Alba
Sempre, all’alba, speriamo in un mondo nuovo. Una mia amica mi raccontava di come, all’alba, avesse luogo sulla spiaggia il raduno dei sogni, tutti lì a guardare il mare, aspettando di esistere.
Mi sembra un’immagine molto bella. La porto con me.
Io preferisco la luna e i suoi arcani stupori. Ma l’aurora ha il suo mistero e qui al mare, d’estate, il sole si alza sull’acqua dopo il suo viaggio notturno, dopo aver rincorso la luna e forse dormito altrove con lei, nello spazio dei miti e dei sogni.
E regala all’acqua un colore bellissimo. Un azzurro trasparente che sembra contenere tutti i luoghi del mondo, come in una palla magica, come nell’Aleph borgesiano.
Se i sogni davvero si radunano all’alba, sulla spiaggia, aspettando di esistere, allora è in quell’attimo che si apre il confine magico tra ogni mondo.
Stupori
Rebus di limiti illimitati, l’infanzia. Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le magiche parole, compilate a rilento nel libro delle fiabe). Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre i quali doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda. Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l’acqua nascosta. Era la fin du parc.
(Cristina Campo, Gli imperdonabili).
Lettura travolgente, questa. Cristina Campo ti seduce, ti fa girare la testa con la sua tensione verso l’estremo dell’universo, ti copre di stelle cadenti che, come la polverina magica di Peter Pan, alleggeriscono il peso di ogni metallo. E all’improvviso ti ritrovi nei magici regni della fiaba e dello spirito, incantata dalla danza delle metafore che suonano i loro campanellini d’argento. Tintinna anche la testa, al loro suono si apre il varco della percezione profonda, quella che viaggia sopra e sotto ogni emozione, tappeto volante tessuto di ricami arcani.
La fiaba insegna. “Il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino”.
Ritrovare quei giardini in cui, liberi dalla nostra consueta prigionia, danziamo la danza del derviscio significa tornare nei meravigliosi, aurei regni infantili, quando ognuno di noi aveva la sua fiaba speciale, il suo archetipo particolare che sempre tornava a sussurrare al cuore.
“Racconta, nonna, Raccontami ancora quella storia”.
E così la donna anziana, la saggia che nelle mani e nella bocca teneva la misura del tempo senza tempo, misteriosa conservatrice dei segreti di ogni àugure, trasferiva le indicazioni verso i sentieri di conoscenza che un giorno, da adulti, avremmo cercato ancora.
Oggi purtroppo questa sapienza e questi segreti sono destinati al declino. L’antico cantastorie non trova più spazio nel regno della materia, della linea retta, della ragione priva di cuore.
L’esile filo di Arianna che ci collega alle stelle, e del quale la fiaba è un segno e un richiamo, resiste agli urti ma diventa fragile, evanescente, cadaverico, esposto a una luce lunare non più magica ma ingannevole, come mostra la carta dei Tarocchi.
Quando eravamo bambini davanti alle fiabe avevamo occhioni ardenti, e bocche dischiuse come un bocciolo a primavera. Avidi, ascoltavamo quelle letture così particolari in cui gli eroi si perdevano, compivano percorsi circolari incontrando travagli di ogni tipo per poi tornare a casa, una casa dalla quale l’anima non si era mai allontanata, inviando l’Io alla ricerca della sua origine.
Tempo meraviglioso, tempo di dame, di draghi, di eroi e cavalieri.
Il libro della Campo mi riporta, con una vertigine, a quell’alba dorata, mistero e origine di ogni fiaba.
La tristezza si inclina senza speranza, va giù, scivola verso il basso pensando ai bambini di oggi,esposti al rapimento di quei mondi fatati legati a un filo di Arianna sempre più occulto.
Senza il recupero di quello stupore non conosceremo mai il nostro regno interiore.
E mentre guardo mio nipote negli occhi penso che oggi gli parlerò ancora delle fate (lui le adora, ne sente il richiamo sottile e penetrante) e di come, in silenziosi boschi lontani, se l’uomo tace, il vento racconta.
Il suo sguardo mi guida con mano sicura verso i segreti della mia infanzia. Luoghi che ho solo dimenticato, come tutti. Ma che tuttavia, tuttavia stanno sempre lì, pazienti. Pronti a ricordarci i nostri stupori.
Riti d’ascensore
C’è una cosa che accomuna gli ascensori di tutto il mondo: il dialogo e la gestualità condivisa dagli sventurati che percorrono insieme il breve tragitto fra un piano e un altro. In quel piccolo lasso di tempo un demiurgo ruota un intero, piccolo universo scandito dai suoi riti. Abitanti di questo mondo particolare, due o più persone.
Le situazioni sono sempre omologate, sempre uguali a loro stesse nelle due varianti fondamentali: l’incontro con il vicino di casa e l’incontro con lo sconosciuto.
Nel primo caso, le cose si svolgono più o meno così:
Salve
Visto che tempo eh?
Fa caldo…
Uuuuh, che pioggia
Ehm ehm (schiarimento di voce)
Come sta la mamma?
E lo zio, i nonni?
Sorrisini, ammiccamenti, gesti di cortesia nell’aprire la porta per primi.
Nel caso dell’incontro con uno sconosciuto, di solito:
…………..
Ehm ehm (schiarimento di voce)
Eeeehhhh (sospiro)
Il silenzio – coperto solo da qualche timida, solita nota sul tempo (l’argomento più dibattuto in ascensore) o piccoli sospiri (come a dire: eh, che fatica vivere…) mentre i due uomini impegnati duramente in quei pochi, impervi minuti guardano in alto oppure si fissano con attenzione la punta delle scarpe (mai stata così interessante, prima).
I più audaci sfoggiano un sorriso Durbans. Altri guardano l’ora fingendo di essere immersi in chissà quali filosofici pensieri, smarriti nelle loro elucubrazioni esistenziali.
Spesso, però, i silenzi e i vuoti rivelano sommi imbarazzi.
A volte, se si è fortunati, arriva il provvidenziale soccorso di un elemento salvifico. Un cane, per esempio. Che capta l’attenzione di tutti convogliando verso di lui ogni tipo di chiacchiera. Una sorta di delizioso, peloso, ombrellino parafulmine, catarsi di ogni silenzioso imbarazzo. Ecco allora, improvvisa, la resurrezione della parola. L’attacco di logorrea.
Che carino!
Come si chiama?
Anche mia nipotina ha un cagnolino che…
Il logos risvegliato ha vita breve ma intensa, in questo caso.
In assenza di cani, è il bambino ad assumere la funzione salvifica. E’ lui ad animare i presenti con le sue faccine buffe a cui seguono le solite domandine di rito, stupide ma utilissime nel coprire il tratto che va dal pianoterra al quarto piano.
Ciaooooo, che carinoooo.
Come ti chiamiiii?
Pissipissi ciuciu…
Quanti anni haiiiiii?
I bambini, comunque, devono pensare che gli adulti sono dei deficienti. Chissà perché quando si rivolgono a loro si rincretiniscono, fanno la bocca a culo di gallina e cominciano a dare di matto agitandosi e parlando con quella vocetta scema scema. E loro, con pazienza, fanno finta di apprezzare queste performance mentre, in realtà, pensano a come recuperare questi sciroccati di adulti colti da attacchi di demenza precoce.
Cani e bambini, dunque, alleggeriscono il difficile percorso “ascensoriale”.
Quanto agli adulti, agli “umani”, non riescono proprio a reggere il silenzio e neppure a trovare scorciatoie per una intelligente conversazione bonsai, scandita dalla sintesi offerta da una manciata di minuti, perfino secondi.
E così, quando ci si trova vicini vicini, ad attendere l’ascensore, si sorride all’altro mentre in realtà si pensa “Che palle”.
E’ proprio vero: che palle.
Potere del mare
Stamani mi sono svegliata qui, a Senigallia, nella mia casetta vicino al mare. E ho pensato che, malgrado anni vissuti in città, quel profumo particolare non si dimentica. Te lo porti addosso, come una memoria cucita nel cuore.
Ti manca, in città, davanti a quelle sentinelle d’acciaio e cemento.
L’assenza del mare è assenza di Acqua, di sale, di orizzonti smarriti nei pastelli dei cieli.
"Gente di mare", si dice. Ha un senso.
Non è forse poi così diversa dagli altri, la "gente di mare".
Ha solo l’abitudine delle notti che pizzicano sulla pelle, dei pescatori di telline che salutano l’alba nei loro stivaloni di mare, delle serate appesi su uno scoglio ad ascoltare il racconto di un’onda.
Conosce i moti selvaggi del mare, conosce i suoi scuotimenti quando si arrabbia e prende tutto, risucchia cose e persone ostinandosi a non restituirle se non dopo tempo, quando la foga di Nettuno, placata, permetterà alle acque di specchiare nuovamente i riflessi del giorno.
Il mare mi vuole bene. Sa che anche se me ne sono andata in città non lo dimentico. Mi è compagno, amico, fratello. Segue le orme dei miei respiri per ricordarmi, nella tristezza, il continuo andare e venire delle sue onde, che arrivano e scompaiono, come le cose della vita.
Il mare mi accarezza anche d’inverno, nei colori freddi della metropoli. Mi insegue con la memoria di un bisbiglio, di un’impronta nella sabbia sussurrata dal vento.
Ogni anno torno qui. Metto i piedini nell’acqua, inseguo il profilo dell’orizzonte. E mi ritrovo.
I nomi della rosa
L’amore fa paura. Perché enormemente sopravvalutato come soluzione alla solitudine, perché implica mettersi in gioco, perché si pensa che si potrebbe soffrire troppo se l’altro ci lasciasse (spesso le immagini che vi si associano sono di tessuti lacerati e sanguinanti). Paura è il nome che diamo alle nostre incertezze, alla nostra sicurezza che proiettiamo sull’altro, che facciamo diventare un nemico pericoloso. Allora sogniamo amori idealizzati e perfetti, fuori dal reale; oppure scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
(Umberta Telfener)
Di tutti gli amori conosciuti, solo alcuni sopravvivono consegnandoci il sigillo di un mutamento irrevocabile, una trasformazione indelebile malgrado la danza dei mutamenti li abbia poi allontanati fisicamente.
Sono gli amori “veri”, quelli che ci fanno capire quante balle spesso ci raccontiamo quando diciamo, o crediamo, di amare.
Questi amori spesso sono così potenti da essere fragili, precari, esposti alle tempeste quotidiane di eventi fatali che sembrano accanirsi contro il profumo speciale di quel prato fiorito.
Vivono sul brivido di un soffio, sulla carezza rubata all’alba, sul colore vermiglio di un tramonto che estingue il sole invitando alla contemplazione notturna.
E sono disperati. Della disperazione attonita, lacerata, incapace di compimento. Struggono l’anima, come canta Jacques Brél nel suo bellissimo Ne me quitte pas, ascoltatelo qui>> con i suoi versi intrisi di una poesia dolente che si fa scavo, lama, coltello.
Sono amori che non muoiono mai, anche se “formalmente” archiviati, seppelliti, messi in un angoletto a favore di altre destinazioni.
Chi ha vissuto questo tipo di amore ne conosce l’odore che appartiene a un luogo lontano, iperuranio, sospeso nelle curve degli universi. E allora capita a volte che altre carezze che vorremmo fare per rassicurare chi ci sta accanto si arrestano sulla superficie, rotolando giù solitarie, confuse, consapevoli di una soglia che non possono superare. Hanno anche loro un profumo, ma non ha la stessa qualità. Fortunato è chi l’ha conosciuta, questa qualità, anche solo per brevi momenti.
Questi amori speciali sono specchi, compimenti del cuore e dell’anima. E sono rari, rarissimi. Accade quando due persone combaciano, quando ogni interstizio penetra in quello dell’altro, quando gli occhi aprono porte in cui brilla l’eternità di un momento.
Purtroppo la profondità di una bellezza che procede a doppio passo di danza a volte comporta instabilità, smottamento, perdita di tranquillità fisica e mentale. Del resto, ogni gioiello interiore si raggiunge pagando un prezzo. A volte, se è troppo alto, si fugge, si migra. Ma non si dimentica.
Questo è l’amore che sazia l’anima, che le offre le ali anche se poi, come Icaro, si può cadere per sempre. Senza rialzarsi più.
Poi ci sono gli amori “ordinari”, quelli che non nascono dalla magia del complemento, dall’arcana specularità in cui rimandi e fusioni permettono l’attraversamento dell’altro e di sé.
Ma a modo loro sono belli anche questi. Scaldano, permettono soste o accelerano dissensi, invitano comunque alla scoperta della diversità. Ci insegnano a misurarci. Importanti, anche loro. Ma di una qualità differente. Certamente più vivibili nell’estensione ordinaria del tempo.
E poi, invece, quanti calessi scambiati per amori. Una moltitudine.
Ognuno di noi è pronto a fare di un rapporto il castello di Camelot, trasformando il suo amante nel Graal.
Paure, desideri, bisogni, proiezioni.
Amori idealizzati, perfetti, mai scalfibili (perché scalfirli significherebbe aprire gli occhi sull’imperfezione di questi amori, sul loro far parte delle cose del mondo, appunto imperfette). Icone sacre su cui installiamo la nostra religione amorosa, la liturgia della coppia, recitata ogni giorno con santa devozione. Amen.
Ma se siamo fortunati, allora un giorno uno tsunami ci colpirà facendoci aprire quegli occhietti strizzati che non vogliono vedere la verità delle cose, li sbarrerà fissando le palpebre con due stecchini finché non lacrimeranno, costretti alle forme reali, quelle che restano dopo la fuga di ogni immaginazione, di ogni consistenza proiettata e dunque effimera nella sua natura.
Ma c’è un’altra via di fuga dal contatto reale, profondo, con l’amore: “ scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
Idea magnifica, eccelsa. Strategia sublime e, temo, molto diffusa. Le nebbie emotive che sembrano catturarci nella nostra Avalon sentimentale in realtà sono gioco, inganno, finzione che permette di vivere la passione senza bruciarsi. Ma non c’è nessun fuoco che non brucia, qui sulla terra. Il “Fuoco che non brucia”, l’unico capace di farlo, appartiene alla verticalità degli spazi spirituali.
Dunque far finta di giocare agli amanti appassionati senza bruciarsi, senza mettere in gioco se stessi, funziona pure fino a un certo punto, fino a quando si sente il desiderio di uscire – anche solo per un istante – dai confini della propria pelle per un fugace incontro con l’altro. Ma lì, in quel crinale che separa due mondi, lì si deve perdere l’autonomia, abbandonando la magnifica corazza che blinda ogni nostro poro e che, invisibilmente, mette muri e distanze nel momento dell’inabissamento nell’altro, nel momento di un incontro reale che è per forza annullamento di sé e di ogni autonomia. Fa paura. Ma è l’unico modo per conoscere davvero qualcosa dell’altro. E di noi.
Ci sono coppie felicemente cementate da abitudini condivise, da sodalizi sereni, da giochi delle parti in cui ognuno assolve alla sua funzione nei confronti dell’altro e del mondo. Coppie abilitate a resistere al mondo facendosi forza a vicenda. Ma l’amore come conoscenza profonda di sé è forse un’altra cosa. Di amori ne esistono tanti. La qualità del rapporto tra due individui poggia su una vasta gamma di opzioni, tutte più o meno piacevoli e tutte comunque importanti, anche se in misura diversa, funzionali nel traghettarci alla scoperta di noi.
Il rapporto fra un uomo e una donna è qualcosa di misterioso, ineffabile. Perfino nelle sue varianti più superficiali, carnali. Perché è l’incastro che del due torna a fare l’Uno.
Quell’Uno che per la paura ti fa fare la cacca addosso nei pantaloni, se lo sperimenti non nella sua idea, nella sua elaborazione mentale ma nella sua esperienza vitale, vibrante, priva di appigli intellettuali.
Sconfinare nell’altro è il sogno di tutti. Riuscirci, privilegio di pochi.
Ma è solo continuando a cercare – attraverso ogni forma, ogni rapporto, ogni amore – che avanziamo nella conoscenza profonda di noi.
Perché, come diceva Jung, nulla ci tira fuori chi siamo realmente come l’amore. Nulla fa emergere ogni ombra inconscia come l’amore.
Perché ci tira giù le brache delle nostre difese, perché fa affiorrare le nostre ombre e le visite dei nostri fantasmi, perché chiama a raccolta il bambino che tutti siamo stati. Quel bambino che magari non ci piace e che scansiamo abilmente alla luce del giorno.
Com’è facile avere una buona immagine di noi stessi quando svolgiamo bene i nostri mestieri. Quando facciamo un lavoro che ci piace, ci gratifica, ci fa sentire sicuri e “bravi”, stimati e applauditi dagli altri, la nostra autostima attraversa mari e montagne. Lì siamo lucidi, lì viene fuori il meglio del nostro essere (così pensiamo) perché quel confine strano, così sottile e rarefatto, quella pelle che ci divide dal mondo in realtà non è mai nuda, mai esposta al brivido che scuote i nostri abissi interiori.
Siamo più “mentali”, organizzati, capaci di decidere dinamiche e strategie.
Il nostro Io professionale è un bel personaggio, ben piantato a terra; non rischia di essere stregato dalle notti lunari e dai giorni solari di un amore “vero” che porta con sé anche le eclissi. I personaggi che abitiamo hanno maschere coi fiocchi, tutte personalità forti, tutte immagini vincenti, luminose.
Ma è solo dall’incontro con i vortici delle emozioni, con l’irrazionalità dei sentimenti, con la precarietà di una relazione fatta di scoperte e confronti (e se siamo molto molto fortunati, con quell’amore vero, autentico, speculare) è solo – dicevo – da questo incontro (nelle sue varianti di gradi differenti che però tutte spingono a una maggior conoscenza di sé) che emerge la natura profonda, spirituale, delle nostre radici. Che deve però passare attraverso le forze ctonie, conoscerne la potenza. E’ lì, in questo incontro d’amore che siamo scossi, che i personaggi abilitati ad agire felicemente per noi crollano tutti come birilli, rivelando le nostre follie, le nostre contraddizioni, i nostri infantili capricci e le nostre fobie.
Forse è per questo che oggi schiere di uomini e donne di successo quando, la sera, si tolgono cravatte e tacchi a spilli insieme alle loro certezze avvertono un buco allo stomaco, un pungolio che è “fame” di quel qualcosa che toglierebbe loro tante sicurezze in cambio di un po’ di verità.
All’uomo si ricopre di strati con cui affrontare una vita fatta necessariamente di ipocrisie e compromessi solo un’incontro d’amore reale regala la possibilità di smettere qualche strato per cercare l’essenza. Che è sempre piccina e allo stesso tempo grandissima, immensa. Fragile e potente. Vulnerabile e forte.
Palpita dentro e sotto la pelle. Aspetta, trepidante, di essere ri-conosciuta.
Chiesa da spiaggia
Terribilis est locus iste: hic domus Dei est, et porta caeli.
"Tutti al mare, tutti al mare a mostrare le chiappe chiareee", cantava una celebre canzone.
Oggi, al mare, con le chiappe chiare o scure, non si va solo a fare i vitelloni da spiaggia, a sdraiarsi per catturare il sole incremandosi fino al lobo delle orecchie oppure a tuffarsi in acqua, fra una mucillagine e un’invasione di meduse.
Oggi in spiaggia si va pure in chiesa. Succede a Cagliari, dove viene allestita, appunto, una chiesa gonfiabile. La notizia appare su Repubblica.
Purtroppo l’orribile esperimento è solo il primo di una lunga serie, che minaccia un’invasione di proporzioni – manco a dirlo apposta – bibliche: non sarà usata solo in Sardegna: dopo Cagliari, Campomarino di Tremoli, Bibione, Ravenna. E poi ancora altrove.
L’idea è di Don Andrea Brugnoli, parroco attistiva che da anni cerca di evangelizzare i giovani allestendo luoghi di conversione fuori dalle discoteche, dagli autogrill, dagli stadi.
La movida "divina", dunque, si contrappone a quella profana.
Non c’è nulla di male nel voler portare la parola di Dio ai giovani. Ma esiste un problema…di modi.
E la Chiesa gonfiabile a mio avviso è un modo sbagliato.
"Lunga trenta metri, larga quindici, colori nero e fucsia che non ricordano certo le cattedrali romaniche. È completa di altare, abside, confessionali. Cinque compressori, in cinque minuti, permetteranno di "costruire" una chiesa che nei secoli passati richiedeva decenni, se non secoli, di lavoro".
Addio arcani orientamenti all’interno di spazi concepiti da antiche sapienze, addio meravigliosi elementi essenziali delle chiese romaniche, addio verticali stupori del gotico…
"A maggior gloria di Dio", si costruiva un tempo. Un tempo in cui ogni colore, ogni geometria, ogni architettura nasceva dall’omologia Cielo-Terra in cui la Chiesa – nave su cui i fedeli viaggiavano in direzione della volta celeste – incarnava la rappresentazione del sacro, con cui scambiava alchemiche corrispondenze.
E oggi?
Ma davvero un pezzo di gomma può sostuire il marmo, quel marmo "parlante" da cui il genio di Michelangelo estraeva le sue opere più belle? Il marmo, come l’oro, come ogni altro elemento, è simbolo e segno dell’universo fatto di magiche corrispondenze di cui parlavo poc’anzi.
Un gioco di analogie, specchi e richiami che nelle antiche Chiese orientava il fedele in cerca di Dio.
Già nei tempi moderni le antiche sapienze che riguardavano la costruzione delle chiese si sono perse, si sono sfilacciate a favore di altri modelli. Ma la chiesa gonfiabile rappresenta davvero una tentazione "luciferina", un’oscenità a uso e consumo di preti moderni che si credono dei ficaccioni.
Del resto viviamo in un mondo che ha perso il senso del contatto con la sacralità.
Eppure ci vuol tanto a capire come una chiesa gonfiabile rappresenti un insulto, tanto per il laico quanto per il credente?
Nella mia vita ho attraversato molte fasi, sono stata anarchica, agnostica, gnostica, poi soltanto dubbiosa, e poi, ancora, vicina alle filosofie orientali per poi un giorno inciampare nelle ricchezze della nostra antica tradizione, quella protocristiana.
Io non sono una di quelle che vanno a Messa, lo dico subito. Non sono… cattolica, apostolica e romana. Ma tento di essere cristiana (a me più che il Cristo delle chiese interessa il Cristo interiore, quella fiamma vivente avventura e scommessa di ogni cuore). Dunque in Chiesa non vado, dicevo. Si tratta di un mio personale problema con le umane organizzazioni delle religioni (un po’ anarchica sono rimasta, confesso…). Ma studio le antiche tradizioni e nel tempo ho imparato ad apprezzare alcune straordinarie valenze del cattolicesimo, anche se affrontate più dal punto di vista ermetico-alchemico. Ma insomma, andremmo lontano, troppo lontano.
Rimando comunque a un testo a me molto caro: Ritmi e riti.
Voglio dire, non sono comunque una di quei fedeli fedelissimi pronta a gridare allo scandalo perchè la sua madre chiesa viene traslocata su un pezzo di gomma in mezzo a una spiaggia.
Dico però che quando ho bisogno di un particolare raccoglimento interiore, cerco sempre due posti: o una spiaggia o un bosco isolato, oppure una chiesa. Ma una chiesa antica, una chiesa costruita secondo la scienza sacra degli orientamenti.
Ecco allora che lì, in queste chiese, se si fa un poco di silenzio nel frastuono mentale è possibile fare un respiro più grande. E’ possibile annusare il profumo del sacro, di quel luogo dentro e fuori di noi che la chiesa, come uno specchio, riflette. Lei invita, suggerisce. Devi essere tu, poi, a danzare.
Ricordo ancora gli occhioni sgranati davanti agli angeli di Santa Prassede, a Roma, oppure il calore dell’abbraccio invisibile di Santa Sabina, in un giorno funestato da personali tormenti.
Ecco, in questi luoghi ogni disegno, ogni colore, ogni dettaglio "raccontano" un sacro talmente potente da ammutolire perfino il laico viandante. L’ho visto con i miei occhi.
Dunque come è possibile accettare l’idea di una Chiesa gonfiabile?
Magari lo diciamo all’Ikea, che ci propone magari i modelli Ekklesia 24 in cento pezzi montabili, con laccatura in legno da scegliere?
Io non ci sto. La chiesa è comunque uno spazio sacro. Anche un non credente ne riconosce potenza e bellezza, da sempre. Basta guardare le file indiane di turisti col naso all’insù che nelle nostre grandi città click click fotografano rapiti chiese e monumenti.
Tra l’altro, anche il senso estetico, se vogliamo, può essere considerato "sacro". La Bellezza è un diritto di tutti, e abbiamo il dovere di preservarla.
Chiesa gonfiabile? Roba da condono edilizio…
C’è un’idea che mi turba alquanto, ed è quella del proselitismo a tutti costi (mi ha sempre turbato, ieri come oggi). Perché bisogna andare dai bagnanti o dai ragazzini in discoteca con una chiesa di plastica? Se hanno voglia di sacro, saranno loro a spostarsi, magari vestendosi in modo più adeguato. Sarò tacciata di bieco tradizionalismo, ma chissenfrega. Io parlo di senso del pudore, un senso bellissimo, oggi strozzato dai culetti e dalle tettone di veline e starlette televisive. Non crediamo in Dio? Perbacco, benissimo. Ma almeno nel valore estetico di una costruzione vogliamo pure crederci, o no? E nel pudore, ci crediamo? In quel pudore che ci risparmia di vedere una vecchia carampana aggirarsi in città con un tanga marittimo che scompare negli oceani di grasso mentre lei, cetaceo urbano, avanza seminuda deturpando il paesaggio.
Il pudore, la bellezza, il senso estetico non hanno religione. Non hanno "colore".
Sono un patrimonio di tutti. Perché allora darci alle chiese gonfiabili? Mostruose dal punto di vista "architettonico" oltre che abominio spirituale.
Se le mettessimo all’AcquaFan di Riccione sapremmo davvero riconoscere la chiesa dalle gozzoviglie volanti, da quegli insiemi di plastiche scivolose su cui zompare dentro e fuori dall’acqua?
Io non ci sto. Non le voglio. Al mare devo già sciropparmi l’avanzata di personal trainers che aizzano signore ululanti infilate in tute anti-traspirazione che pedalano come forsennate per ore sotto il BOOM BOOOM!! delle casse che rimbombano musica, insieme ai gruppi acquatici che cantano e ballano dietro l’istruttore di turno e i mercatini per signore che affollano il litorale…
Dobbiamo infilarci proprio anche la chiesa gonfiabile, in questo "troiaio" estivo?
La smania tutta moderna di arrivare dal "cliente", la fissazione del porta a porta, delle chiavi in mano, della pronta consegna investe anche il sacro. Che senso ha?
Insomma, se uno a un certo punto ha una folgorazione mistica si infila un paio di pantaloni e se ne va in cerca di una chiesa. Giuro che ce ne sono tante in giro, tutte facilmente raggiungibili.
Un tempo, l’uomo che cercava Dio…lo cercava davvero. Nel senso che era lui ad andare, lui a camminare, lui a cercare e trovare, come testimoniano anche i pellegrinaggi di tutti i tempi. In ogni antico percorso inziatico era previsto un viaggio, un percorso, appunto, un itinerario in cui l’anima man mano si avvicinava e faceva scoperte.
Ma non è più il tempo della Cerca, non è il tempo della coppa del Graal. Semmai è il tempo della coppetta di Tiramisu, preso al bar con gli amici, a un tiro di schioppo dall’ombrellone.
Ed è il tempo delle chiese gonfiabili.
Che poi, di fatto, a me fanno venire in mente un altro…oggetto gonfiabile.
A dire il vero, tutt’altro che sacro.
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