LA PASSEGGIATA DELL’IGNORANZA
Mi hanno prescritto una cura particolare: "la passeggiata dell’ignoranza".
"Figliola – mi ha detto il mio medico, un omeopata centenario che gode di ottima salute – lei deve assolutamente prendersi cura di sè. Le prescrivo la passeggiata dell’ignoranza, un’ora al giorno".
Mi ha spiegato che gli antichi la chiamavano così. Una passeggiata senza meta, né pensieri martellanti.
In fondo, somiglia tanto a una meditazione, a un ristoro dell’anima che apre le ali e si distende un poco sotto il suo cielo.
In questo mondo ossessivo, urlato, pieno di nevrosi individuali e collettive, la passeggiata dell’ignoranza è un ritorno…all’antica sapienza.
Viviamo nella cultura del fare. Produco ergo sum.
Sono dunque consumo.
E via così, nello sciame quotidiano che oscura paesaggi e città con i suoi moti epilettici.
L’andare senza meta fa invece bene. Perché non avere meta è la meta più ambita, come sa chi cerca una profonda vita interiore.
In quei momenti è forse possibile sfiorare il presente, infilarcisi dentro fra una memoria passata e un pensiero futuro.
E penso a quante mete sbagliate, a quante griglie prestabilite che ci intrappolano nel nostro tran tran.
Da questa giostra, io cerco (invano) di scendere, perciò il consiglio del vecchissimo, saggio medico mi ha molto affascinato, richiamando alla mente le passeggiate senza direzione e senza scopo che mi regalo soprattutto d’estate, tornando alla cittadina natale.
Camminare è terapeutico, ma farlo seguendo una prescrizione medica è davvero fantastico.
Ai miei "Se…" "Ma.." "Non ho tempo tutti i giorni…" "Il lavoro.." lui ha risposto, categorico: "Passeggiata dell’ignoranza".
E mi ha fregato.
Sì, perché conosco le virtù dell’antica sapienza, il suo "sapere di non sapere" che ha acceso scintille nelle culture di tutto il mondo.
Abbandonare la presa senza pretendere di schedare, dirigere, organizzare, è la cura migliore nei momenti difficili.
Anche la più difficile, probabilmente.
Ma io ho deciso di camminare. Cercando di scordare quello che so.
FRAGILI CONFINI
Quando ci alzammo, ci risistemammo i vestiti e Paolo stirava con le mani le pieghe del copriletto perché non si vedesse che ci eravamo coricati. Poi riaprì la porta e fu come se niente fosse stato, eravamo di nuovo due ragazzi innocenti che sentono musica e chiacchierano del più e del meno. Pensai quanto l’innocenza e il peccato siano vicini, quasi indistinguibili se solo un giro di chiave li divide.
(Paola Mastrocola, Più lontana della luna)
Leggendo il libro gli occhi hanno indugiato su questo brano, sono tornati indietro più volte. E sì, perché c’è una profondità assai stimolante in questa immagine.
L’innocenza e il peccato sono vicini, vicinissimi. Divisi solo da "un giro di chiave", da una prospettiva modificata da elementi a volte infinitesimali, come la grandezza del buco di una serratura.
Come accade con i bambini, che all’improvviso smettono le ali d’aneglo (asessuate, ovviamente) per farsi attraversare da un fulmineo moto di malizia, repentino ma accessibile.
Ricordo, a questo proposito, l’immagine di una bimbetta che camminava davanti a me sulla riva del mare. Sarà accaduto diversi anni fa, ma la ricordo benissimo.
Stavo avanzando, lei mi guardò con occhi sornioni, strizzati per il sole troppo invadente. Poi mi tagliò la strada intrufolandosi nello spazio per camminarmi davanti.
Era piccolina, magra. Avrà avuto cinque, sei anni. Sui capelli biondi portava un bel nastro. Il costumino rosa, con le frappe intorno alla vita, le finiva dentro il culetto.
All’improvviso, la bambina dal volto d’angelo mi sembrò una esperta Lolita. Camminava sculettando, con un’andatura in qualche modo consapevole della malizia, della seduzione che emanava il suo corpo ancora acerbo.
Si infilò gli occhiali da sole dimenandosi ancora di più. Ondulava con voluttà, come una cortigiana in miniatura.
Ho pensato a Freud, a cosa scriveva – scomodando il lindore del pensiero borghese - dei bambini che hanno una sessualità precisa, definita. Che non sono solo i "figli del cielo" che amiamo vedere. Sono anche attraversati da Eros, che con il suo fuoco incendia pensieri ancora non coscienti, guida posture accattivanti, attira verso il mondo magmatico degli adulti in cui scorrono fluidi e misteri assorbiti dalla precocità.
Già, basta un giro di chiave. Basta il perimetro di una serratura.
La vita, la vita è anche un arcano gioco di sottili ambivalenze.
LE PAROLE DEGLI AGNELLI
Bellissimo. Un film bellissimo. Leoni per agnelli mi ha incantato. E mi ha ferito. Perché quando esci dal cinema, sai di non aver visto un film ma di avere sbirciato un mondo reale, un mondo che ci circonda e di cui tu stesso, isieme agli altri, sei responsabile. Un mondo schifoso.
Robert Redford produce e interpreta un film impegnato – come si dice – allontanandosi dalla chiassosa retorica americana sulle guerre e sul patriottismo. La bandiera americana, sventolata da sempre come un fallo glorioso intorno al quale ruota il mondo intero (una per ogni casa, contavo stupita quando vivevo negli Usa), comincia qui a mostrare meno stelle…e a far vedere meglio il sangue che colora quelle strisce.
Il film si gioca su tre storie parallele: una giornalista (Meryl Streep) intervista un ambizioso senatore repubblicano (Tom Cruise), due militari in Afghanistan, feriti durante una nuova offensiva americana restano prigionieri dei ghiacci, un professore universitario (Roberd Redford) chiama un talentuoso ma impigrito studente per spingerlo a emergere.
Tre narrazioni che procedono parallelamente, si inseguono, si incrociano, si mollano e si ritrovano ancora per convergere verso un finale drammatico. Drammatico per tutti.
I due militari sono due ex studenti del professore, due ragazzi di colore (un nero e un portoricano) che alla laurea preferiscono partire per la guerra. Perché per cambiare bisogna essere presenti, agire.
E mentre ci si gioca la pelle, mentre ci si trova circondati dal nemico con il cuore che rabbrividisce davanti alla consapevolezza di una vita imporvvisamente più corta, con una meta adesso vicina, troppo vicina, mostrata dal fiato della morte che alita sempre più svelto sul collo, mentre ci si gioca tutto questo, dicevo, altrove, in luoghi dalle pareti candide e accoglienti, uomini in doppiopetto decidono i destini del mondo camuffando le ambizioni personali e i narcisisimi onnipotenti dietro le retoriche motivazioni che sempre ingannano le nostre orecchie.
Il Senatore parla, pianifica, decide a tavolino illustrando alla stampa i perché (manipolati) delle strategie offensive per una vittoria che deve essere conquistata "con qualunque mezzo" mentre in quello stesso momento due ragazzi muoiono al fronte.
C’è una bella differenza, tra il parlare e il fare. Il ragazzino intelligente ma viziato che al professore continua a parlare del sogno americano, di una bella casa e di buon lavoro perché tanto "il resto è una merda, il mondo politico è tutto corrotto" vive nell’agio, studia ampliando la sua intelligenza che però non è radicata a un’operatività, a un’esperienza reale. Critica ma alla fine rimpolpa quello stesso sistema.
Il film procede così, con battute rapide come schiaffi che mostrano la fragilità del sistema americano e la sua incapacità – dall’11 settembre 2001 – di vedere realmente il passato che ha condotto a questo presente agghiacciante.
La giornalista incalza, domanda, cerca risposte che però sono solo quelle confezionate dalla pomposa retorica americana, con le solite frasi sulla necessità di combattere "il male". Anche se quel male l’ha armato lei, prima.
Ogni personaggio parla con voce tagliente, ognuno difende sé stesso ma la realtà delle cose man mano si sgretola davanti ai fatti nudi e crudi che svelano una nazione fragile come il vetro, persa nei labirinti delle sue credenze, divisa tra ansia di gloria e coscienza occulta della disfatta.
Redford usa la mano pesante, con questo film.
Scarnifica il sogno americano moderno, ne rosicchia i tessuti broccati, cala il sole per alzare la notte.
E ci mostra che per fortuna c’è un’altra America. Un America che si interroga, che si chiede, che decide anche di fare film lontani dalle esasperazioni nazionaliste.
Non c’è nessun nazionalismo, qui. Non finisce bene, la storia. Non finisce bene per niente.
La giornalista che deve decidere se preparare il pezzo confezionato dal senatore stesso, quello in cui racconterà nuove, pietose bugire abitate da velleitari proclami di gloria, sa che conosce un’altra verità, ma che non potrà raccontarla senza mettere in gioco il futuro. In fondo lei, come molti altri, ha chiuso gli occhi per non vedere. Ha preso per buone le dichiarazioni trionfanti della necessità di queste guerre che dal 2001 stanno spezzando la schiena all’America.
C’è un’altra America, avevamo detto.
L’America che fa, che rischia, che conosce il pulviscolo delle parole.
I due ragazzi che crepano sotto i colpi dei talebani sono partiti perché sapevano che l’unico modo per fare qualcosa era cercare di cambiare le cose, e sapevano che essendo una minoranza etnica per loro sarebbe stato difficile, dietro ai libri, poter influire sul mondo e migliorarne un pezzetto.
Non a caso i militari americani sono nella maggioranza neri e portoricani. Sono quelli che hanno respirato la polvere della violenza nei quartieri lontani dalle graziose villette accomodate sulle colline di Hollywood, quelli che hanno visto le ingiustizie e il degrado che affianca il sogno della bandiera. Ma ci credono ancora, ci credono nonostante tutto, e partono volontari. Se la causa è sbagliata, il coraggio è invece quello giusto.
Fare, fare. Basta parlare. Il mondo non si cambia con le parole. Anche perché ci si ritrova con un paese fatto di leoni che muoiono al fronte e di agnelli che comandano e parlano. E che sopravvivono, sopravvivono sempre. Nelle loro casette (bianche) decidono i destini del mondo, destini che saranno realizzati da mani che si sporcheranno di sangue e che faranno il lavoro per loro.
Comodo, troppo comodo.
Ecco perché l’antiamericanismo ottuso è davvero stupido. Ecco perché gli idioti che urlavano "Una, cento, mille Nassirya" hanno il cervello di un uovo di struzzo. Idioti. Imbecilli. Pasolini più di trent’anni aveva già capito che la realtà è più complessa, fumata. Ce lo aveva ricordato indicando nei poliziotti di Valle Giulia i veri proletari, la vera matrice di quel popolo, che gli studenti borghesi che facevano la rivoluzione- figli di papà che la sera tornavano nelle loro belle abitazioni a mangiarsi la minestrina calda – andava difendendo.
La realtà è sfumata, è complessa.
L’America non è solo quella dei fanatismi, dei patriottismi muscolari e dei cattivoni che colpiscono basso a Guantanamo.
L’America è fatta anche di povera gente che va a fare la guerra perché non ha troppe alternative, o perché crede comunque in un sogno di cui godono gli altri, però, quelli che non rischiano mai e che continuano a studiare per lavorare in Wall Street, comprarsi il villino a Santa Monica e fare il weekend a Las Vegas.
Quanti agnelli parlanti, e quanti leoni all’opera.
Il film è ricco di sfumature continue.
C’è un momento in cui nel campus degli studenti un televisore manda un servizio – importantissimo – sulle ultime bizzarrie di una pop-star mentre i titoletti che scorrono sotto recitano di un’agenzia che annuncia la nuova offensiva americana. Sì perchè l’America in fondo è così. I giovani si appassionano di più Britney Spears e alle sue cazzatine quotidiane. Perché anche i media, comunque, hanno avuto le loro colpe, a volte, nel sostenere in modo acefalo il governo americano nella sua corsa alla rinfusa contro il terrorismo.
Il terrorismo.
Bucarne la retorica è impresa difficile, ma se si va oltre, se si guarda più in là, si osserva la gente che muore per a maggior gloria di qualche potente.
Mi tornano in mente alcuni versi bellissimi – affilati, taglienti – della Szymborska:
Basta che tu sia petrolio
mangime arricchito o materiale riciclabile
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita o sulla morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano
come nelle epoche meno remote
e meno politiche.
IN MARE APERTO
Le navi in porto sono sicure, ma non è per questo che sono state costruite.
(Benazir Bhutto)
UNA FOTO CHE CAMBIA UNA VITA
bambino finito su una mina antiuomo, Pakistan
Non è questa, la foto di cui voglio parlare. Ma va bene lo stesso. In fondo, ci sono migliaia di foto diverse che raccontano tutte la stessa storia, quella dell’infanzia interrotta dalla guerra.
E c’è una foto simile a questa. Una foto in bianco e nero, ospitata in una rivista francese insieme alle signorine belle della pubblicità di scarpe e profumi. E c’è una lettrice che resta con la pagina sospesa a mezz’aria.
Una donna come tante, una mamma sulla cinquantina, con un marito, dei figli, un lavoro.
Lei non riesce a tornare all’inchiostro rassicurante, alle patinature che lucidano la greve opacità del mondo.
Continua a fissare quel bambino senza un braccio che, disperato, gira la testa verso il padre come in cerca di quell’arto che lui non potrà restituigli. Gli occhietti strizzano lacrime che invadono il petto nudo, la bocca è aperta in un grido in cui si annida tutta la sofferenza del mondo. Il padre lo abbraccia e volge lo sguardo in alto, con quegli occhi che galleggiano come zattere alla deriva nel volto liquido, in cui la bocca sembra uno squarcio sul nulla. Forse si chiede dove sia finito il suo Dio. Forse non riesce a reggere la trafittura di quelle pupille nere, ancora fresche di fanciullezza, che sono diventate due ombre.
E piange, la signora. Piange.
Non riesce a scordare la foto, e neppure il bambino.
Così decide di partire per il luogo in cui è stata scattata: il Pakistan.
Se ne va lì così, come un refolo di vento salito all’improvviso nel cielo.
Ha solo quella foto con lei. Ne fa più di trecento copie. Cerca, gira, chiede. E, finalmente, qualcuno le dice si sapere dove si trova l’uomo con la faccia disperata.
Una donna, una fotografia, un destino.
Trova il bambino, ed è come incontrare sé stessa.
Lo porta, insieme al padre, in Francia, dove il braccino assente sarà sostituito da una protesi che permette alle dita metalliche di muoversi.
La famiglia francese accoglie, per il periodo che staranno lì, quel bimbo e quell’uomo. Quel bimbo che non parla la stessa lingua del figlio di lei. Ma l’empatia non ha bisogno di lingue. Non c’è Babele che la possa fermare.
Ho ascoltato questo racconto oggi, in un programma televisivo.
E ho pensato al richiamo del cuore, a quella spinta misteriosa che ci fa attraversare terre e persone. Che ci fa cercare per donare, a chi ha poco, quel poco sottratto al nostro "tanto".
Ma i gesti come questo superano ogni preziosa beneficenza.
Invitano a riflettere su quanto, in realtà, si poss fare in prima persona. Senza delegare, senza poi chiudere gli occhi dopo il gesto di buona condotta che magari abbiamo – come sempre – dispensato. Gesto lodevole, per carità.
Ma questi episodi vanno oltre. Raccontano le avventure dell’anima. Raccontano di chi si mette in gioco sfidando la sorte, come fosse un gioco di scacchi.
E in questo mondo martoriato a volte l’amore vince. Scacco matto.
PENSIERI NATALIZI IN ORDINE SPARSO
Non so, ma come sempre, a Natale, mi assale il dubbio.
Vetrine festose, gente in crisi epilettica da regalo che si aggira impazzita per le strade. Un cuculo senza nido, penso. E nessuno che ci vola sopra.
Si plana invece sugli isterismi delle commesse intente a imballare pacchetti e pacchettini.
Immagino invece la serenità di una mia amica carissima, una donna coriacea sul lavoro e ispirata da un gran cuore sulle umane faccende. Lei e la sua famiglia hanno abolito ogni regalo (ad eccezione dei bambini giustamente preservati, ancora, dal leopardiano "crollo delle illusioni"). Preferiscono, loro, donare soldi a chi ne ha bisogno.
Così lontani dall’opulenza che si respira, malgardo la crisi dell’euro e dei salari, in queste trafficate giornate.
Penso a lei con affetto e stima. Penso che forse, l’anno prossimo, farò così anche io.
Adesso, in questa vigilia, mi trovo nella mia città marchigiana a girovagare fra torroni e pandori, fra scatole infiocchettate e nastri dorati.
"Spaghetti trafilati al bronzo", diceva a pranzo (fuori) la cameriera. Già. E perché non placcati in oro?
Insomma, lo so, così sono più naturali (e costosi) ma allo stesso in questi giorni ogni spreco, ogni abbondanza, mi fanno pensare a quanto siamo lontani dal concetto di carità.
E perdio, lo so che sarà retorica, ma non riesco a non pensare che con una pantafolina dorata del papa (quelle speciali, quelle fatte a mano da un antico artigiano di Roma) si sfamano almeno sette famiglie. E’ anche per questo che mi sento lontana da quella Chiesa che questi giorni raduna i credenti.
Lontana dalla Chiesa, non da quel Cristo che ammiro come fiamma vivente.
Mantenere un decoro va bene, vivere nell’eccesso barocco è altra faccenda.
E il pensiero va invece a quegli uomini di fede sparpagliati per il mondo, quegli uomini che vivono di fatica e sudore, che rischiano la pelle ogni giorno per aiutare – con carità cristiana – quelli che ne hanno bisogno.
Sarà colpa della mia anima randagia, fisiologicamente avversa alle istituzioni, sempre tesa a misurare l’abisso che separa l’Idea dalla Realtà (ahimé).
Ma alla Chiesa degli uomini preferisco cercare la Chiesa del cuore. Anzi, chiesa. Non Chiesa. Perché la maiuscola rimanda a un’enfasi assai lontana dall’umiltà di chi è povero perché ha fatto il vuoto dentro di sè.
Stasera, la cena. Ravioli, lenticchie e un oceano di dolci. Ma dopo, dopo me andrò da sola, in terrazzo, a riposare la mente sulla nebbiolina notturna che copre, come un plaid tessuto di sogni, le colline che finiscono in mare.
Respira, respira. Ascolta.
E cerca, ancora, la sorpresa.
A tal proposito, sul Corriere di oggi quel genio del pensiero che è Francesco Alberoni dedica un articolo alla fuga dalla banalità (proprio lui, che con la banalità ha creato il suo impero).
E scrive:
"Si vive in superficie e nulla ci emoziona. Al più ci sorprende".
Non sono d’accordo. Direi il contrario. Direi che nulla ci sorprende. Al più ci emoziona.
Perché l’emozione è solo la superficie dell’anima. E’ solo porta, non sentiero.
Il sentiero richiede invece sorpresa. Richiede la capacità di sgranare gli occhi su un istante che si dilata all’infinito, abbandonando la convenzione di ciò che crediamo di vedere o sapere.
Le cose che ci emozionano sono tante, tantissime. Attraversano le nostre vite come nuvole sull’oceano.
L’emozione è brivido intenso, scossa e piacere. Ma al di là vibra il mondo silente della sorpresa.
E’ lì che la superficie viene abbandonata davvero. Me lo insegnò la persona che cambiò la mia traiettoria e che ogni giorno, dentro di me, fiorisce con rinnovato amore.
Ecco perché penso sia importante stupirsi. Emozionarsi è fantastico, speciale, meraviglioso. Ma lo stupore è l’attimo fuggente che cinge e allo stesso tempo elude.
Guardo fuori. La luce fatua del pomeriggio si attarda nella mia stanza. E’ ancora presto.
Presto. Già, presto.
Presto per deporre, come fiori sul marmo, la speranza in un mondo migliore.
Buon Natale? Forse sì. Forse.
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