IN PUNTA DI NEVE
Tu volesti morire interamente,
la carne e la grande anima. Tu volesti
entrare nell’altra ombra senza il lamento del pusillanime e del dolente.
Ti abbiamo visto morire con il sereno
coraggio di tuo padre davanti ai proiettili.
La rossa guerra non ti diede le sue ali,
la tarda parca andò tagliando il filo.
Ti abbiamo visto morire sorridente e cieco.
Nulla speravi di vedere dall’altro lato,
ma la tua ombra forse ha intravveduto
gli Archetipi che Platone il Greco
sognò e che mi spiegavi. Nessuno sa
di quale domani sia chiave la lapide.
(Borges, A mio padre)
Ho aperto un libro di Borges (lo faccio spesso, appena ho tempo) e ho ritrovato questa poesia.
Ci sono richiami e similitudini, in questa poesia. L’ho "sentita".
Poi, poi all’improvviso ho pensato a Karl Hunterkircher, l’alpinista ingoiato dalla montagna.
Mentre la gente sospende il fiato in attesa di leggere il destino dei suoi compagni di cordata che lassù, fra le altitudini di quella montagna, mescolano dolore e sopravvivenza, io penso invece ai suoi figli.
Non so se la gloria dell’avventura, su cui viaggia la fulgida luce che accompagna gli eroi di mille imprese, quelli che sfidano i venti, i monti e i cieli e i mari per spostare più in là ogni confine, non so se questa gloria sia capace di soffiare via la brezza del dolore che, malgrado le cuciture della memoria, sempre scorta ogni perdita prematura, ogni fresco strappo alla vita.
In fondo i bambini non vogliono eroi. Vogliono solo un papà.
Qualunque cosa faccia, quel papà è comunque un eroe. Il loro eroe.
Anche se non sfida gli estremi, anche se non gira il mondo da esploratore.
Se fa il postino, o il bidello, o l’impiegato in banca, è comunque un eroe. Il loro eroe.
E mi chiedo se non sia egoistico morire così, per una sfida.
Quando siamo soli possiamo godere di ogni libertà possibile. Ma una famiglia comporta compromessi e rinunce. Specie quando arrivano i figli.
Troppo spesso però noi grandi non modifichiamo nulla per loro. Continuiamo a fare ciò che ci piace, sprezzanti dei rischi a cui li esponiamo.
E loro, loro non fanno che attenderci, aspettare le nostre carezze e la nostra guida.
E se un giorno quelle carezze franano da una montagna, ingoiate per sempre sotto la neve e il ghiaccio, dovremmo anche riflettere.
Siamo stati tutti bambini. Poi, alcuni di noi sono diventati genitori (non io, per questione di scelte e di destini). Ma tutti ci ricordiamo dell’importanza di quella presenza, di quel padre e di quella madre che ci hanno formato, magari anche nella sofferenza e nell’incomprensione, ma ci hanno formato.
Quei bambini rischiano di rimanere senza forma. Senza impronta. Come la neve in cui è scomparso il padre.
L’avventura è bellissima solo se siamo noi a prenderne il peso. Quando altri pagano per le nostre pazze esplorazioni, per le insofferenze a un quotidiano magari banale, per il nostro vivere le sfide con la Natura, allora forse si sente la vibrazione di un’ingiustizia.
Severa, dura, non comprensiva. Forse. Chissenfrega.
Ma a me dispiace più per quegli orfani.
E per il poveraccio che oggi, mentre con tutta la prudenza del mondo attraversava la strada, è stato falciato da un’auto ubriaca.
L’erba del Signore è stupefacente
Succede a Roma. La Cassazione assolve il signore Giuseppe G., un quarantenne di Perugia a cui viene consentito il possesso di un etto di erba “ma solo per motivi religiosi”. L’episodio di cronaca è raccontato da Repubblica dell’11 luglio, a pagina 19.
Il signore in questione è un seguace di Ras Tafari, l’Imperatore che salì al trono d’Etiopia nel 1930 con il nome di Halie Selassie I. I suoi seguaci, fra cui Bob Marley, si considerano la tredicesima tribù d’Israele, seguono le leggi di Mosè, usano solo prodotti della terra e si astengono dall’uso di droghe ad eccezione della marijuana, considerata sacra.
Ecco la giustificazione della sentenza:
“Non sfugge infatti che, secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba “meditativa”, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico inteso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato il Re saggio e da esso ne tragga la forza, come si evince da notizie di testi che indicano le caratteristiche di detta religione”.
Evviva.
Ora, alcuni di noi, nei periodi fricchettoni della loro adolescenza, quando si diventa conformisti nella ribellione, si sono fatti le canne. E si sono sciroppati i postumi delle sessantottine espansioni della coscienza condite di letteratura e misticismo.
Io per esempio ero ebbra di quella letteratura “maledetta” che passava per “Le porte della percezione” di Aldous Huxley, “I paradisi artificiali” e altre opere di Baudelaire (“toi, mon semblable, mon frère”), le “déréglement des seins” di Rimbaud. E poi, poi ancora i viaggi fra gli stregoni di Carlos Castaneda, quelli on the road di Jack Kerouac…E la musica, le visioni dei Pink Floyd, dei Doors, quel cercare l’ebbrezza di una conoscenza “altra” che ricollegasse l’uomo alla sua essenza divina.
E sì, sì, ho fumato la famosa marijuana alla ricerca di un’espansione della coscienza. Dunque so di che si parla. E so quanto sia facile trovare agganci mistici per giustificare le nostre evasioni. Una mia amica, una sera, fissava le onde del mare dicendo che Dio le stava parlando. Ma le droghe non aiutano a trovare Dio. Non, perlomeno, se usate a casaccio, se estrapolate da determinati contesti sacri molto, molto particolari, come quelli degli antichi indiani d’America. In quei casi la droga è – meglio era – inserita in un rituale preciso, una condizione canape di creare speciali omologie Cielo Terra, aprendo un varco verso le stelle. Ma si tratta di eccezioni. Oggi poco rimane, di questo uso arcaico che in realtà ha creato molte mistificazioni ed equivoci.
L’uso di droghe è corrosivo, dunque certamente può aiutare ad aprire determinate porte ma ci vuole tanta, tanta cautela. E si finisce per scambiare il dito con la luna. Un po’ come nell’arcano dei Tarocchi chiamato – appunto – La Luna.
Del resto, perfino Don Juan, lo stregone di Castaneda, ammette che il ricorso ai magici funghi va fatto solo quando l’uomo da solo non riesce ad ascoltare la spiritualità che tutto pervade.
Infatti i padri esicasti, nel deserto, non si facevano nessuna canna. Né sgranocchiavano alcun funghetto.
E, come loro, mistici e santi di ogni latitudine e longitudine non si sono certo drogati per poter godere della visione di Dio.
Ma, ahimè, meditare costa fatica. Bisogna impegnarsi, litigare con quella birichina della mente che schiera subito in campo una moltitudine di pensieri, scendere in fondo a sé stessi pian piano, ascoltandosi nelle minuscole pause fra un rumore e l’altro.
Ingoiare una pillolina (pillola rossa o pillola blu?, domandano in Matrix) forse è la via più veloce…ma siamo sicuri che sia quella giusta?
Credere di cercare Dio per evadere dalle tristezze del quotidiano scomparendo nei fumi di un gigantesco cannone è una grande paraculata. Una fuga. Un disimpegno. Un affidarsi per l’ennesima volta a qualcosa di esterno a noi. Meglio, allora, accendersi uno spinello dicendosi la verità. Cioè che ne abbiamo voglia, che ci distende, ci rende un po’ brilli, un po’ fatti. Che solleva i veli dell’inibizione. E ci aiuta a socializzare. E a dormire.
Che poi qualcuno, da qualche parte del mondo, sia ancora in grado di fare un uso sapiente di queste sostanze è altra faccenda.
Spesso e volentieri ( non dico sempre, ma ribadisco: spesso e volentieri) la canna del rasta rimane una scusa, un falso condimento spirituale per una libertà che, invece, andrebbe cercata a fondo, nelle radici dell’essere, là dove nessuna sostanza stupefacente riesce ad arrivare.
Sentire Dio (o Buddha, o Maometto, o Intelligenza Universale, o come lo si voglia chiamare) non deve per forza ricorrere alle droghe. Le porte della percezione di cui parla Huxley possono essere abbattute raccogliendosi in meditazione.
Al di là di questo, rimane il fatto che trovo buffo che una società completamente desacralizzata, che riconosce volentieri la superiorità della Scienza, permetta l’uso “religioso” della marijuana. Non si crede più nel sacro, ma nella sacralità della droga.
Io lo trovo quantomeno buffo. E un tantino ridicolo.
PICCOLI E GRANDI COSMI
Qualche anno fa faticavo ad addormentarmi. Era un periodo denso di nervosismo e incertezza. Così presi l’abitudine di fare un piccolo gioco che mi ero inventata.
Stavo lì, nel mio letto (io dormo su un soppalco, cosa che fa somigliare il letto a un nido sospeso nel cielo, o a una cuccia), e invece di innervosirmi girandomi verso ogni punto cardinale, quasi come in un’antica incoronazione, mi fermavo e cominciavo, a occhi chiusi, a immaginare la stanza intorno a me. Poi immaginavo la casa, il palazzo, la strada, la città con le sue luci notturne…E proseguivo il viaggio. Immaginavo le città vicine, le campagne, i laghi e i fiumi, e poi ancora le regioni, l’Italia intera. E ancora altre terre, i continenti, gli oceani, i monti, i deserti. Man mano il mio corpo si rimpiccioliva perché aumentavo progressivamente lo spazio intorno a me. Si faceva piccino piccino, fino scomparire. Al suo posto il cielo, la Via Lattea fatta di stelle, i pianeti, la galassia, il silenzio siderale di altre galassie, fino alla curva dell’universo…
Ma a quel punto mi ero già addormentata.
Un giorno ho scoperto con mio grande stupore che ciò che chiamavo "la mia piccola invenzione" era in realtà una pratica usata – con qualche variante – nelle tecniche yoga (a quell’epoca non sapevo nulla, io, dello yoga).
Ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.
In fondo, a ben pensarci non ero stata poi così originale. Mi ero semplicemente esercitata nel ridimensionamento dell’Io. Questo Io che si crede così importante, potente, "grande". Questo Io che mi esalta e mi abbatte a suo piacimento. Un Io capriccioso, tiranno. Era la sua presunta importanza a non farmi dormire, era il rumore dei pensieri affollati sulla testa, arrampicati lì, insonni, pronti a rivendicare posizioni e turbamenti, a elencare cose da dire o da fare, a processare emozioni. Ma la testa, che quando pensa si crede un gigante, in realtà è solo una misera, ridicola monetina lanciata per aria. Testa croce, sì no, adesso dopo, bianco nero, gnam gnam gnam, un ruminare di pensieri spettinati.
Per fargli capire la sua finitezza, però, occorre farle ascoltare il respiro dell’universo. Bisogna diluirla, stemperarla, renderla consapevole di ciò che la circonda. Farla sentire un nulla senza importanza.
Ecco, ecco che la relatività di noi stessi ci regala sospensione e sollievo. Ci aiuta a scivolare nel sonno.
Tanto più piccoli diventiamo, maggior leggerezza acquistiamo. E in questa terra enorme, brulicante di vita e di milioni di storie importanti quanto la mia, in questa terra che guarda un cielo ancora più grande, labirintico enigma di ogni Inizio e ogni Fine, arcano di ogni stupore, meraviglia di remote creazioni, io mi sento restituita alla mia preziosissima nullità.
Non è nichilismo. No. E’ viaggio leggero, senza zavorra. E’ bocca di leone nel vento.
Troppo legati alla materia del nostro Io, ci crediamo "grandi", "importanti", "potenti". Ma non lo siamo. Non lo siamo.
Siamo solo creature nelle quali soffia dentro la vita. Per ora. Non sappiamo neanche per quanto. Eppure ci comportiamo come se fossimo per sempre. Per sempre. Per sempre. Ma se "del diman non v’è certezza", perché non molliamo invece ogni arroccamento?
Rimpicciolire quel birichino dell’Io, sempre occupato a mettersi addosso qualche lustrino, ad appiccicarsi qualche abito di scena nuovo e pronto per l’occasione, diventa un piccolo esercizio di pazienza. L’immaginazione apre porte e finestre, ci fa sconfinare mostrandoci l’immenso che si trova fuori di noi, esattamente oltre il confine della nostra pelle (ed esattamente anche all’interno di quello stesso confine).
Riduce le chincaglierie dell’Io.
E di notte, a volte ancora arriva a volte vantando la sua importanza, dandosi arie da primadonna. Questo piccolo esercizio viene in mio soccorso. Lo fa ancora oggi, quando ne ho bisogno.
E’ un esercizio davvero benefico.
Sssst. Buona notte.
ALCHIMIE
Ho spostato un granello di sabbia
e ho modificato il Sahara
(Jorge Luis Borges)
Mi ha sempre colpito, questo verso di una poesia di Borges (uno dei miei scrittori preferiti. Lo amo di un amore folle, ardente, sospeso nel tempo).
La sabbia ci affascina per la sua mobilità, per il suo insinuarsi nei pertugi dello spazio e del tempo. Basta pensare alla clessidra, simbolo della scansione temporale ma anche del suo abbattimento nel luogo in cui cessa ogni passaggio. Il suo continuo capovolgimento è metafora delle polarità a cui soggiaciamo nel mondo del divenire. Avanti, indietro, su e giù, nero e bianco, giorno e notte…
Non a caso Borges, raffinato filosofo sedotto dalle vertigini metafisiche delle tradizioni antiche, pone la clessidra fra i suoi simboli preferiti, vicino al coltello, al labirinto, allo specchio, alla tigre…
Non ha forma, la sabbia. E allo stesso tempo è tutte le forme. Così fragile nella nostra mano, pronta a scorrere via come un sogno al mattino presto, diventa maestosa quando forma i deserti.
Eppure rimane sempre sfuggente, mutevole come mutevole è questo mondo, malgrado i nostri tentativi di fissarlo, trattenerlo, catalogarlo, incorniciarlo.
Il deserto e la sabbia fuggono dalle nostre pretese. Si rincorrono, liberi, per giocare a rimpiattino con le orme. Si divertono a cambiare in continuazione, spostando i confini. E noi, abituati al cemento delle città, quello stesso cemento che assurdamente ci imbroglia alimentando la nostra onnipotenza, rimaniamo perplessi davanti a quella danza di forme.
Non ci sono mai stata, io, nel deserto. Eppure la mia mente ha errato in quei luoghi, li ha cercati negli spazi dell’immaginazione, li ha tessuti di fantasie e di ricordi prestati da altri.
Come quelli di mio zio. Lui a cinquant’anni si è messo a studiare l’arabo. Perché – dice- non puoi mai capire veramente un paese se non ne conosci la lingua.
Ha ragione, nella lingua vibra l’anima delle cose. E così lui, innamorato del deserto fin dal suo primo viaggio, si è immerso nella cultura araba penetrando i misteri di quel linguaggio onirico, simbolico, denso di evocazioni e richiami.
E ha girato in lungo e in largo ogni deserto. Due anni fa la sua compagna di una vita è morta di cancro. Due anime affini, di quell’affinità così rara che sembra esista solo nei libri.
E lui, lui per sopravvivere ha cercato il deserto, lo ha cercato con la disperazione di un’assenza cocente, ne ha percorso i giorni e le notti avanzando fino alla fine del mondo, là dove ogni sabbia si fa marea.
Ma niente gite turistiche. Lui scompare per due, tre settimane. Parte insieme a una guida, e attraversa i deserti con un cammello.
A mia madre racconta delle notti speciali passate nelle tende dei beduini. Notti fatte di cibo e di chiacchiere intorno al fuoco, avvolti da un manto di stelle.
Le stelle. Mio zio dice che nessuna notte è così bella e potente come quelle su cui si affaccia il deserto. Senza l’artificio delle luci cittadine, il cielo mostra allora ogni stella, e ogni stella racconta un arcano.
E allora ti senti nudo, nudo davanti a un’immensità. E’ solo un brivido, un sussulto silenzioso, diverso dalle emozioni urlate di questa nostra società sguaiata, caciarona, disordinata. Lì, nel deserto, si vive di silenzi e di notte stellate. Si avanza bruciati dal sole, lasciando orme pronte a sparire senza lasciare traccia. Un passaggio lieve, dunque. Umile.
Non vivrebbe mai più senza deserti, mio zio.
Lo capisco.
E’ un’avventura dell’anima. Quando torna ne conserva la memoria nel cuore fino al giorno in cui il deserto non lo chiama di nuovo.
Sono sicura che laggiù, perso nelle montagne di sabbia, in quei silenzi di vento incrocia ancora la voce di mia zia. E’ lì che ritrova la ragione di quell’assenza. E di ogni presenza.
Alchimie del deserto.
MALEDUCAZIONE STRADALE
In queste giornate umide, accaldate, ti accorgi di come le città siano impossibili.
Le strade diventano ricettacoli di nevrosi appiccicose che ti restano addosso fino alla sera, fino a quando l’acqua della doccia non lava via ogni tensione.
E ti domandi perché l’uomo si crede un”eletto” rispetto alle altre forme della creazione. In realtà, a volte sembra davvero uno scarto dell’evoluzione.
L’altro giorno tentavo di attraversare la strada sulle famose, civilissime strisce. Che però non servono a nulla. Stanno lì, questi decori urbani, queste pitture zebrate, a ricordarci la loro magnifica inutilità.
Quando ti vedono, le macchine accelerano mentre il guidatore, con aria da ebete, fa finta di guardare altrove (è noto: mentre si guida si guarda sempre di lato, mai davanti a sé, per contare i numeri civici delle abitazioni…).
Così lui evade dalle tue grida, scansando i tuoi pugnetti chiusi agitati al vento, ridicola forma di rimprovero verso il gigante metallico che ha generosamente risparmiato la vita alla formichina.
Poi magari prendi il motorino, e ti trasformi anche tu in un orribile mostro che a sua volta gareggerà con i pedoni per la conquista della strada.
Ricordo che vent’anni fa, quando vivevo in California, a San Diego, rimanevo stupita davanti alla cortesia delle auto che si fermavano, diligenti, non appena qualcuno accennava ad attraversare la strada. Del resto l’America è un paese strano, pieno di contraddizioni. La cortesia delle auto convive con la crudeltà degli ospedali in cui sei obbligato a pagarti la vita, altrimenti nulla da fare, senza assicurazione si muore.
Tornando alle strade, appena rientrata in Italia provai ad applicare la magica formula: “Prego-io-auto-lei-pedone-passi-pure” ma…niente da fare. A rendere ancora più grottesca la situazione, ecco che il pedone di turno manifestava evidenti segni di imbarazzo e irritazione, non sapendo come comportarsi davanti alla macchina sconsiderata che si fermava. Iniziava così la danza dell’”un due tre, un due tre, un passo avanti due indietro” in cui auto e pedone si misuravano, incerti, bloccando l’intero scorrimento del traffico.
Sono dunque tornata alla mia italianissima (e non solo) maleducazione, dimenticando le buone maniere della città di San Diego.
Nelle grandi città vivere come pedoni è sicuramente una prova di grande coraggio. Un’ arte della sopravvivenza.
Nelle grandi città, d’estate, si vive, in realtà, “come d’autunno sugli alberi le foglie”, zigzagando nel traffico fra gente ubriaca di caldo, isterica ancora prima dello spuntar del sole, quando l’ultima stella si spegne.
E l’isteria collettiva non fa certo bene. Io alla macchina preferisco il motorino, più agile, più facile da parcheggiare, che però non risparmia il delirio delle trasferte su ruote.
Quando guidiamo, chissà perché, emergono gli istinti peggiori. Viene fuori la bestia che è in noi, quella che, in ufficio davanti ai colleghi oppure a casa, in compagnia della moglie, teniamo – da bravi – al guinzaglio.
Liberata, sulla strada la bestia fa danni. Fa sempre danni.
Ecco che allora siamo pronti a sfanculare il vicino, gareggiamo come idioti per la conquista del primo posto davanti al semaforo (manco fosse un concerto di qualche star), urliamo e aggrediamo e spintoniamo chiunque.
Non mancano poi le scene tipo. Come quella del tizio in auto che si piazza in mezzo alla strada per attraversare, e che ti attende con la faccia da tontolone, la bocca aperta a "o" manco avesse visto un fantasma, obbligandoti ad inchiodare per non investirlo. E tu, pieno di livore, sei costretto a cedere il passo.
Altra scena caratteristica: la strombazzata di clacson a un nanosecondo dallo scatto del semaforo verde. Terribile. Devi partire subito, sincronizzato, altrimenti le macchine dietro di te cominciano a strillare e a fare casino.
E questo ti porta dritto dritto verso un’altra scena grottesca dal sapore classico, quella che riguarda il coro da stadio di clacson quando qualcosa o qualcuno blocca il traffico.
Ho sempre pensato che chi suona in questo contesto è il padre dei pirla di tutto il mondo. Ma che c’è da suonare? Mica le auto si spostano per la caciara…Vedere queste code nevrasteniche che suonano al vuoto crea uno smottamento nella mia pazienza. A chi suoni? All’auto rotta in mezzo alla strada? Guarda che non si sposta neanche se chiami a raccolta tutti i santi del paradiso! E non pensi mai che se qualcuno o qualcosa ostruisce il traffico…basta aspettare? Che anche quel qualcuno o qualcosa si rompe di tutto quel rumore e che dunque è obbligato – in quel momento – a stare lì, impotente davanti alla riunione di clacson e di improperi lanciati da te e da tutti i tuoi colleghi automobilisti? Non pensi che sta cercando il modo di ripartire, e che forse – dico forse – è successo qualcosa? Pirla!
Perbacco, che tristezza osservare queste quotidiane demenze.
Specie d’estate, specie quando il sole rovente squaglia anche i pensieri. Ed ecco che allora il peggio del peggio, a piede libero, dà il meglio di sé.
Ogni mattina, quando indosso il casco, penso alla sua somiglianza con un elmetto. Già. Perché la strada è una guerra. Una guerra continua. Fine pena mai.
NOI SOLTANTO
Se non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così, come? E se non ora, quando?
(Primo Levi)
Ogni volta che ho incrociato questi versi ho pensato al loro respiro gigante, universale.
E non solo per le tematiche a cui si riferiscono.
Ho pensato alla loro possibile estensione, al loro allungarsi sulla vita, sull’alba e sul tramonto di ogni destino, al loro catturare scintillii e rimandi.
Nessuno può essere per noi. Nessuno.
Anche se lo vorremmo, specie quando non ci piacciamo, quando le nostre azioni misurano il limite, quando lambiscono le nostre paure portandosi via pezzi di sicurezza.
In fondo, una parte di noi vorrebbe sempre che qualcun altro "fosse" e "facesse" al posto nostro, soprattutto nei nostri errori e nelle nostre incertezze.
Ci crediamo perfino, a volte.
Invece siamo solo noi. Nostro il peso delle conseguenze, nostra la responsabilità, nostre le gioie e i dolori.
Certo, a volte tendiamo a sgusciare via come anguille affidando ad altri il nostro destino salvo poi vedercelo riconsegnato in mano, e con gli interessi.
Perchè davvero, davvero non è possibile che qualcun altro sia per noi. Non possono esserlo padri, madri, sorelle, fidanzati, amici, colleghi, maestri…
E magari giriamo disperati, sempre alla ricerca di qualcuno che viva e che operi per noi. E ci sembra di trovarlo, questo qualcuno, ci sembra che possa sollevarci dal peso di essere.
Se siamo fortunati l’illusione crollerà in breve tempo. E’ comunque destinata a crollare, un giorno o l’altro.
Più avremo procrastinato l’appuntamento con la riconsegna del nostro destino, maggiori difficoltà avremo nel guidare nuovamente la nostra esistenza, conducendola fuori dai porti facili ma ingannevoli per affrontare il mare aperto, ignoto e pericoloso dell’essere.
In quel mare navighiamo incerti, fragili, appesi alle nostre speranze che inseguiamo come aquiloni nel vento.
Nessuno può navigare per noi.
E nessuno può farlo ieri. Nè può farlo domani.
Solo noi, solo adesso.
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