Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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IL DECLINO DEL PUNTO E VIRGOLA

 

 

C’era una volta un punto
e c’era anche una virgola
erano tanto amici,
si sposarono e furono felici.
Di notte e di giorno
andavano intorno
sempre a braccetto.
Che coppia modello –
la gente diceva –
che vera meraviglia
la famiglia Punto e Virgola.
Al loro passaggio
in segno di omaggio
persino le maiuscole
diventavano minuscole
e se qualcuna, poi,
a inchinarsi non è lesta
la matita del maestro
le taglia la testa

(Gianni Rodari)

C’era una volta. Oggi non più.
Forse a causa della crescita vertiginosa dei divorzi, il matrimonio tra il punto e la virgola è in crisi, tanto che i due stanno tornando a ingrossare le fila dei single.
E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
Sarà, ma io continuo ad apprezzare – pur non usandola molto – questa vecchia coppia che ha superato le nozze d’oro e d’argento.
La lingua è qualcosa di mobile, dinamico, che può ospitare stili diversi senza per questo schierare in campo odiate fazioni.
Di sicuro Kurt Vonnegut non adora il punto e virgola. Di lui dice, con fare tagliente: "Se vuoi davvero infastidire i tuoi genitori e non sei tanto audace da essere omosessuale, il minimo che puoi fare è darti all’arte. Ricordati di non usare mai i punti e virgola, però: sono ermafroditi travestiti, che non stanno a significare nulla. Tutto ciò che fanno è mostrare che sei stato all’università".
E Getrude Stein, con la sua consueta anemia di virgole:"Essi (i punti e virgola, ndr) sono più potenti più imponenti più pretenziosi di una virgola ma essi sono una virgola lo stesso. Hanno davvero in sè profondamente in sè fondamentalmnete in sè la natura di una virgola".
Su Repubblica di sabato 5 aprile Stefano Bartezzaghi dedica un lungo, interessante articolo a questa crisi interpuntiva facendone una diagnosi poco promettente per il futuro.
Del resto, la società cambia, oggi corriamo tutti e in questa corsa lasciamo andare ciò che ci sembra una zavorra. Pesano, le frasi lunghe con le subordinate, pesano gli aggettivi abbondanti, e pesa il punto e virgola (la sola virgola è più light, più leggera, in linea con il fare dietetico che contraddistingue la nostra tentazione moderna in reazione alla bulimia che ci perseguita).
Ma togliere "il grasso" alla lingua italiana non vuol dire per forza far bene. Se il vitello è cibo apprezzabile, anche la trippa ha una sua funzione.
E di questo a mio avviso si tratta, al di là della metafora alimentare.
Il punto e virgola non è inutile. E allo stesso tempo non è obbligatorio. Chissà, forse sta qui il suo dilemma.
Come dice lo Zingarelli, si tratta di un segno grafico che "introduce un membro del periodo in posizione autonoma rispetto all’antecedente". Dunque ha "un suo perché", come dicono oggi i giovani parlando fra loro.
Il vero punto (punto, non punto e virgola) sta nel fatto che tendiamo a perdere la sensibilità linguistica verso le raffinatezze della nostra prosa. Tendiamo all’omologazione, a un generico fare che perde per strada il gusto per i dettagli, per le particolarità.

Con questo non intendo incriminare chi ha chiuso in soffitta il punto e virgola. Niente affatto. Dico solo che, ancora una volta, come sempre, dovremmo guardare le infinite varianti e le infinite possibilità di un linguaggio che, vivaddio, può offrire molteplici emanazioni.
E poi mi viene un dubbio mefistofelico: se in tanta voglia di abbatterlo ci fosse l’incapacità di usarlo in modo efficace? Il posizionamento all’interno di una frase, proprio per il "colore" particolare, un po’ indefinito, di questo segno che va certamente dosato, è più complesso di quello dei suoi compagni, i due punti e la virgola (ahi, qui tocchiamo un altro luogo dolente, specie per noi italiani: ci torneremo un’altra volta).
Personalmente non lo uso spesso (finora, qui, non ne ho inserito nemmeno uno) ma dipende anche dal tipo di linguaggio che uso. Se scrivessi un romanzo di un certo tipo forse lo corteggerei, forse lo inviterei nelle mie frasi.
Ma se scrivo su un blog, con un taglio meno letterario e più veloce, ricorro invece volentieri alla virgola e al punto. Rapidi, agili, dal taglio certo. A questo proposito è interessante osservare come i segni abbiano un peso diverso nel ritmo che danno alle frasi. La virgola somiglia a un taglio, a una ferita che impone una pausa, un arresto.
Il punto, il meraviglioso punto è minuscolo eppure affilato, affilatissimo (Niente trafigge più d un punto, diceva Carver a proposito del suo utilizzo in una farse, paragonato a quello dell’insopportabile punto esclamativo).
Tornando a questo dilemma, dovremmo pensare che ognuno ha il suo stile.
Non me la sento, però, di abolire definitivamente, senza appello, il punto e virgola mandandolo in soffitta insieme alle cose osbolete. Alcune case editrici lo fanno. Capisco, hanno le loro norme redazionali. Ma si può inserire una norma in un romanzo? Che è invece stile libero, flusso personale e uso individuale di un linguaggio che facciamo nostro. Vecchia faccenda, quella dello stile e dei suoi confini con la sintassi e la grammatica. Anche su questo torneremo un’altra volta.
Io continuo a difendere l’eclettismo della lingua, che può asciugarsi deliziandoci in prose dal respiro breve, come in quelle di Borges o di Calvino (ma loro che rapporto avevano con il punto e virgola? andate un po’ a controllare, per curiosità…), oppure farsi trascinare dalla corrente generosa di un Proust, con le sue frasi che scendono a valle in mille rivoli.
E oggi, nella letteratura contemporanea? Oggi, di certo, il punto e virgola è in declino. Sto leggendo "La solitudine dei numeri primi", mi aspettano, sul tavolino accanto al divano, "Kafka sulla spiaggia" e "Gli imperdonabili".
Non credo ne incontrerò molti, di punti e virgola. Rischiano di finire come la famosa particella d’acqua Lete, questo è certo.

Ma se qualcuno, oggi, volesse usarli ancora, se qualcuno avesse il coraggio e la bravura di un Proust e dipingesse una cattedrale narrativa che invocasse il loro uso, e se lì fossero bene utilizzati senza far inciampare il lettore, non agiterei la matita rossa gridando all’errore nè sventolerei dichiarazioni di illegittimità e disuso .
Insomma, questo divorzio non s’ha da fare?
Risponderei che, democraticamente, dipende dalla convivenza dei due sposi (del punto e della virgola, intendo) nella penna – o nel mouse – di chi rende vitale questo matrimonio, oppure decide di celebrarne il funerale.
Se la tendenza è quella dell’oblio, mi piacerebbe qualche volta essere sorpresa da qualche felice, geniale recupero.
Misteri e stupori del nostro linguaggio.