano, sul tavolino accanto al divano, "Kafka sulla spiaggia" e "Gli imperdonabili".
Non credo ne incontrerò molti, di punti e virgola. Rischiano di finire come la famosa particella d’acqua Lete, questo è certo.
Ma se qualcuno, oggi, volesse usarli ancora, se qualcuno avesse il coraggio e la bravura di un Proust e dipingesse una cattedrale narrativa che invocasse il loro uso, e se lì fossero bene utilizzati senza far inciampare il lettore, non agiterei la matita rossa gridando all’errore nè sventolerei dichiarazioni di illegittimità e disuso .
Insomma, questo divorzio non s’ha da fare?
Risponderei che, democraticamente, dipende dalla convivenza dei due sposi (del punto e della virgola, intendo) nella penna – o nel mouse – di chi rende vitale questo matrimonio, oppure decide di celebrarne il funerale.
Se la tendenza è quella dell’oblio, mi piacerebbe qualche volta essere sorpresa da qualche felice, geniale recupero.
Misteri e stupori del nostro linguaggio.
GIORNI
I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.
(Ennio Flaiano)
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