POST DI FERRAGOSTO
Detesto il giorno di Ferragosto. Come tutte le feste comandate.
Questa, tuttavia, è davvero peggiore di altre per l’impatto devastante sui neuroni delle persone, sottoposte a friggiture, a temperature così bollenti da trasformare radicalmente…la materia.
Il mare diventa can can, circo, teatrino, arena per tarantolati.
Le feste sulla spiaggia con tanto di musica a volumi cosmici, sangrie da rovesciarsi addosso, gavettoni da tirare a nonne e bambini, bagnini ferrosi che inseguono ragazzini ubriachi che sfasciano sedie e ombrelloni…No, non fa per me.
Il divertimento è una cosa sana e bella, dipende però dal modo in cui viene usato. Spesso, negli usi moderni, la musica diventa anestetico, strumento per narcotizzare tensioni e movimenti dell’intelligenza, oppio corale in cui i popoli si addormentano pensando invece di essere vivi.
E’ sempre stato così. Lo sapevano bene i romani: panem et circensis.
Tuttavia oggi c’è come un’accelerazione in questa direzione, un urto maggiore, frenetico, come un’ansia di mordere la vita dimenandosi per dimenticare che del diman non v’è certezza, oggi più che ieri.
Ieri sera il mare era coperto di frastuoni, di dj urlanti, di ragazzini fatti che si aggiravano con gli occhi sbarrati e il sorrisone ebete allargato sulla faccia. E poi signore che dimeticavano la pancia e cominciavano a saltare su e giù alle grida del dj di turno. Le guardavo, pensavo a questi allegri cetacei spiaggiati e felici di aver perso l’orientamento.
Una semplice passeggiata dopo cena, ieri sera, apriva squarci sui festeggiamenti che divampavano al mare come in centro (ma soprattutto al mare, direi) incendiando le folle.
Mi sono sentita un po’ un’aliena. Pazienza.
Ho pensato a quel nugolo di persone urlanti, soffocato dai rumori BOM BOM BOOOM delle casse che spezzavano l’incanto del suono di onde che vanno e sempre ritornano, inseguite dal vento.
Sul cielo la luna era una magnifica palla d’avorio sospesa magicamente sui sentieri di stelle. E aveva un patto speciale con il mare di cui era riflesso, estensione celeste. Ma nessuno guardava lassù. Guardavano tutti dritti, davanti alla punta del naso, agitando epiletticamente braccia e piedi al suono della musica pop degli anni ottanta. Ma si era arrivati perfino al Gioca Jouer di Claudio Cecchetto, qualcuno ricorderà la demenziale esperienza, quella in cui il dj urla: Capelli! e tutti come cretini si tirano le ciocche. Saluto! e tutti lì a fare ciao ciao con le manine (mancavano solo le caprette di heidi, quelle che dai monti ti fanno, anche loro, ciaoo), Autostop! e tutti lì col ditino alzato a zompare, Spray! ecco che la folla diventa un branco di gorilla intento a spulciarsi le ascelle, Camminare! e olè, eccoli lì a fare la marcetta fermi sul posto, con le ragazzine che sculettano per aumentare l’intensità dell’esperienza…
Mamma mia. Alla fine, un trenino ha allacciato tutto il raduno portandoselo in giro qua e là…
No, non mi piace Ferragosto. Non mi piacciono le feste urlate e sudate.
Mi chiedevo, ieri, passeggiando, quanto in fondo temiamo di essere vivi per aver bisogno a volte di conferme così radicali, estreme. "Siamo vivi e stiamo morendo, siamo morti e stiamo vivendo", scriveva saggiamente Pessoa per infilare un dubbio nel tripudio del panem et circensis.
Di nuovo, prima di dormire, ho guardato la luna. Lei sì, mi fa sentire viva davvero. Nei silenzi marini in cui la notte allarga le sue braccia di stelle, nel brivido di un istante, nel guizzo fatale di una pausa tra un moto e un altro il senso di "vita" si colora di percezioni profonde. Piccole, immobili, silenziose, lontane dalla caciara e dai "Saltate!" di radio Arancia network. Ma molto, molto potenti.
Oggi è finalmente il giorno di Ferragosto, finalmente perchè domani non ci sarà più fino al prossimo anno.
Ormai è giorno inoltrato, il sole aggredisce la cittadina e la spiaggia.
A me piace il giorno, d’estate, solo al mattino presto e alla sera, quando i raggi si fanno carezza, saluto e abbandono.
PRONTO GANDHI
Di nuovo compare lo spot Telecom (>>potete vederlo qui) che schiera Gandhi involontario testimonial. Si può anche andare sul sito: www.avoicomunicare.it
Io dico: bah. Come nel 2004, quando uscì l’acclamatissimo spot. Bah.
Le innegabili suggestioni dello spot con il suo ritmo, la musica evocativa, le inquadrature magnifiche che ci mostrano un Gandhi commosso e commovente non bastano a ingraziarmi, a farmi piacere l’operazione di marketing.
Già, perchè i pubblicitari hanno ben capito che non va più di moda la fuffa anni 90, quella della Milano da bere, delle modelle coca e anoressia, dei modelli sociali costruiti sugli status symbol di un benessere che man mano ha mostrato le crepe, di un lusso che scotta come una patata bollente in un mondo che recede.
Ecco allora la geniale virata ispirata da modelli alti, filosofici, ispirati ai valori. Più in sintonia con i disagi crescenti degli utenti. Fioccano le filosofie zen traslocate nel ghiotto mondo dei manager che all’improvviso capiscono che unire mito e marketing, filosofia e comunicazione, spiritualità e vocazione imprenditoriale significa colorare di "buono" il successo, profumandolo di nobilità.
E infatti arrivano centinaia di manuali che abbinano yoga e attività commerciale, meditazione e resistenza allo stress, benessere interiore e benessere economico, avventura filofica e gita metropolitana negli affari.
Non li ho mai retti, io, questi "manager zen". Questione di gusti.
Comunque, la pubblicità fa suoi questi modelli. Ora la filosofia è trendy, le vette spirituali si uniscono ai cocktail serali, lo yoga indica l’arte del commercio…
Dunque spuntano le pubblicità "etiche", quelle legate alle grandi questioni filosofico-etico-spirituali del nostro paese. La Fiat ci fa tirare fuori i fazzoletti con uno spot legato ai significati storici e morali dell’essere uomini, addensando italiche suggestioni e nuovi cinemi paradiso, l’Enel si lancia in metafore "elettriche" sull’energia interiore dell’uomo, quella dei geni creativi in cui si accende la lampadina di Archimede, salvo poi presentare la salatissima bolletta dell’energia…ehm…esteriore e domestica. Il Mulino Bianco si comporta come vivessimo ancora i tempi del baratto, e si circonda di gnomi notturni e bambini celestiali.
E Gandhi arriva alla Telecom. Un testimonial eccellente, intendiamoci. Ma che ne avrebbe detto, lui? La globalizzazione auspicata da Gandhi non era certo quella delle telecomunicazioni. One world, dice lui nello spot mentre la frase, a ribadire il concetto, compare anche in un testo a sinistra dello schermo, a caratteri maiuscoli (molto usato, nella pubblicità emozionale, il ricorso a scritte visive che rafforzano e fissano i concetti espressi oralmente). One world. Ma siamo sicuri che il povero Gandhi intendesse riferirsi ai vari Tutto intorno a te della Vodafon, ai Bla Bla Blasi della Tim e ai vari Tu, senza confini e Connecting people?
Gandhi parlava di un mondo unito dalla coscienza del cuore. "Che mondo sarebbe, oggi, se avesse potuto parlare così"? recita furbacchiotto lo spot del 2004 per commuovere e incantare gli utenti.
Balle. Esattamente lo stesso mondo, sarebbe stato. Anche prima di Telecom, la storia è sempre stata la Storia, nel bene e nel male, facendo arrivare comunque e ovunque i messaggi (abbiamo avuto, ahimé, global stars come Hitler…). Vorremmo forse dire che con le nuove telecomunicazioni a parlare saranno solo i pacifisiti, i filosofi, gli ecosostenitori del pianeta? Palle. E non sarà certo Telecom a fermare la violenza nel mondo (e pensa a quanta violenza quotidiana si devono sciroppare i poveri utenti Telecom fra prepotenze, furbate, salassi economici, beceri dispettucci a chi diserta per nuovi gestori e quant’altro). Insomma davvero pensiamo che le nuove tecnologie e il connecting people ci salveranno? Guardiamo cosa succede in Cina, in cui l’imprenditoria mondiale, che ora finalmente vede aprirsi scenari succulenti per i suoi affari nella repubblica popolare, cerca di restare nella panchina della comunicazione in questa versione circense delle olimpiadi che giustamente schiera atleti e politici, sport e problemi politici. Meglio tacere per non perdere il flusso gigantesco di affari presenti e futuri. Anche qui, basta usare messaggi di comodo (in fondo sia sport che la filosofia hanno alle origini un valenza morale, etica, si fonda sulle virtù migliori dell’uomo). Come ieri sera, quando sulla 7 il placido signorino Elkann, in Cina, alla domanda del giornalista su come mai non fossero proprio le aziende che fanno affari con questo paese a manifestare contrarietà verso le “ombre” cinesi (un genio, quel giornalista. Aveva studiato alla Lapalisse school of investigations) lui risponde, candido candido: “Ma nooo, che c’entra! Le Olimpiadi sono una bella occasione e portano positività (al doping?) E la Cina si sta dimostrando organizzata efficace. Uno sforzo da lodare, uno sofrzo incredibile. Vuole cambiare molto più di quanto si crede”. Sì, certo. Alicio nel paese delle (per lui) meraviglie (di fatturato).
Ecco perché certe ipocrisie pubblicitarie mi danno fastidio. Sono messaggi artificiosi, strumentali.
Forse, alla fine, preferisco la bella donna che insegue un’ automobile in una spiaggia da sogno, sospesa ai limiti del mondo: icona dell’effimero, dei valori aggiunti che diamo alle cose per venderle. Bene, viva la sincerità.
Meno “buonista” ma più sincero.
Tra l’altro, è buffo che la Telecom sbandieri con toni commossi la comunicazione globale tirando in ballo perfino Gandhi quando tu, povero utente (ma sempre inserito nel mondo globale) non riesci neppure a comunicare con loro quando fai il numero verde per segnalare un guasto o chiedere lumi su una bolletta. Sei trascinato da una vocetta metallica in un labirinto di numeri prego prema il tasto 1 2 3 4 5 6 7 8….che fanno uno slalom strategico pur di impedirti di parlare con l’operatore (trovare lui è come trovare il Graal) che, almeno per ora, non è un robot né un replicante.
A proposito, conosco persone che hanno lavorato nei call center della Telecom e durante la loro formazione vi assicuro che i discorsi ficcati in testa ai futuri dealers erano tutt’altro che “gandhiani”, benevolenti e tolleranti.
Ma, come al solito, si predica bene e si razzola male….
Pronto Gandhi? Pronto? C’è nessuno? Bip. Se desidera ascoltare il messaggio del Mahatma prema il tasto 2. Se desidera pagare la bolletta prema il tasto 3. Se desidera conoscere le nostre ultime promozioni prema il tasto 4. Se desidera segnalare un guasto prema il tasto 5. Se desidera parlare con un operatore prema il tasto 6, e resti in attesa…tutu..tutu…tutuuuuu, spiacente riprovi più tardi, i nostri operatori sono tutti occupati.
Alba
Sempre, all’alba, speriamo in un mondo nuovo. Una mia amica mi raccontava di come, all’alba, avesse luogo sulla spiaggia il raduno dei sogni, tutti lì a guardare il mare, aspettando di esistere.
Mi sembra un’immagine molto bella. La porto con me.
Io preferisco la luna e i suoi arcani stupori. Ma l’aurora ha il suo mistero e qui al mare, d’estate, il sole si alza sull’acqua dopo il suo viaggio notturno, dopo aver rincorso la luna e forse dormito altrove con lei, nello spazio dei miti e dei sogni.
E regala all’acqua un colore bellissimo. Un azzurro trasparente che sembra contenere tutti i luoghi del mondo, come in una palla magica, come nell’Aleph borgesiano.
Se i sogni davvero si radunano all’alba, sulla spiaggia, aspettando di esistere, allora è in quell’attimo che si apre il confine magico tra ogni mondo.
Stupori
Rebus di limiti illimitati, l’infanzia. Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le magiche parole, compilate a rilento nel libro delle fiabe). Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre i quali doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda. Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l’acqua nascosta. Era la fin du parc.
(Cristina Campo, Gli imperdonabili).
Lettura travolgente, questa. Cristina Campo ti seduce, ti fa girare la testa con la sua tensione verso l’estremo dell’universo, ti copre di stelle cadenti che, come la polverina magica di Peter Pan, alleggeriscono il peso di ogni metallo. E all’improvviso ti ritrovi nei magici regni della fiaba e dello spirito, incantata dalla danza delle metafore che suonano i loro campanellini d’argento. Tintinna anche la testa, al loro suono si apre il varco della percezione profonda, quella che viaggia sopra e sotto ogni emozione, tappeto volante tessuto di ricami arcani.
La fiaba insegna. “Il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino”.
Ritrovare quei giardini in cui, liberi dalla nostra consueta prigionia, danziamo la danza del derviscio significa tornare nei meravigliosi, aurei regni infantili, quando ognuno di noi aveva la sua fiaba speciale, il suo archetipo particolare che sempre tornava a sussurrare al cuore.
“Racconta, nonna, Raccontami ancora quella storia”.
E così la donna anziana, la saggia che nelle mani e nella bocca teneva la misura del tempo senza tempo, misteriosa conservatrice dei segreti di ogni àugure, trasferiva le indicazioni verso i sentieri di conoscenza che un giorno, da adulti, avremmo cercato ancora.
Oggi purtroppo questa sapienza e questi segreti sono destinati al declino. L’antico cantastorie non trova più spazio nel regno della materia, della linea retta, della ragione priva di cuore.
L’esile filo di Arianna che ci collega alle stelle, e del quale la fiaba è un segno e un richiamo, resiste agli urti ma diventa fragile, evanescente, cadaverico, esposto a una luce lunare non più magica ma ingannevole, come mostra la carta dei Tarocchi.
Quando eravamo bambini davanti alle fiabe avevamo occhioni ardenti, e bocche dischiuse come un bocciolo a primavera. Avidi, ascoltavamo quelle letture così particolari in cui gli eroi si perdevano, compivano percorsi circolari incontrando travagli di ogni tipo per poi tornare a casa, una casa dalla quale l’anima non si era mai allontanata, inviando l’Io alla ricerca della sua origine.
Tempo meraviglioso, tempo di dame, di draghi, di eroi e cavalieri.
Il libro della Campo mi riporta, con una vertigine, a quell’alba dorata, mistero e origine di ogni fiaba.
La tristezza si inclina senza speranza, va giù, scivola verso il basso pensando ai bambini di oggi,esposti al rapimento di quei mondi fatati legati a un filo di Arianna sempre più occulto.
Senza il recupero di quello stupore non conosceremo mai il nostro regno interiore.
E mentre guardo mio nipote negli occhi penso che oggi gli parlerò ancora delle fate (lui le adora, ne sente il richiamo sottile e penetrante) e di come, in silenziosi boschi lontani, se l’uomo tace, il vento racconta.
Il suo sguardo mi guida con mano sicura verso i segreti della mia infanzia. Luoghi che ho solo dimenticato, come tutti. Ma che tuttavia, tuttavia stanno sempre lì, pazienti. Pronti a ricordarci i nostri stupori.
Riti d’ascensore
C’è una cosa che accomuna gli ascensori di tutto il mondo: il dialogo e la gestualità condivisa dagli sventurati che percorrono insieme il breve tragitto fra un piano e un altro. In quel piccolo lasso di tempo un demiurgo ruota un intero, piccolo universo scandito dai suoi riti. Abitanti di questo mondo particolare, due o più persone.
Le situazioni sono sempre omologate, sempre uguali a loro stesse nelle due varianti fondamentali: l’incontro con il vicino di casa e l’incontro con lo sconosciuto.
Nel primo caso, le cose si svolgono più o meno così:
Salve
Visto che tempo eh?
Fa caldo…
Uuuuh, che pioggia
Ehm ehm (schiarimento di voce)
Come sta la mamma?
E lo zio, i nonni?
Sorrisini, ammiccamenti, gesti di cortesia nell’aprire la porta per primi.
Nel caso dell’incontro con uno sconosciuto, di solito:
…………..
Ehm ehm (schiarimento di voce)
Eeeehhhh (sospiro)
Il silenzio – coperto solo da qualche timida, solita nota sul tempo (l’argomento più dibattuto in ascensore) o piccoli sospiri (come a dire: eh, che fatica vivere…) mentre i due uomini impegnati duramente in quei pochi, impervi minuti guardano in alto oppure si fissano con attenzione la punta delle scarpe (mai stata così interessante, prima).
I più audaci sfoggiano un sorriso Durbans. Altri guardano l’ora fingendo di essere immersi in chissà quali filosofici pensieri, smarriti nelle loro elucubrazioni esistenziali.
Spesso, però, i silenzi e i vuoti rivelano sommi imbarazzi.
A volte, se si è fortunati, arriva il provvidenziale soccorso di un elemento salvifico. Un cane, per esempio. Che capta l’attenzione di tutti convogliando verso di lui ogni tipo di chiacchiera. Una sorta di delizioso, peloso, ombrellino parafulmine, catarsi di ogni silenzioso imbarazzo. Ecco allora, improvvisa, la resurrezione della parola. L’attacco di logorrea.
Che carino!
Come si chiama?
Anche mia nipotina ha un cagnolino che…
Il logos risvegliato ha vita breve ma intensa, in questo caso.
In assenza di cani, è il bambino ad assumere la funzione salvifica. E’ lui ad animare i presenti con le sue faccine buffe a cui seguono le solite domandine di rito, stupide ma utilissime nel coprire il tratto che va dal pianoterra al quarto piano.
Ciaooooo, che carinoooo.
Come ti chiamiiii?
Pissipissi ciuciu…
Quanti anni haiiiiii?
I bambini, comunque, devono pensare che gli adulti sono dei deficienti. Chissà perché quando si rivolgono a loro si rincretiniscono, fanno la bocca a culo di gallina e cominciano a dare di matto agitandosi e parlando con quella vocetta scema scema. E loro, con pazienza, fanno finta di apprezzare queste performance mentre, in realtà, pensano a come recuperare questi sciroccati di adulti colti da attacchi di demenza precoce.
Cani e bambini, dunque, alleggeriscono il difficile percorso “ascensoriale”.
Quanto agli adulti, agli “umani”, non riescono proprio a reggere il silenzio e neppure a trovare scorciatoie per una intelligente conversazione bonsai, scandita dalla sintesi offerta da una manciata di minuti, perfino secondi.
E così, quando ci si trova vicini vicini, ad attendere l’ascensore, si sorride all’altro mentre in realtà si pensa “Che palle”.
E’ proprio vero: che palle.
Potere del mare
Stamani mi sono svegliata qui, a Senigallia, nella mia casetta vicino al mare. E ho pensato che, malgrado anni vissuti in città, quel profumo particolare non si dimentica. Te lo porti addosso, come una memoria cucita nel cuore.
Ti manca, in città, davanti a quelle sentinelle d’acciaio e cemento.
L’assenza del mare è assenza di Acqua, di sale, di orizzonti smarriti nei pastelli dei cieli.
"Gente di mare", si dice. Ha un senso.
Non è forse poi così diversa dagli altri, la "gente di mare".
Ha solo l’abitudine delle notti che pizzicano sulla pelle, dei pescatori di telline che salutano l’alba nei loro stivaloni di mare, delle serate appesi su uno scoglio ad ascoltare il racconto di un’onda.
Conosce i moti selvaggi del mare, conosce i suoi scuotimenti quando si arrabbia e prende tutto, risucchia cose e persone ostinandosi a non restituirle se non dopo tempo, quando la foga di Nettuno, placata, permetterà alle acque di specchiare nuovamente i riflessi del giorno.
Il mare mi vuole bene. Sa che anche se me ne sono andata in città non lo dimentico. Mi è compagno, amico, fratello. Segue le orme dei miei respiri per ricordarmi, nella tristezza, il continuo andare e venire delle sue onde, che arrivano e scompaiono, come le cose della vita.
Il mare mi accarezza anche d’inverno, nei colori freddi della metropoli. Mi insegue con la memoria di un bisbiglio, di un’impronta nella sabbia sussurrata dal vento.
Ogni anno torno qui. Metto i piedini nell’acqua, inseguo il profilo dell’orizzonte. E mi ritrovo.
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