EDUCAZIONE ANIMALE
il mio gatto Anakin, per sua gentile concessione
Succede che qualche giorno fa vengo coinvolta nel salvataggio di una gatta randagia investita da un’auto (no, non è il gatto della foto, che si chiama Anakin e vive a casa mia. Anzi, sono io che vivo a casa sua…).
La gatta è anche incinta, molto incinta. E purtroppo perde i suoi piccoli a causa dell’urto, che le frattura anche il bacino.
La ragazza che l’ha investita, quando capisce che bisogna pagare degenza e cure del gatto, se la fila.
Così Aceto (questo il nome della sfortunata micetta, battezzata così per il suo fare…piuttosto aggressivo!) viene portata in una clinica veterinaria dove viene operata per asportare via i cuccioli morti e viene strerilizzata.
Si trova ancora lì, da qualche giorno. Ha avuto bisogno di una trasfusione di sangue (si è offerta "volontaria" Leila, l’altra mia gatta). Ma se la caverà.
Ogni volta che vado a trovarla incontro, in sala d’attesa, molte persone insieme ai loro animali. Cani di ogni misura, coniglietti tremolanti in braccio alla loro padrona, gatti infilati nei trasportini che strabuzzano gli occhi a ogni nuovo rumore…
Ma accade qualcosa di particolare, nelle cliniche veterinarie. L’ho sempre notato. Lì regna una strana educazione. La gente si saluta, conversa, chiede notizie dei vari animali.
Appena entro una signora allaga la sua faccia in un bel sorriso, chiedendomi chi è la micetta, che cosa le è successo…
E pensare che in ospedale, quando appena un mese fa attendevo di fare gli esami pre-ricovero, la sala d’attesa era gremita da una folla impegnata a snobbarsi a vicenda. Tutti ingrugniti, indifferenti, chiusi nei loro pensieri.
Gli esseri umani sono strani, sono strani davvero.
Scavalchiamo il cadavere di un uomo precipitato, mentre lavorava, dal quarto piano di un condominio (è storia vera), cerchiamo di investire i pedoni se solo osano attraversare la strada, filiamo veloci in avanti se in un angolo stanno pestando qualcuno…
Gli uomini si salutano solo in due circostanze: nelle sale del veterinario e quando si incontrano in montagna.
Anche in quest’ultimo caso, si sfoggiano sorrisi bellissimi quando ci si incrocia. A volte non c’è neppure bisogno di andare in montagna, basta accontentarsi di una collina. A me capita a Monte Mario, qui a Roma, quando percorro un sentiero pieno di verde. "Salve" "Salve". Sorrisi.
Bello, bellissimo.
Ma perché solo in queste due circostanze? Perché altrove siamo invece così arrabbiati, lividi o indifferenti?
Sembra che il prossimo torni a essere…prossimo solo in presenza degli animali o della natura.
Solo in presenza degli animali o della natura. Già.
Interessante, no?
L’ORO DEL MATTINO
Svegliarsi all’alba, quando si è stanchi e si vorrebbe – e potrebbe – dormire, non è mai piacevole.
Eppure qui, nella casa dei miei, nelle Marche, i vagiti del mattino mi regalano sempre una carezza speciale. Perché questi mattini sanno di rugiada e di oro. Umidi e freschi di brezza marina, non conoscono il plumbeo torpore delle albe metropolitane.
Qui la luce è ancora quella del primo sole che si affaccia sulla veranda per segnalare il colore del mare. Non odo macchine ma solo silenzi, benedetti silenzi in cui si infila il vociare allegro degli uccelli che, come bambini odorosi di vita dopo il loro sonno, annunciano le promesse del giorno.
E allora svegliarsi presto non è tormento ma gioia. Le fatiche di pensieri agitati che hanno interrotto il riposo notturno sono ammorbidite dalla coscienza del mare che, a poca distanza da qui, distende le sue membra liquide e si stropiccia sulla battigia.
E penso a come sono tristi le città, con quelle luci artificiali che nascondono l’oro del primo cielo.
I movimenti del giorno, qui, in questa cittadina non ancora ghermita da troppa "civilizzazione", hanno ancora il gusto antico della natura, conservano il respiro del borgo in cui la vita somigliava di più al ciclo della luna e del sole, coincidendo con questi ritmi.
Nessuna luce artificiale, per quanto bella e potente, somiglia neppure per un istante all’oro del sole mattutino.
Quell’oro che qui, in provincia, brilla nelle campagne profumando la terra di buono.
NUOVE MODE: IL RESTYLING DEL MONTE DI VENERE
Accidenti. E’ proprio vero. Mi leggo tutto l’articolo pubblicato su Repubblica di mercoledì 16 aprile. Sì. Sì.
Tutto confermato, come minacciato dal titolo: "La plastica è di moda proprio lì". Esatto, "lì".
Pare che oggi, stufe di infilare due canotti dentro i seni, di paralizzare la faccia con un veleno, di tendere strirare e appiattire le rughe, di sollevare il deretano, di gonfiarsi le labbra e rifarsi perfino i capelli, le donne si siano rivolte…"lì".
Ecco che allora la vagina, simbolo del mistero femminile, porta di accesso per la creazione, grotta nascosta che ogni mese rinnova l’enigma del sangue, diventa luogo privilegiato per le ispezioni dei chirurghi, pronti a migliorarne l’estetica.
Liposuzione del pube per le ciccione, ridimensionamento delle grandi labbra se troppo scese, rinfoltimento dei peli, iniezioni di acido iarulonico sulla clitoride.
Al Villa Borghese Institute di Roma (zona Parioli, e ti pareva?) non scherzano mica.
Ti fanno un trattamento coi fiocchi.
E pare che le donne dai 35 ai 55 anni accorrano in massa. Lo conferma anche il direttore, Marco Gasparotti, che gongola: "Ai Parioli in nove mesi sono stati effettuati 150 interventi del genere. Donne che, magari dopo aver fatto un lifting del viso, decidono di ringiovanire nelle aprti più intime che, col passare del tempo, hanno perso tono. E’ un tipo di operazione semplice, in anestesia locale, un giorno di degenza in clinica e si va via".
Cade così l’ultima frontiera del pudore. Frana così, però, anche il buon senso.
Andare in giro con la vagina rifatta è segno di circoncisione dell’intelligenza.
Io non so più se ridere o piangere. Lo dico davvero.
Ma che pena, queste donne del terzo millennio che fanno la fila dai nuovi sacerdoti in camice bianco (perché i chirurghi plastici sono così) che celebrano la liturgia della Giovinezza.
Altro che elisir di lunga vita.
Sì, certo, "la vagina è mia e ci faccio quello che voglio". Ma non sarebbe meglio, allora, che fosse data in adozione a qualcuno? Che ne so, magari affidate a una casa famiglia per vagine sottratte a proprietari incapaci.
Perchè davvero, il monte di Venere era bello quando era…un monte, appunto. E non la collinetta potata e coltivata e strigliata a cui l’abbiamo ridotta.
ASSISI VAL BENE UNA MASSA?
Ieri a Napoli alcuni senzatetto venivano sfrattati da una chiesa che avevano occupato abusivamente. Oggi, invece, la notizia del divieto per i mendicanti di sostare dentro le chiese, o nei loro paraggi.
Ora, lungi da me l’idea di predicare un buonismo sul quale ruzzola ogni intelligenza, è pure vero che si avverte uno stridore – in queste decisioni – con l’idea di un certo cristianesimo.
Soprattutto ad Assisi dove San Francesco, mendicante d’onore della città, posò le basi di una corrente religiosa votata all’aiuto del più debole, del povero, dell’emarginato, in linea con gli insegnamenti di Cristo. Che poi Francesco fu molto di più di ciò che viene tramandato e che fa parte ormai dell’icona classica (a volte un po’ da cartolina) in cui viene relegato a "fraticello buono" (mentre in realtà la sua vita e il suo pensiero mantengono forse uno strato occultato, nascosto, sfuggito all’angiologia ufficiale) fa parte di un’altra storia.
Vero è, comunque, che la notizia desta quantomeno perplessità. E sì, anche un pizzico di ilarità.
Ma insomma, questi straccioni dove devono andare se sono banditi perfino ad Assisi, nei luoghi di chi li accudì, li difese, vivendo perfino come uno di loro?
Sicuramente la loro non è una scelta spirituale (se avessere poderi e patrimoni dubito se ne sbarazzerebbero per girare come matti infilati in un saio e in un paio di sandaletti smozzicati): è, senza dubbio, una condizione figlia della Necessità.
Il punto vero è che oggi la figura del mendicante raduna realtà molto diverse fra loro. Innanzitutto è multietnica. Asiatici, mediorientali, africani, e poi albanesi, rumeni. E gli zingari. Frotte di zingari. Non tutti uguali per etnia e cultura, ma tutti sommati, nell’immaginario collettivo, sotto l’ombrello di un’unica, grande famiglia.
Nelle grandi città a volte è difficile trovare un mendicante doc italiano.
Ci sono i nipotini dei fiori (oggi diventati, purtroppo, figli dei fuori), che preferiscono fare braccialettini da vendere ai margini della strada o disegnare – in modo meraviglioso – Madonne sul suolo. E poi ci sono quelli dotati di animali. Cagnolini deliziosi che ti seguono imbrocianti dal loro giaciglio improvvisato, gattini al guinzaglio, a volte perfino pappagallini. Alcuni di loro sono davvero amati dai loro padroni, altri, invece, provengono dai canili, abili strumenti per impietosire i passanti (e sono tanti, purtroppo).
Ci sono i drogati, che affollano stazioni e dintorni con le loro storielle inventate (tipica quella della colletta per il viaggio in treno).
Insomma, un melting pot di strategie e necessità, furberie e bisogni reali.
Che fare davanti a un bambino rom? Negargli i cinquanta centesimi e fargli incassare il ringraziamento da parte del padre? La cosa più saggia, in questi casi, è forse comprargli un panino e una coca cola, davanti alla quale i suoi occhietti si accendono come due soli emanando raggi di gioia. Non sempre, però, il tentativo ha un buon fine (meglio i soldi, meglio non prendere le botte).
In questa giungla c’è anche chi ha realmente bisogno.
E se è vero che circolano anche ladri, sfaticati, imbroglioni, drogati, strategici storpi, è anche vero che allontanare questa umanità dolente dalle nostre chiese non mi sembra un gesto molto cristiano.
Non la cancelleremo relegandola solo sotto i ponti dei nostri fiumi o sugli scalini delle metropolitane. No.
Le pulizie non si fanno mettendo la polvere sotto il tappeto.
I senzatetto che hanno invaso la chiesa di Napoli sono molto arrabbiati, ma non meritano le parole dure di certi funzionari religiosi che vedono solo l’oltraggio al decoro e non quello alla dignità.
Il sacro non si preserva ignorando il "profano". E’ questo l’errore che fanno molti (ma che non ha fatto Cristo, di certo).
C’è qualcosa che imbratta una chiesa molto più di una folla sporca e affamata.
Si chiama indifferenza agli insegnamenti che si pretende di professare.
Ma quando si deve "fare" e non professare, si sa, tutto cambia. Ciò che è scomodo è scomodo, per tutti.
Certo, tutti noi vogliamo le nostre chiese belle e pulite, odorose d’incenso e di silenzio. Giusto.
Non possiamo però far finta che, prima di entrare, non esista lì fuori, lì intorno, quella folla stracciona e addolorata che ci pressa, ci tira la giacca, ci chiede aiuto e denaro.
Invece di arrabbiarsi o mettere quella polvere sotto il tappeto, sarebbe bene cercare di trovare il modo per far sì che quella polvere possa essere aria. E se non ci si riesce, una mano tesa davanti a chi la notte non sa dove dormire comunque non guasta.
L’anima "leghista" di certi preti farebbe bene a darsi una strigliatina.
I SENTIERI DEI GURU
Essere un guru non significa avere un seguito di fedeli. Un guru p una persona in grado di indicarmi la via. Immaginiamo che mi sia perso nella foresta. Incontro un tale e gli chiedo:"Per favore, può indicarmi la strada per tornare a casa?" E lui: "Sì, fai così e poi così". E io: "La ringrazio molto", e seguo le sue indicazioni. Questo è un guru.
Oggi c’è l’idea che un guru sia una persona con numerosi seguaci che lo seguono come il pofferaio magico. E’ sbagliato. Un vero guru vi indicherà la via. La segui e ti ritrovi a casa. Allora potrai ringraziarlo. Io provo una naturale gratitudine per il mio guru, e il nostro rapporto mi dà gioia, ma questo non significa seguirlo ovunque, perché non sarei più a casa mia. Seguire il cammino che sta facendo il guru è un altro modo di perdersi. Il concetto yogico dello svadharma signifca "Il mio dharma", "la mia via". Se tenti di seguire il dharma di un altro, ti cacci nei pasticci. Il guru è quello che ti aiuta a trovare il tuo dharma".
(T.K.V.Desikachar, Il cuore dello yoga)
E ha ragione, Desikachar. Tra l’altro viviamo in una società piena di guru, insegnanti, maestri, apprendisti maestri, tuttologi dell’ultima ora.
Nessuno vuole essere più allievo. Niente. Tutti a insegnare, tutti a "sapere", tutti a maestreggiare.
E invece essere una guida, un insegnante, è cosa difficile. Lo è dal punto di vista accademico, figuriamoci da quello spirituale.
In-segnare, come suggerisce anche l’etimo, comporta un contatto profondo in grado di operare una trasformazione trasferendo un segno, un signum.
E, soprattutto, tiene conto del cuore pulsante di ogni allievo, uguale ma allo stesso tempo diverso da tutti gli altri.
Le cose si "complicano davanti al guru spirituale. C’è un bel libretto di Claudio lanzi, "Maleducazione spirituale", dedicato proprio alle difficoltà e alle illusioni di questo tipo di ricerca particolare.
Oggi, purtroppo, imperversano proprio i "pifferai magici" di cui parla Desikachar, illuminato insegnante di yoga, quei pifferai che agitano schiere di adepti lobotomizzati. Basta guardarsi intorno e se ne trovano a bizzeffe.
Desikachar opera un distinguo sottilissimo sul seguire la via di qualcun altro..e la propria.
Nessuno può fare un percorso al posto nostro. Nè noi possiamo pretendere di fare esattamente come qualcun altro, semmai ci si può avvicinare a una simile qualità dell’essere (e Cristo ci ha fregato gli apostoli, dicendo "Siate come me". Siate, – ha detto – non fate).
Ma nel ciarpame pseudo-spirituale dei nostri giorni come dare torto a chi, saggiamente (suo malgrado), dice: "Se incontri il Budda per la strada uccidilo"?
Il problema, infatti, è che non incontriamo mai il Budda. Al massimo, un budino.
FUNERAL BLUES
Fermate tutti gli orologi
isolate il telefono
fate tacere il cane con un osso succulento.
Chiudete i pianoforti
e tra un rullio smorzato,
portate fuori il feretro.
Si accostino i dolenti.
Incrocino aeroplani, lamentosi, lassù
e scrivano sul cielo il messaggio:
Lui è morto.
Allacciate nastri di crespo
al collo bianco dei piccioni.
I vigili indossino lunghi guanti neri.
Lui era il mio nord, il mio sud,
il mio oriente e il mio occidente,
la mia settimana di lavoro
e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte,
la mia lingua, il mio canto.
Pensavo che l’amore fosse eterno
e avevo torto.
Non servono più le stelle,
spegnetele anche tutte,
imballate la luna,
smontate pure il sole,
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco
perché ormai più nulla può giovare.
(W.H. Auden)
Non so perché il pomeriggio tiepido di una tardiva primavera mi ha fatto pensare a questi versi.
Forse perché li ho sempre amati. Forse perché W.H. Auden è un poeta che mi lascia sempre la pelle scoperta. Sì, scoperta.
Questo canto estremo in cui scivola l’addio stritola l’anima che cerca il suo smarrito amore.
W.H.Auden ci regala una poesia meravigliosa, fatta di parole perfette, semplicemente.
Dopo tanti anni, mi commuove ancora.
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