MALEDUCAZIONE STRADALE
In queste giornate umide, accaldate, ti accorgi di come le città siano impossibili.
Le strade diventano ricettacoli di nevrosi appiccicose che ti restano addosso fino alla sera, fino a quando l’acqua della doccia non lava via ogni tensione.
E ti domandi perché l’uomo si crede un”eletto” rispetto alle altre forme della creazione. In realtà, a volte sembra davvero uno scarto dell’evoluzione.
L’altro giorno tentavo di attraversare la strada sulle famose, civilissime strisce. Che però non servono a nulla. Stanno lì, questi decori urbani, queste pitture zebrate, a ricordarci la loro magnifica inutilità.
Quando ti vedono, le macchine accelerano mentre il guidatore, con aria da ebete, fa finta di guardare altrove (è noto: mentre si guida si guarda sempre di lato, mai davanti a sé, per contare i numeri civici delle abitazioni…).
Così lui evade dalle tue grida, scansando i tuoi pugnetti chiusi agitati al vento, ridicola forma di rimprovero verso il gigante metallico che ha generosamente risparmiato la vita alla formichina.
Poi magari prendi il motorino, e ti trasformi anche tu in un orribile mostro che a sua volta gareggerà con i pedoni per la conquista della strada.
Ricordo che vent’anni fa, quando vivevo in California, a San Diego, rimanevo stupita davanti alla cortesia delle auto che si fermavano, diligenti, non appena qualcuno accennava ad attraversare la strada. Del resto l’America è un paese strano, pieno di contraddizioni. La cortesia delle auto convive con la crudeltà degli ospedali in cui sei obbligato a pagarti la vita, altrimenti nulla da fare, senza assicurazione si muore.
Tornando alle strade, appena rientrata in Italia provai ad applicare la magica formula: “Prego-io-auto-lei-pedone-passi-pure” ma…niente da fare. A rendere ancora più grottesca la situazione, ecco che il pedone di turno manifestava evidenti segni di imbarazzo e irritazione, non sapendo come comportarsi davanti alla macchina sconsiderata che si fermava. Iniziava così la danza dell’”un due tre, un due tre, un passo avanti due indietro” in cui auto e pedone si misuravano, incerti, bloccando l’intero scorrimento del traffico.
Sono dunque tornata alla mia italianissima (e non solo) maleducazione, dimenticando le buone maniere della città di San Diego.
Nelle grandi città vivere come pedoni è sicuramente una prova di grande coraggio. Un’ arte della sopravvivenza.
Nelle grandi città, d’estate, si vive, in realtà, “come d’autunno sugli alberi le foglie”, zigzagando nel traffico fra gente ubriaca di caldo, isterica ancora prima dello spuntar del sole, quando l’ultima stella si spegne.
E l’isteria collettiva non fa certo bene. Io alla macchina preferisco il motorino, più agile, più facile da parcheggiare, che però non risparmia il delirio delle trasferte su ruote.
Quando guidiamo, chissà perché, emergono gli istinti peggiori. Viene fuori la bestia che è in noi, quella che, in ufficio davanti ai colleghi oppure a casa, in compagnia della moglie, teniamo – da bravi – al guinzaglio.
Liberata, sulla strada la bestia fa danni. Fa sempre danni.
Ecco che allora siamo pronti a sfanculare il vicino, gareggiamo come idioti per la conquista del primo posto davanti al semaforo (manco fosse un concerto di qualche star), urliamo e aggrediamo e spintoniamo chiunque.
Non mancano poi le scene tipo. Come quella del tizio in auto che si piazza in mezzo alla strada per attraversare, e che ti attende con la faccia da tontolone, la bocca aperta a "o" manco avesse visto un fantasma, obbligandoti ad inchiodare per non investirlo. E tu, pieno di livore, sei costretto a cedere il passo.
Altra scena caratteristica: la strombazzata di clacson a un nanosecondo dallo scatto del semaforo verde. Terribile. Devi partire subito, sincronizzato, altrimenti le macchine dietro di te cominciano a strillare e a fare casino.
E questo ti porta dritto dritto verso un’altra scena grottesca dal sapore classico, quella che riguarda il coro da stadio di clacson quando qualcosa o qualcuno blocca il traffico.
Ho sempre pensato che chi suona in questo contesto è il padre dei pirla di tutto il mondo. Ma che c’è da suonare? Mica le auto si spostano per la caciara…Vedere queste code nevrasteniche che suonano al vuoto crea uno smottamento nella mia pazienza. A chi suoni? All’auto rotta in mezzo alla strada? Guarda che non si sposta neanche se chiami a raccolta tutti i santi del paradiso! E non pensi mai che se qualcuno o qualcosa ostruisce il traffico…basta aspettare? Che anche quel qualcuno o qualcosa si rompe di tutto quel rumore e che dunque è obbligato – in quel momento – a stare lì, impotente davanti alla riunione di clacson e di improperi lanciati da te e da tutti i tuoi colleghi automobilisti? Non pensi che sta cercando il modo di ripartire, e che forse – dico forse – è successo qualcosa? Pirla!
Perbacco, che tristezza osservare queste quotidiane demenze.
Specie d’estate, specie quando il sole rovente squaglia anche i pensieri. Ed ecco che allora il peggio del peggio, a piede libero, dà il meglio di sé.
Ogni mattina, quando indosso il casco, penso alla sua somiglianza con un elmetto. Già. Perché la strada è una guerra. Una guerra continua. Fine pena mai.
NOI SOLTANTO
Se non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così, come? E se non ora, quando?
(Primo Levi)
Ogni volta che ho incrociato questi versi ho pensato al loro respiro gigante, universale.
E non solo per le tematiche a cui si riferiscono.
Ho pensato alla loro possibile estensione, al loro allungarsi sulla vita, sull’alba e sul tramonto di ogni destino, al loro catturare scintillii e rimandi.
Nessuno può essere per noi. Nessuno.
Anche se lo vorremmo, specie quando non ci piacciamo, quando le nostre azioni misurano il limite, quando lambiscono le nostre paure portandosi via pezzi di sicurezza.
In fondo, una parte di noi vorrebbe sempre che qualcun altro "fosse" e "facesse" al posto nostro, soprattutto nei nostri errori e nelle nostre incertezze.
Ci crediamo perfino, a volte.
Invece siamo solo noi. Nostro il peso delle conseguenze, nostra la responsabilità, nostre le gioie e i dolori.
Certo, a volte tendiamo a sgusciare via come anguille affidando ad altri il nostro destino salvo poi vedercelo riconsegnato in mano, e con gli interessi.
Perchè davvero, davvero non è possibile che qualcun altro sia per noi. Non possono esserlo padri, madri, sorelle, fidanzati, amici, colleghi, maestri…
E magari giriamo disperati, sempre alla ricerca di qualcuno che viva e che operi per noi. E ci sembra di trovarlo, questo qualcuno, ci sembra che possa sollevarci dal peso di essere.
Se siamo fortunati l’illusione crollerà in breve tempo. E’ comunque destinata a crollare, un giorno o l’altro.
Più avremo procrastinato l’appuntamento con la riconsegna del nostro destino, maggiori difficoltà avremo nel guidare nuovamente la nostra esistenza, conducendola fuori dai porti facili ma ingannevoli per affrontare il mare aperto, ignoto e pericoloso dell’essere.
In quel mare navighiamo incerti, fragili, appesi alle nostre speranze che inseguiamo come aquiloni nel vento.
Nessuno può navigare per noi.
E nessuno può farlo ieri. Nè può farlo domani.
Solo noi, solo adesso.
IDEE IN FUMO
Il fumare lo aiutava molto davanti alle donne a cui il fumo piace anche perché lo ritengono, e magari con ragione, un gradevole presagio dell’arrosto.
(Carlo Emilio Gadda)
Ho smesso di fumare due anni fa, dopo venticinque anni di onorato servizio alla Sigaretta.
Avevo provato di tutto: granuli omeopatici, cisterne di cerotti e gomme da masticare alla nicotina (con il risultato che, con pelle e bocca farcite di nicotina, la sigaretta era comunque appesa alla mia bocca).
E poi l’agopuntura. E perfino una specie di elettroshock alle orecchie (pareva funzionasse. A me ha irritato così tanto per la sensazione metallica provocata dal contatto elettrico che, appena fuori dallo studio, tutta incavolata ho subito acceso una sigaretta).
E la mia coscienza rimandava il momento. Come quella di Zeno, ogni giorno si ripeteva che era l’ultima volta.
Fumare ha sempre una scusa pronta. Fumiamo quando siamo emozionati. Fumiamo quando siamo arrabbiati.Fumiamo quando siamo annoiati. Fumiamo quando siamo felici. Fumiamo prima di pranzo per fermare la fame. Fumiamo dopo pranzo perché abbiamo mangiato. Fumiamo dopo il caffé. E anche dopo il cioccolato. E dopo il sesso. Insomma, fumiamo perché viviamo.
Un giorno me ne andai a un seminario di Easyway, di Allen Carr.
Me ne stavo lì, insieme ad altre dieci persone, a prendere coscienza della mia difficoltà a smettere. C’era una tizia, una signora grassa grassa, che aveva la faccia piena di cicatrici: la notte, quando si svegliava, si accendeva una sigaretta e poi si riaddormentava, bruciandosi.
Il seminario fu interessante. E divertente. Ma non smisi. A quanto pare, fui l’unica di quel gruppetto, l’unica sfigata che non riusciva a mollare la sua stampella.
Eppure, eppure quel giorno Francesca, la tizia che teneva il seminario, disse una cosa che in seguito rimbalzò più volte nella mia mente. Ci chiese di ricordarci come eravamo prima di iniziare a fumare.
Come eravamo. Come ero? Oddio, non ricordavo. Già, non ricordavo. La mia vita di "adulta" era stata accompagnata dal fumo. Sempre. Prima di quel momento, ero stata solo una bambina con i ricordi di una bambina: le maestre, le bambole, il gioco dell’elastico in cortile, con le amichette.
Mi resi conto, fra stupore e dolore, di non conoscere il mondo senza il filtro della sigaretta.
Sì perché la sigaretta rappresenta un confine, una frontiera tra noi e il mondo. Buttiamo fumo fra noi e ciò che ci circonda. Perchè ci aiuta, ci protegge, ci dà l’illusione della forza. Crea una nebbia che vela, come nella terra di Avalon.
Fu questa la molla che mi fece cambiare. Fu il fatto di non sapere come ero prima di una stupida sigaretta.
E piano piano, lentamente, l’idea di scoprire la mia "nudità", fatta solo di pelle senza tabacco, mi portò a quel mattino del 2006 in cui smisi di ficcarmi in bocca le sigarette. Non fu facile. Quattro giorni con la voglia di dare craniate sul muro, con il vuoto nella pancia dopo ogni pasto, con quel senso di lutto per una parte di te che se ne va.
E poi un mese duro, durissimo. Non è vero che smettere è facile. E’ difficile. Ma ne vale la pena.
La sigaretta è un’amante terribile, viene e si piglia tutto. Liberarsene vuol dire legarsi a sé stessi, come Ulisse fece con l’albero, e proseguire la navigazione.
Ma adesso sono libera. Di respirare, di annusare, di essere.
Penso a quante illusioni, a quante idee sbagliate. Come tanti, legavo al fumo la mia creatività. Quando scrivevo, ogni volta che dovevo elaborare un concetto strategico, o posizionare una parola difficile, mi accendevo la sigaretta.
Fu per questo che quando scrissi un libro, lavorandoci notte e giorno davanti a grattacieli di cicche sul posacenere, alla fine del viaggio i miei pomoni iniziarono a sibilare.
Non è vero, non è vero che le idee passeggiano sul fumo della sigaretta.
Tolto il fumo, le idee, libere, cominciano a correre a perdifiato.
E la scrittura ha proseguito. Le false illusioni sul fumo sono tantissime. Ma sono illusioni.
Non dico di aver vinto, sono prudente. Sono una che "per ora" non fuma. Ma dentro di me so di avercela fatta. Come? Lo so perché accetto il fumo degli altri, perchè a casa mia, o nel mio studio, chiunque può fumarsi la sua sigaretta. Quando sconfiggiamo davvero qualcosa, smettiamo qualunque crociata. L’intolleranza nasce sempre da qualche paura irrisolta. Chi diventa nemico giurato del fumo forse nasconde una tentazione inconscia, forse è ancora sedotto dalla sua amante tradita.
A me non fa più paura, il fumo.
Se qualcuno vuole fumare, lo faccia pure.
L’unica cosa che chiedo, magari, è di aprire la finestra per sentire il profumo dei gelsomini in fiore.
Quello sì, buono davvero.
UNA NARRAZIONE DA DIVO
Lo so, lo so. Il divo è uscito già tempo fa.
Ma io l’ho visto solo ieri sera, in una insopportabile serata estiva immersa in una Roma goffa e accaldata, attraversata dalle afose nevrastenie dei suoi cittadini.
Al cinema, almeno, c’era l’aria condizionata.
E subito, all’inizio del film, ho scordato calure, stanchezze, ventilatori, sudori…
Il divo è un film meraviglioso, semplicemente.
Non era facile raccontare Andreotti, non era facile farlo senza retorica, banalità, didascalismi.
E invece ci riesce, Paolo Sorrentino. Eccome se ci riesce.
Il film funziona perché racconta una storia, la rende viva, pompa sangue nelle sue vene.
Meravigliosa la magia della rincorsa fra suggestione e realtà, fra finzione e documento.
Ci sono scarti, rallentamenti, accelerazioni e virate in un pulsare sempre ritmato che mostra il talento di una regia di razza.
Il film spesso suggerisce ma non definisce, mantenendo sempre un piacevole equilibrio.
E mentre riviamo le ombre d’Italia, mentre ripassiamo, ancora una volta, stragi e omicidi, giochi di potere e mistificazioni, possiamo anche accorgerci che il "potere del fatto" può essere magnificamente sorretto dal potere del racconto.
Non è da tutti, saper raccontare qualcosa.
Al cinema come nella letteratura.
Lui lo sa fare. E sa anche scegliere bene i suoi attori. Servillo è perfetto. Assolutamente perfetto. Non inciampa in una facile interpretazione di Andreotti, con la gobbetta e la parola sempre pronta, ma scava nel personaggio, cerca di visitarne i demoni e di passeggiare con i suoi angeli (già, perchè anche lui, anche il nostro Giulio, come tutti noi, si trova sull’orlo di due tensioni dell’essere, di due direzioni inverse),vaga nei sotterranei per interpretare la personalità più discussa della nostra politica, il vero "signore degli anelli" nella nostra repubblica.
Ma se la demonizzazione è una facile tentazione, regista e attore preferiscono tenersi distanti. Preferiscono raccontare l’oscurità senza dimenticare di accendere anche la luce.
Io sono rimasta incantata. Rapita. Servillo entra nel personaggio e lo fa suo (è Andreotti a diventare suo, non il contrario), e riesce a emanare lo stesso carisma, a rappresentare lo stesso labirinto di specchi in cui l’immagine di Andreotti si mostra, si nasconde, gioca a rimpiattino con la Storia.
Se qualcuno avesse perso il film, dovrebbe andarlo a vedere.
Di nuovo, ieri sera, ho pensato a quanto coraggio ci vuole nel raccontare una storia che è anche Storia.
E ho pensato che quello della narrazione rimane uno degli arcani più affascinanti dell’uomo. O ce l’hai o non ce l’hai. Non è democratico, il talento della narrazione.
E’ un talento che non si può comprare, né studiare, né barattare.
E meno male.
EMERGENZA PAROLE
Brutta bestia, la routine. Arrugginisce le rotelle del cervello dei giornalisti e, quel che è più grave, ammorba i poveri lettori, costretti a vedersi riproporre periodicamente le stesse notizie, le stesse interpretazioni, perfino le stesse parole.
Prendiamo il termine "emergenza". Stando al vocabolario, dovrebbe voler dire "situazione eccezionale", "stato di allarme", "avviso di pericolo". Insomma l’emergenza dovrebbe essere l’eccezione, nella vita della gente. Ma stando ai giornali è la regola. C’è un tg o un quotidiano senza un’"emergenza" nei titoli? In Italia sembra che ogni cosa sia un’emergenza: dei rifiuti, del maltempo, del prezzo dei carburanti, della giustizia, dell’immigrazione. E ancora: emergenza criminalità, emergenza ubriachi al volante, emergenza stragi del sabato sera, emergenza bagagli in aeroporto, emergenza incendi. Come dice Luca Goldoni, bisognerebbe cambiare la definizione scritta nei vocabolari in questo modo: "Emergenza: stato di assoluta normalità".
La vera emergenza forse è la banalità del linguaggio giornalistico.
(Michele Brambilla, Sempre meglio che lavorare)
Giustissimo. Il libro di Brambilla, giornalista ironico e dissacrante, denuncia vizi e illusioni del giornalismo, un sogno per chi non fa questo mestiere, a volte un incubo, invece, per chi lo fa. Ci sono anche splendori e nobiltà, d’accordo, ma è bene conoscerne la fuffa da vicino.
E sulla pigrizia del giornalista, nulla da dire. Ha ragione.
Tra l’altro questa pigrizia invade ormai le parole, proprio quelle parole che caratterizzano il mestiere del giornalismo. Si respira aria viziata.
Personalmente, mi innervosisco da morire quando leggo o ascolto le coppie noiose, quelle parole abbinate in modo pedissequo, sempre.
Come, per esempio: "un silenzio assordante", "lo scoppio della pace", "un omicidio efferato", "una sanguinosa battaglia". E chi più ne ha più ne metta.
La nostra lingua è meravigliosa, vive di magie, di incontri alchemici tra sostantivi avverbi e aggettivi. Perché ridurla a un coma perenne?
Perché non osare mai? Perché non avventurarsi in cerca di quelle alchimie?
L’italiano è vastissimo. E’ una terra da percorrere in lungo e in largo. E questa terra è fatta di boschi, di deserti, di montagne e di mari. Di autostrade e di stradine sterrate.
Ma a volte ci fermiamo per ignorare le possibilità di quel paesaggio magnifico.
E allora tutto diventa uguale, noioso, prevedibile, banale.
La vera emergenza, ha ragione Brambilla, sono le parole.
DEL BLOG E DI ALTRE FACCENDE
Di solito i blog sono tematici. Si occupano di letteratura, politica, viaggi, cucina, aziende…Chi studia i blog consiglia sempre di caratterizzarli attraverso la trattazione di argomenti specifici.
All’inizio, con il Mulino, volevo fare lo stesso. Volevo fare un blog che si occupasse di giornalismo e scrittura, che trattasse del mio mestiere che ha a che fare con la parola scritta.
Ma non ci sono riuscita. Perché il blog ha finito per somigliare alla padrona di casa.
Nella sua personalità è inevitabilmente confluita la mia. Ed è diventato un luogo eclettico, certamente vitale ma molto disordinato, come la mia abitazione che sembra piuttosto un suk.
Me ne rendo conto.
Ma non poteva non essere come me, il blog. Sarebbe stato artificiale, “falso”.
So che adesso è un luogo un po’ strano, spiazzante. Si parla di tante cose diverse, dai libri alla società passando attraverso la filosofia, la metafisica, perfino l’astrologia.
Anche lo stile subisce variazioni: a volte è letterario, altre volte più immediato, prosaico. A volte si attarda nei paraggi della malinconia, altre volte vira deciso verso luoghi umoristici.
Ma il blog è come me.
Non riesco, non sono mai riuscita, a seguire sempre e solo una direzione. Sono “una, nessuna e centomila”, come scriveva Pirandello.
Mi piacciono cose diversissime fra loro. Ho un’anima gitana e una stanziale. Una antica e una metropolitana. Una progressista e una tradizionalista. In me convivono la "filosofa" che ama le stelle e l’avventuriera che della terra esplora profumi, suoni, colori. Non a caso, tempo fa, sono inciampata nell’astrologia (intesa come Scienza Sacra e non come “brankologia” a uso e consumo di furbacchioni) mentre, di giorno, insegnavo a giovani aspiranti redattori come lavorare sui testi degli autori contemporanei.
Questa “scissione” è dolorosa, ma è anche foriera di libertà.
Due anni fa scrissi una sorta di manifesto a cui sono molto legata. Si intitola”Anima e cozze” e racconta di come ci siano istanze diverse, nell’uomo, e di come sia difficile viverle e integrarle tutte.
Certo, ci si sente come cani sciolti, alla fine. Non si appartiene definitivamente a nulla e a nessuno.
Ma la libertà è anche solitudine. E’ soprattutto solitudine.
Il non riconoscersi in nessun luogo socio-politico o culturale significa anche avere sempre la possibilità di scegliere, di volta in volta. Di cercare ciò che risuona con noi e ciò che invece vive sull’orlo della distanza.
Quando iniziai l’avventura di Silmarillon, la rivista online che deve molto anche ai preziosi contributi di molti blogger (grazie Pieffe, Kusanagi, Parlardi, Ettorrissimo, Heraclitus e Dreca), non riuscii a evadere da questo modo di essere.
Infatti Silmarillon è una rivista trasversale, non facilmente identificabile.
Sapevo di correre il rischio di incontrare resistenze e difficoltà, immettendo in Rete un progetto culturale non caratterizzato da una decisa inclinazione ma solo ispirato dalla curiosità, senza frontiere politiche e schieramenti di sorta.
Di solito chi si occupa di cultura sta a sinistra, polticaemnte parlando. Lo fa a causa di un processo storico, di un percorso quasi naturale, spontaneo. Lo so perché vengo da una scuola precisa, quella di Storie, la rivista che ospitò i miei primi passi nel mondo del giornalismo letterario romano. Una rivista a cui penso sempre con gratitudine. Ma mi stava stretta, alla fine. Come un maglioncino di cotone lavato in acqua bollente. Troppa l’appartenenza, lo schieramento.
Io, io sono un cane sciolto. E sono migrata.
E sono anche cresciuta. E crescendo mi accadeva qualcosa di strano: i confini si spostavano, gli schemi si sgretolavano, gli opposti si attraevano.
Nel frattempo l’incontro, anzi lo scontro, con la “tradizione” intesa come quel sistema antico che orienta l’uomo rendendolo consapevole delle sue radici spirituali. E fu così che la militante laica, "progressista", incrociò il mondo delle antiche Scienze Sacre. E se ne innamorò. Scoprì le meraviglie dell’alchimia, della spiritualità di diverse latitudini e longitudini, dei simboli primordiali di cui è tessuta ogni cosa. Esplorò le terre dei miti e delle leggende. E si riconobbe.
Questo modificò molti assetti interiori e produsse tante, tante domande.
Meglio avere molte domande che molte risposte, comunque. Quelle, le cerco ancora.
Non mi piacciono mai le ricette, nella vita. Alle cose arrivo per vie diverse, tutte mie. Ma non seguo mai esattamente i passi di altri. Un vizio, questo. Tutt’altro che un pregio.
Per questo non sono mai stata neanche una tradizionalista doc, per quanto quel mondo, il mondo degli Antichi, sia stato e sia tuttora, per molti versi, “casa”. Ma da quella casa parto comunque, per altre incursioni. E mi ribello quando non condivido. Quando il mio anarchico essere trova difficoltà nel coniugare le pulsioni più selvagge con la loro sublimazione. Quando i miei metalli, troppo pesanti, mi precipitano nella materia facendomi passare la voglia di lavorarli. Quando l’istinto voga contro la volontà. E la "pancia" e la "testa" lottano, scambiandosi man mano la guida.
In più c’è un problema. Tradizionalista, progressista, buddista, socialista, comunista, fascista, ista ista ista…
Ogni “ismo” alla fine è anche arresto, censura, impossibilità di confronto.
Quanta finta dialettica, in giro. Quante “democrazie” fasulle che servono solo a farci sentire buoni, falsamente aperti al prossimo. Mentre in realtà misuriamo il pensiero di altri prima ancora che sia formulato, lo parcheggiamo in modo strategico nei confini della nostra aiuola, lo sistemiamo in modo che i fiori delle nostre credenze non siano mai minacciati. Eppure a volte il concime “diverso” aiuterebbe davvero quei fiori che, protetti dai nostri schemi mentali, finiscono arrostiti sotto il sole cocente delle nostre convinzioni.
E si essiccano. E muoiono anche se a noi sembrano così “vivi”.
Quanti musei delle cere, oggi. Soprattutto nei nostri salotti culturali (per questo rimando a un vecchio editoriale pubblicato altrove), che dovrebbero essere invece fucina di creatività, speranza di nuovi orizzonti, apertura della coscienza.
Ma torniamo a Silmarillon (come al solito, sono partita con un itinerario in mente che man mano negli incroci ha abbandonato la strada maestra, incuriosito da vicoli, curve e perfino strade chiuse). Silmarillon, dicevo, ha finito per somigliare al salotto del Mulino, e il salotto del Mulino alla sua padrona di casa.
E’ un mulino che macina idee e cose in ordine sparso.
So che questa “non caratterizzazione” può spiazzare o far sentire qualcuno estraneo, a volte.
Mi è capitato di scrivere alcuni post che scavalcano le appartenenze e sono stata tacciata, a volte, di conservatorismo, anche quando l’intento era molto diverso. Come nel caso della lettera a un bambino nato o quando ho parlato in un certo modo dei fatti di Genova .
Non erano, questi post, abbastanza “schierati”. Mettevano in dubbio alcune certezze.
Ma io, lo ripeto, sono fatta così. Non mi interessa mettere in dubbio questioni di sinistra o di destra. Mi interessa scavare, esplorare, cercare di guardare oltre i limiti della nostra siepe privata che così tanto “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
E così a volte di quella siepe sposto i rami le foglie.
Tornando all’origine di questa riflessione mi rendo conto che Il mulino di Amleto trova, di volta in volta, “amici” entusiasti in seguito un poco straniti da concetti e dichiarazioni verso le quali all’improvviso si sentono estranei. E il salotto di casa diventa così un posto scomodo (e nei salotti, si sa, bisogna star comodi), un luogo che tutto d’un tratto non rispecchia più le nostre idee e i nostri bisogni. "Ma come, prima sembrava così di sinistra, così pieno di apprezzamenti culturali verso i miei esponenti, e ora mi apprezza uno scrittore di destra, per di più legato a quella ”sacralità” che minaccia ogni libero fare (vedi il caso di Junger)?. E poi che fa, a volte addirittura attacca le mie icone?" Bel problema.
Viceversa, chi apprezza invece i richiami alle tradizioni e alla metafisica, a volte può smarrirsi nelle inversioni di rotta che sfiorano le geografie dei mondi moderni e delle loro caratterizzazioni.
E poi lo stile. A volte è letterario, ma perché allora altrove diventa così “parlato” e quasi scurrile?
Perché scivola dalla malinconia che spesso lo contraddistingue a un umorismo cattivello e tagliente? Perché la padrona di casa è fatta così. Perché questo non potrà mai essere un salotto ordinato, monocromatico.
Perché anche la mia casa reale, non solo quella virtuale, ospita cromatismi diversi (ogni parete è di un colore), raduna oggetti così diversi fra loro (penso al mio bellissimo quadro seicentesco dell’arcangelo Michele e alla tela africana che presenta un’ Ultima cena particolare in cui tutti i commensali…sono neri, oppure penso ai quadretti alchemici e al poster di Bruce Chatwin che inneggia al viaggio), mescola libri di ogni tipo (da quelli sul Pitagorismo alla storia dell’orsetto Winkie, scritta da un omosessuale che qui racconta l’odio per il “diverso”, dalla collezione dei romanzi francesi a quella dei fumetti di Candy Candy) così come accade ai miei film (da Il settimo sigillo a Grey’s Anatomy, da Non sparate sul pianista a L’ultimo dei Mohicani…).
Insomma, un luogo che mischia suggestioni e appartenenze.
Il blog non poteva non somigliargli.
Ci penso spesso, ultimamente.
Io sono fatta così. Purtroppo non appartengo a una famiglia. E se a volte mi sento orfana, altre, invece, penso che non baratterei mai questo senso di libertà.
E mentre scrivo mi rendo conto che anche questo post, alla fine, è venuto fuori così, come me.
Più un guazzabuglio che un disegno ordinato. Come gli esperimenti pittorici della mia infanzia.
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