Del tempo e di altre questioni meterologiche
Oggi, a pranzo, sentivo alcune persone lamentarsi del vento. Di fatto Roma è “ripulita” da un venticello fresco, che fa fare i capricci ai capelli e pizzica piacevolmente la pelle. E che magari entrando dalle finestre scompiglia – birichino – i fogli radunati sul tavolo del nostro studio. Dopo le torride giornate che squagliavano cemento e pensieri mi sembra un bel regalino, questa frescura in cui il caldo non si gonfia di umidità.
Eppure alcune persone si lamentavano del vento. Ingrate.
Poi ho pensato che, di fronte al tempo, siamo sempre pronti a lamentarci.
Fa caldo.
Fa freddo.
Non si respira, senti che afa!
Accidenti a questo vento.
Uffa, piove.
Non piove mai.
Guarda che tempo grigio.
Ma quand’è che arrivano un po’ di nuvole? Con tutto ‘sto sole…
Già. Non siamo mai soddisfatti del tempo. Vorremmo piegarlo ai nostri desideri, ai nostri bisogni.
E per quanto lui si dia da fare, siamo quasi sempre scontenti.
Ci attardiamo a osservare e giudicare il destino meteorologico delle giornate.
Loro, invece, le giornate, se ne fregano dei nostri commenti.
Le condizioni metereologiche, poi, sono sempre relative. Ciò che male a uno, fa bene all’altro.
Quando piove, per esempio, e corriamo affannati sotto gli ombrelli, incartandoci con le nostre auto nel traffico che all’improvviso si imbizzarrisce, le piante invece si sporgono tutte contente verso quell’acqua provvidenziale.
Pensando alla pioggia, ricordo quella volta in cui decisi di ignorare l’ombrello. Di fatto, a volte sembriamo un po’ isterici davanti a innocenti gocce d’acqua che tutt’al più ci infradiciano qualche vestito. Cominciamo a correre qua e là, impazziti, manco si trattasse dell’uragano Katrina.
Così quel giorno, dicevo, decisi di mollare a casa l’ombrello. E me la godetti tutta, l’acqua che scivolando mi attraversava i capelli impigliandosi in qualche riccio eccessivo, che bagnava i pensieri, inumidiva la pelle. Camminavo così, senza correre, in mezzo a gente frettolosa che galoppava a passo spedito verso la sua abitazione. Sembravo un po’ un’aliena, impegnata in questa buffa moviola prodotta dal mio camminare lento in mezzo a uno scalpiccio epilettico. Un tempo rallentato e un tempo accelerato, uno fatto di testa nuda, l’altro di ombrelli e cappelli, si affrontavano, quel pomeriggio, sul marciapiede.
“Neanche la pioggia ha così piccole mani”, recita una poesia di Tennessee Williams.
Bellissimo verso, mi è sempre piaciuto.
Quel giorno le mani della pioggia mi sfioravano decise e allo stesso tempo delicate.
Fu un momento davvero speciale.
Peccato, però, che lo pagai con un paio di giorni di febbre.
Così "mi imparo" a fare l’eroina dei temporali.
Il fatto è che non siamo più abituati, ci difendiamo in modo forse eccessivo dalla natura, accogliendo invece a braccia aperte quello che ci fa male. Come lo smog delle auto. Come i cellulari. Come il cemento che tutto invade.
Invece ce la prendiamo con il tempo. E con il governo ladro.
Ride, il tempo. Perché in fondo sa che altrove, non esiste neppure. Come noi.
Visioni
Se mai vi siete trovati nel punto migliore da cui avere una vista panoramica a trecentosessanta gradi, sapete che un posto del genere è necessariamente esposto agli elementi naturali. Di là potete vedere tutto, di là però sentirete anche ogni cosa nella maniera più vivida: il vento, il sole e la pioggia.
(Donna Fahri, Lo yoga nella vita)
Per gli strani percorsi compiuti a volte dalle associazioni mentali, leggendo questo brano ho pensato allo Zodiaco. O meglio, al tema natale di ogni persona.
Del resto, la mia vita “gollumiana” passa anche attraverso questo. L’amore per la letteratura contemporanea e il giornalismo, per le forme moderne, metropolitane, di romanzi e racconti…e la passione per il mondo degli antichi, per le loro scienze sacre degli orientamenti.
E’ da questa “seconda vita” che nasce la riflessione su questo brano.
Quando, affascinata dall’alchimia, ho inciampato nei simboli astrologici di cui è intessuta, mi sono innamorata di questo arcano, sapiente specchio dell’anima, oggi bistrattato dalla ridicolizzazione economico-commerciale proposta dai vari Branko e Fox, delinquenti a piede libero.
“L’astrologia è un’antica signora oggi ridotta al rango di prostituta”, scriveva André Breton.
Povera astrologia, svenduta per una manciata di euro, smantellata dei suoi contenuti più profondi, svuotata della sua profondità filosofica, geometrica e matematica…
Eppure è possibile, se la si studia in un certo modo, comprenderne ancora le valenze più nascoste, lontane dai palcoscenici idioti dei vari “Salve, fratellini della Vergine. Oggi vi attende un incontro magico. Attenti al capo in ufficio, però”. Pirlate a uso e consumo dell’ingnoranza.
Ecco, tornando all’astrologia, la riflessione della Fahri mi chiama in mente l’ampiezza dello Zodiaco, con i suoi 360 gradi e i dodici segni che, nel tema natale di ogni individuo, i pianeti in base al momento della sua nascita, ospitano la posizione dei vari pianeti.
Nel cielo natale di alcuni uomini questi pianeti si trovano tutti radunati in uno stellium, una configurazione particolare che li raggruppa. In quello di altri uomini, invece, i pianeti sono distribuiti all’interno del cerchio.
Dato che i pianeti simboleggiano “fuochi di attività”, qualità particolari – e archetipiche – che vivono in ognuno di noi, è chiaro che chi ha i pianeti distribuiti in modo circolare da un lato ha una visione completa delle cose e del mondo, dall’altra è messo in croce, vive cioè di conflitti e di opposizioni (nel cerchio del tema natale è inscritta, guarda caso, una croce con i quattro angoli del cielo).
Ora, non posso addentrarmi in discorsi troppo “tecnici”. Mi interessa solo osservare come la conoscenza, la consapevolezza, sia frutto di una tensione, di un dolore. In fondo è da un attrito che nasce ogni scintilla. Ed è da una sofferenza che si genera volentieri la spinta creativa. Come nel mondo della letteratura e della scrittura, che spesso viaggiano sul pungolìo di un dolore, su un tarlo che morsica l’anima.
Il tema natale parla per simboli, e quei simboli sono ottimi stimoli per penetrare le cose.
Di certo non smetto mai di meravigliarmi davanti a questa architettura particolare.
Davanti alla sua profondità filosofica, oggi ormai sconosciuta.
Il cielo natale, con la sua croce e il suo cerchio, raccontano di una disposizione interiore. E di come più un uomo è sottoposto a spinte e pressioni – simboleggiate dai pianeti distribuiti lungo gli assi della sua croce zodiacale – maggiore è il suo potenziale. E la sua visione panoramica dello Zodiaco-mondo.
Vedere “tutto” fa anche male, ci espone al vento e alla pioggia, come dice la Fahri.
Non ci troviamo su una radura ma siamo in collina, o magari addirittura in alta montagna, privi di protezioni.
Ognuno di noi ha la sua cuccia, la sua copertina di Linus, ognuno di noi cerca di ridurre le pressioni dei quattro angoli cardinali che rischiano di inchiodarlo (ma anche di liberarlo) perché più cose sentiamo, e conosciamo, più conflitti – certamente – vivremo.
Ma è il mondo degli opposti che dobbiamo attraversare. Una navigazione a vista, una navigazione fatta di contraddizioni e conflitti. Necessari, però, alla comprensione. Fa male, certo. Fa malissimo.
Ma quel panorama esteso che riusciamo a guardare, dal luogo in cui, esposti, subiamo anche la neve, la pioggia e il vento, è anche lo stesso che ci concede la magia dei tramonti, annuncio della notte con la sua danza di stelle. Lo stesso da cui guardiamo passare le nuvole, con le loro forme mutevoli che ci rammentano la magnifica – e terribile – provvisorietà della nostra esistenza.
IN PUNTA DI NEVE
Tu volesti morire interamente,
la carne e la grande anima. Tu volesti
entrare nell’altra ombra senza il lamento del pusillanime e del dolente.
Ti abbiamo visto morire con il sereno
coraggio di tuo padre davanti ai proiettili.
La rossa guerra non ti diede le sue ali,
la tarda parca andò tagliando il filo.
Ti abbiamo visto morire sorridente e cieco.
Nulla speravi di vedere dall’altro lato,
ma la tua ombra forse ha intravveduto
gli Archetipi che Platone il Greco
sognò e che mi spiegavi. Nessuno sa
di quale domani sia chiave la lapide.
(Borges, A mio padre)
Ho aperto un libro di Borges (lo faccio spesso, appena ho tempo) e ho ritrovato questa poesia.
Ci sono richiami e similitudini, in questa poesia. L’ho "sentita".
Poi, poi all’improvviso ho pensato a Karl Hunterkircher, l’alpinista ingoiato dalla montagna.
Mentre la gente sospende il fiato in attesa di leggere il destino dei suoi compagni di cordata che lassù, fra le altitudini di quella montagna, mescolano dolore e sopravvivenza, io penso invece ai suoi figli.
Non so se la gloria dell’avventura, su cui viaggia la fulgida luce che accompagna gli eroi di mille imprese, quelli che sfidano i venti, i monti e i cieli e i mari per spostare più in là ogni confine, non so se questa gloria sia capace di soffiare via la brezza del dolore che, malgrado le cuciture della memoria, sempre scorta ogni perdita prematura, ogni fresco strappo alla vita.
In fondo i bambini non vogliono eroi. Vogliono solo un papà.
Qualunque cosa faccia, quel papà è comunque un eroe. Il loro eroe.
Anche se non sfida gli estremi, anche se non gira il mondo da esploratore.
Se fa il postino, o il bidello, o l’impiegato in banca, è comunque un eroe. Il loro eroe.
E mi chiedo se non sia egoistico morire così, per una sfida.
Quando siamo soli possiamo godere di ogni libertà possibile. Ma una famiglia comporta compromessi e rinunce. Specie quando arrivano i figli.
Troppo spesso però noi grandi non modifichiamo nulla per loro. Continuiamo a fare ciò che ci piace, sprezzanti dei rischi a cui li esponiamo.
E loro, loro non fanno che attenderci, aspettare le nostre carezze e la nostra guida.
E se un giorno quelle carezze franano da una montagna, ingoiate per sempre sotto la neve e il ghiaccio, dovremmo anche riflettere.
Siamo stati tutti bambini. Poi, alcuni di noi sono diventati genitori (non io, per questione di scelte e di destini). Ma tutti ci ricordiamo dell’importanza di quella presenza, di quel padre e di quella madre che ci hanno formato, magari anche nella sofferenza e nell’incomprensione, ma ci hanno formato.
Quei bambini rischiano di rimanere senza forma. Senza impronta. Come la neve in cui è scomparso il padre.
L’avventura è bellissima solo se siamo noi a prenderne il peso. Quando altri pagano per le nostre pazze esplorazioni, per le insofferenze a un quotidiano magari banale, per il nostro vivere le sfide con la Natura, allora forse si sente la vibrazione di un’ingiustizia.
Severa, dura, non comprensiva. Forse. Chissenfrega.
Ma a me dispiace più per quegli orfani.
E per il poveraccio che oggi, mentre con tutta la prudenza del mondo attraversava la strada, è stato falciato da un’auto ubriaca.
L’erba del Signore è stupefacente
Succede a Roma. La Cassazione assolve il signore Giuseppe G., un quarantenne di Perugia a cui viene consentito il possesso di un etto di erba “ma solo per motivi religiosi”. L’episodio di cronaca è raccontato da Repubblica dell’11 luglio, a pagina 19.
Il signore in questione è un seguace di Ras Tafari, l’Imperatore che salì al trono d’Etiopia nel 1930 con il nome di Halie Selassie I. I suoi seguaci, fra cui Bob Marley, si considerano la tredicesima tribù d’Israele, seguono le leggi di Mosè, usano solo prodotti della terra e si astengono dall’uso di droghe ad eccezione della marijuana, considerata sacra.
Ecco la giustificazione della sentenza:
“Non sfugge infatti che, secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba “meditativa”, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico inteso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato il Re saggio e da esso ne tragga la forza, come si evince da notizie di testi che indicano le caratteristiche di detta religione”.
Evviva.
Ora, alcuni di noi, nei periodi fricchettoni della loro adolescenza, quando si diventa conformisti nella ribellione, si sono fatti le canne. E si sono sciroppati i postumi delle sessantottine espansioni della coscienza condite di letteratura e misticismo.
Io per esempio ero ebbra di quella letteratura “maledetta” che passava per “Le porte della percezione” di Aldous Huxley, “I paradisi artificiali” e altre opere di Baudelaire (“toi, mon semblable, mon frère”), le “déréglement des seins” di Rimbaud. E poi, poi ancora i viaggi fra gli stregoni di Carlos Castaneda, quelli on the road di Jack Kerouac…E la musica, le visioni dei Pink Floyd, dei Doors, quel cercare l’ebbrezza di una conoscenza “altra” che ricollegasse l’uomo alla sua essenza divina.
E sì, sì, ho fumato la famosa marijuana alla ricerca di un’espansione della coscienza. Dunque so di che si parla. E so quanto sia facile trovare agganci mistici per giustificare le nostre evasioni. Una mia amica, una sera, fissava le onde del mare dicendo che Dio le stava parlando. Ma le droghe non aiutano a trovare Dio. Non, perlomeno, se usate a casaccio, se estrapolate da determinati contesti sacri molto, molto particolari, come quelli degli antichi indiani d’America. In quei casi la droga è – meglio era – inserita in un rituale preciso, una condizione canape di creare speciali omologie Cielo Terra, aprendo un varco verso le stelle. Ma si tratta di eccezioni. Oggi poco rimane, di questo uso arcaico che in realtà ha creato molte mistificazioni ed equivoci.
L’uso di droghe è corrosivo, dunque certamente può aiutare ad aprire determinate porte ma ci vuole tanta, tanta cautela. E si finisce per scambiare il dito con la luna. Un po’ come nell’arcano dei Tarocchi chiamato – appunto – La Luna.
Del resto, perfino Don Juan, lo stregone di Castaneda, ammette che il ricorso ai magici funghi va fatto solo quando l’uomo da solo non riesce ad ascoltare la spiritualità che tutto pervade.
Infatti i padri esicasti, nel deserto, non si facevano nessuna canna. Né sgranocchiavano alcun funghetto.
E, come loro, mistici e santi di ogni latitudine e longitudine non si sono certo drogati per poter godere della visione di Dio.
Ma, ahimè, meditare costa fatica. Bisogna impegnarsi, litigare con quella birichina della mente che schiera subito in campo una moltitudine di pensieri, scendere in fondo a sé stessi pian piano, ascoltandosi nelle minuscole pause fra un rumore e l’altro.
Ingoiare una pillolina (pillola rossa o pillola blu?, domandano in Matrix) forse è la via più veloce…ma siamo sicuri che sia quella giusta?
Credere di cercare Dio per evadere dalle tristezze del quotidiano scomparendo nei fumi di un gigantesco cannone è una grande paraculata. Una fuga. Un disimpegno. Un affidarsi per l’ennesima volta a qualcosa di esterno a noi. Meglio, allora, accendersi uno spinello dicendosi la verità. Cioè che ne abbiamo voglia, che ci distende, ci rende un po’ brilli, un po’ fatti. Che solleva i veli dell’inibizione. E ci aiuta a socializzare. E a dormire.
Che poi qualcuno, da qualche parte del mondo, sia ancora in grado di fare un uso sapiente di queste sostanze è altra faccenda.
Spesso e volentieri ( non dico sempre, ma ribadisco: spesso e volentieri) la canna del rasta rimane una scusa, un falso condimento spirituale per una libertà che, invece, andrebbe cercata a fondo, nelle radici dell’essere, là dove nessuna sostanza stupefacente riesce ad arrivare.
Sentire Dio (o Buddha, o Maometto, o Intelligenza Universale, o come lo si voglia chiamare) non deve per forza ricorrere alle droghe. Le porte della percezione di cui parla Huxley possono essere abbattute raccogliendosi in meditazione.
Al di là di questo, rimane il fatto che trovo buffo che una società completamente desacralizzata, che riconosce volentieri la superiorità della Scienza, permetta l’uso “religioso” della marijuana. Non si crede più nel sacro, ma nella sacralità della droga.
Io lo trovo quantomeno buffo. E un tantino ridicolo.
PICCOLI E GRANDI COSMI
Qualche anno fa faticavo ad addormentarmi. Era un periodo denso di nervosismo e incertezza. Così presi l’abitudine di fare un piccolo gioco che mi ero inventata.
Stavo lì, nel mio letto (io dormo su un soppalco, cosa che fa somigliare il letto a un nido sospeso nel cielo, o a una cuccia), e invece di innervosirmi girandomi verso ogni punto cardinale, quasi come in un’antica incoronazione, mi fermavo e cominciavo, a occhi chiusi, a immaginare la stanza intorno a me. Poi immaginavo la casa, il palazzo, la strada, la città con le sue luci notturne…E proseguivo il viaggio. Immaginavo le città vicine, le campagne, i laghi e i fiumi, e poi ancora le regioni, l’Italia intera. E ancora altre terre, i continenti, gli oceani, i monti, i deserti. Man mano il mio corpo si rimpiccioliva perché aumentavo progressivamente lo spazio intorno a me. Si faceva piccino piccino, fino scomparire. Al suo posto il cielo, la Via Lattea fatta di stelle, i pianeti, la galassia, il silenzio siderale di altre galassie, fino alla curva dell’universo…
Ma a quel punto mi ero già addormentata.
Un giorno ho scoperto con mio grande stupore che ciò che chiamavo "la mia piccola invenzione" era in realtà una pratica usata – con qualche variante – nelle tecniche yoga (a quell’epoca non sapevo nulla, io, dello yoga).
Ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.
In fondo, a ben pensarci non ero stata poi così originale. Mi ero semplicemente esercitata nel ridimensionamento dell’Io. Questo Io che si crede così importante, potente, "grande". Questo Io che mi esalta e mi abbatte a suo piacimento. Un Io capriccioso, tiranno. Era la sua presunta importanza a non farmi dormire, era il rumore dei pensieri affollati sulla testa, arrampicati lì, insonni, pronti a rivendicare posizioni e turbamenti, a elencare cose da dire o da fare, a processare emozioni. Ma la testa, che quando pensa si crede un gigante, in realtà è solo una misera, ridicola monetina lanciata per aria. Testa croce, sì no, adesso dopo, bianco nero, gnam gnam gnam, un ruminare di pensieri spettinati.
Per fargli capire la sua finitezza, però, occorre farle ascoltare il respiro dell’universo. Bisogna diluirla, stemperarla, renderla consapevole di ciò che la circonda. Farla sentire un nulla senza importanza.
Ecco, ecco che la relatività di noi stessi ci regala sospensione e sollievo. Ci aiuta a scivolare nel sonno.
Tanto più piccoli diventiamo, maggior leggerezza acquistiamo. E in questa terra enorme, brulicante di vita e di milioni di storie importanti quanto la mia, in questa terra che guarda un cielo ancora più grande, labirintico enigma di ogni Inizio e ogni Fine, arcano di ogni stupore, meraviglia di remote creazioni, io mi sento restituita alla mia preziosissima nullità.
Non è nichilismo. No. E’ viaggio leggero, senza zavorra. E’ bocca di leone nel vento.
Troppo legati alla materia del nostro Io, ci crediamo "grandi", "importanti", "potenti". Ma non lo siamo. Non lo siamo.
Siamo solo creature nelle quali soffia dentro la vita. Per ora. Non sappiamo neanche per quanto. Eppure ci comportiamo come se fossimo per sempre. Per sempre. Per sempre. Ma se "del diman non v’è certezza", perché non molliamo invece ogni arroccamento?
Rimpicciolire quel birichino dell’Io, sempre occupato a mettersi addosso qualche lustrino, ad appiccicarsi qualche abito di scena nuovo e pronto per l’occasione, diventa un piccolo esercizio di pazienza. L’immaginazione apre porte e finestre, ci fa sconfinare mostrandoci l’immenso che si trova fuori di noi, esattamente oltre il confine della nostra pelle (ed esattamente anche all’interno di quello stesso confine).
Riduce le chincaglierie dell’Io.
E di notte, a volte ancora arriva a volte vantando la sua importanza, dandosi arie da primadonna. Questo piccolo esercizio viene in mio soccorso. Lo fa ancora oggi, quando ne ho bisogno.
E’ un esercizio davvero benefico.
Sssst. Buona notte.
ALCHIMIE
Ho spostato un granello di sabbia
e ho modificato il Sahara
(Jorge Luis Borges)
Mi ha sempre colpito, questo verso di una poesia di Borges (uno dei miei scrittori preferiti. Lo amo di un amore folle, ardente, sospeso nel tempo).
La sabbia ci affascina per la sua mobilità, per il suo insinuarsi nei pertugi dello spazio e del tempo. Basta pensare alla clessidra, simbolo della scansione temporale ma anche del suo abbattimento nel luogo in cui cessa ogni passaggio. Il suo continuo capovolgimento è metafora delle polarità a cui soggiaciamo nel mondo del divenire. Avanti, indietro, su e giù, nero e bianco, giorno e notte…
Non a caso Borges, raffinato filosofo sedotto dalle vertigini metafisiche delle tradizioni antiche, pone la clessidra fra i suoi simboli preferiti, vicino al coltello, al labirinto, allo specchio, alla tigre…
Non ha forma, la sabbia. E allo stesso tempo è tutte le forme. Così fragile nella nostra mano, pronta a scorrere via come un sogno al mattino presto, diventa maestosa quando forma i deserti.
Eppure rimane sempre sfuggente, mutevole come mutevole è questo mondo, malgrado i nostri tentativi di fissarlo, trattenerlo, catalogarlo, incorniciarlo.
Il deserto e la sabbia fuggono dalle nostre pretese. Si rincorrono, liberi, per giocare a rimpiattino con le orme. Si divertono a cambiare in continuazione, spostando i confini. E noi, abituati al cemento delle città, quello stesso cemento che assurdamente ci imbroglia alimentando la nostra onnipotenza, rimaniamo perplessi davanti a quella danza di forme.
Non ci sono mai stata, io, nel deserto. Eppure la mia mente ha errato in quei luoghi, li ha cercati negli spazi dell’immaginazione, li ha tessuti di fantasie e di ricordi prestati da altri.
Come quelli di mio zio. Lui a cinquant’anni si è messo a studiare l’arabo. Perché – dice- non puoi mai capire veramente un paese se non ne conosci la lingua.
Ha ragione, nella lingua vibra l’anima delle cose. E così lui, innamorato del deserto fin dal suo primo viaggio, si è immerso nella cultura araba penetrando i misteri di quel linguaggio onirico, simbolico, denso di evocazioni e richiami.
E ha girato in lungo e in largo ogni deserto. Due anni fa la sua compagna di una vita è morta di cancro. Due anime affini, di quell’affinità così rara che sembra esista solo nei libri.
E lui, lui per sopravvivere ha cercato il deserto, lo ha cercato con la disperazione di un’assenza cocente, ne ha percorso i giorni e le notti avanzando fino alla fine del mondo, là dove ogni sabbia si fa marea.
Ma niente gite turistiche. Lui scompare per due, tre settimane. Parte insieme a una guida, e attraversa i deserti con un cammello.
A mia madre racconta delle notti speciali passate nelle tende dei beduini. Notti fatte di cibo e di chiacchiere intorno al fuoco, avvolti da un manto di stelle.
Le stelle. Mio zio dice che nessuna notte è così bella e potente come quelle su cui si affaccia il deserto. Senza l’artificio delle luci cittadine, il cielo mostra allora ogni stella, e ogni stella racconta un arcano.
E allora ti senti nudo, nudo davanti a un’immensità. E’ solo un brivido, un sussulto silenzioso, diverso dalle emozioni urlate di questa nostra società sguaiata, caciarona, disordinata. Lì, nel deserto, si vive di silenzi e di notte stellate. Si avanza bruciati dal sole, lasciando orme pronte a sparire senza lasciare traccia. Un passaggio lieve, dunque. Umile.
Non vivrebbe mai più senza deserti, mio zio.
Lo capisco.
E’ un’avventura dell’anima. Quando torna ne conserva la memoria nel cuore fino al giorno in cui il deserto non lo chiama di nuovo.
Sono sicura che laggiù, perso nelle montagne di sabbia, in quei silenzi di vento incrocia ancora la voce di mia zia. E’ lì che ritrova la ragione di quell’assenza. E di ogni presenza.
Alchimie del deserto.
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