Succede a Roma. La Cassazione assolve il signore Giuseppe G., un quarantenne di Perugia a cui viene consentito il possesso di un etto di erba “ma solo per motivi religiosi”. L’episodio di cronaca è raccontato da Repubblica dell’11 luglio, a pagina 19.
Il signore in questione è un seguace di Ras Tafari, l’Imperatore che salì al trono d’Etiopia nel 1930 con il nome di Halie Selassie I. I suoi seguaci, fra cui Bob Marley, si considerano la tredicesima tribù d’Israele, seguono le leggi di Mosè, usano solo prodotti della terra e si astengono dall’uso di droghe ad eccezione della marijuana, considerata sacra.
Ecco la giustificazione della sentenza:
“Non sfugge infatti che, secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba “meditativa”, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico inteso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato il Re saggio e da esso ne tragga la forza, come si evince da notizie di testi che indicano le caratteristiche di detta religione”.
Evviva.
Ora, alcuni di noi, nei periodi fricchettoni della loro adolescenza, quando si diventa conformisti nella ribellione, si sono fatti le canne. E si sono sciroppati i postumi delle sessantottine espansioni della coscienza condite di letteratura e misticismo.
Io per esempio ero ebbra di quella letteratura “maledetta” che passava per “Le porte della percezione” di Aldous Huxley, “I paradisi artificiali” e altre opere di Baudelaire (“toi, mon semblable, mon frère”), le “déréglement des seins” di Rimbaud. E poi, poi ancora i viaggi fra gli stregoni di Carlos Castaneda, quelli on the road di Jack Kerouac…E la musica, le visioni dei Pink Floyd, dei Doors, quel cercare l’ebbrezza di una conoscenza “altra” che ricollegasse l’uomo alla sua essenza divina.
E sì, sì, ho fumato la famosa marijuana alla ricerca di un’espansione della coscienza. Dunque so di che si parla. E so quanto sia facile trovare agganci mistici per giustificare le nostre evasioni. Una mia amica, una sera, fissava le onde del mare dicendo che Dio le stava parlando. Ma le droghe non aiutano a trovare Dio. Non, perlomeno, se usate a casaccio, se estrapolate da determinati contesti sacri molto, molto particolari, come quelli degli antichi indiani d’America. In quei casi la droga è – meglio era – inserita in un rituale preciso, una condizione canape di creare speciali omologie Cielo Terra, aprendo un varco verso le stelle. Ma si tratta di eccezioni. Oggi poco rimane, di questo uso arcaico che in realtà ha creato molte mistificazioni ed equivoci.
L’uso di droghe è corrosivo, dunque certamente può aiutare ad aprire determinate porte ma ci vuole tanta, tanta cautela. E si finisce per scambiare il dito con la luna. Un po’ come nell’arcano dei Tarocchi chiamato – appunto – La Luna.
Del resto, perfino Don Juan, lo stregone di Castaneda, ammette che il ricorso ai magici funghi va fatto solo quando l’uomo da solo non riesce ad ascoltare la spiritualità che tutto pervade.
Infatti i padri esicasti, nel deserto, non si facevano nessuna canna. Né sgranocchiavano alcun funghetto.
E, come loro, mistici e santi di ogni latitudine e longitudine non si sono certo drogati per poter godere della visione di Dio.
Ma, ahimè, meditare costa fatica. Bisogna impegnarsi, litigare con quella birichina della mente che schiera subito in campo una moltitudine di pensieri, scendere in fondo a sé stessi pian piano, ascoltandosi nelle minuscole pause fra un rumore e l’altro.
Ingoiare una pillolina (pillola rossa o pillola blu?, domandano in Matrix) forse è la via più veloce…ma siamo sicuri che sia quella giusta?
Credere di cercare Dio per evadere dalle tristezze del quotidiano scomparendo nei fumi di un gigantesco cannone è una grande paraculata. Una fuga. Un disimpegno. Un affidarsi per l’ennesima volta a qualcosa di esterno a noi. Meglio, allora, accendersi uno spinello dicendosi la verità. Cioè che ne abbiamo voglia, che ci distende, ci rende un po’ brilli, un po’ fatti. Che solleva i veli dell’inibizione. E ci aiuta a socializzare. E a dormire.
Che poi qualcuno, da qualche parte del mondo, sia ancora in grado di fare un uso sapiente di queste sostanze è altra faccenda.
Spesso e volentieri ( non dico sempre, ma ribadisco: spesso e volentieri) la canna del rasta rimane una scusa, un falso condimento spirituale per una libertà che, invece, andrebbe cercata a fondo, nelle radici dell’essere, là dove nessuna sostanza stupefacente riesce ad arrivare.
Sentire Dio (o Buddha, o Maometto, o Intelligenza Universale, o come lo si voglia chiamare) non deve per forza ricorrere alle droghe. Le porte della percezione di cui parla Huxley possono essere abbattute raccogliendosi in meditazione.
Al di là di questo, rimane il fatto che trovo buffo che una società completamente desacralizzata, che riconosce volentieri la superiorità della Scienza, permetta l’uso “religioso” della marijuana. Non si crede più nel sacro, ma nella sacralità della droga.
Io lo trovo quantomeno buffo. E un tantino ridicolo.