DIRITTI E ROVESCI
Stavo andando alla stazione, ieri, in motorino. All’improvviso il centro di Roma si blocca per le manifestazioni che aggregano gli studenti contro il decreto Gelmini. Quelle autorizzate si sono accavallate a quelle spontanee, cambiando continuamente direzione.
In quel parapiglia rischiavo di perdere il treno. Così ho "disatteso" gli ordini di qualche vigile cercando comunque un varco nelle strade proibite (sembrava di dover arrivare a Lhasa cento anni fa…). I miei, a casa, mi aspettavano, insieme a una zia molto malata.
Quando arrivo a Piazza della Repubblica, vengo fermata da un vigile che mi intima di non proseguire. Mi giro e vedo avvicinarsi un corteo annunciato da voci e striscioni. Ma ho ancora qualche manciata di minuti prima che invada l’area, e imploro il vigile di lasciarmi proseguire con il motorino per non perdere il treno ma per tutta risposta lui mi intima di scendere e proseguire a piedi. Va bene, lo faccio. E inizio una corsa disperata infilandomi fra i primi manifestanti arrivati. Il treno lo prendo al volo, per un soffio.
E mentre viaggio ripenso ai modi del vigile, a come ha risposto, alla sua ignoranza (in ogni senso). E penso che se gli studenti hanno il diritto di manifestare io ho il diritto di prendere un treno.
Forse ogni volta che qualcuno esercita un "diritto" qualcun altro ne subisce le conseguenze.
Forse.
Ogni diritto dovrebbe cominciare dove finisce quello di un altro, direbbe il discendente di un noto filosofo.
Certo è che ieri, quando rischiavo di perdere il treno, pensavo che il loro diritto non era meno importante del mio. E chi stabilisce, poi, la scala dei diritti?
Una persona conta meno di centomila, certo.
Ma se "chi salva una persona salva il mondo intero", chi calpesta i diritti di una persona calpesta i diritti del mondo intero…
A volte occorre riflettere. Ognuno ha il sacrosanto diritto di manifestare, intendiamoci bene.
Ma anche quello di poter raggiungere una stazione e prendere un treno. O no?
Siamo tutti bravi a parlare di tolleranza e di giustizia per quanto riguarda manifestazioni, sciperi e cortei quando i nostri bisogni personali non vengono lesi.
Ma quando siamo coinvolti personalmente chissà, magari un dubbio ci coglie…
Io ce l’ho fatta, a raggiungere la mia famiglia. Probabilmente, però, qualche multa raggiungerà me.
OCCHI DI CONIGLIO
Ci sono sempre stati conigli, nella mia infanzia. Un po’ come in quella di Alice, con il suo Bianconiglio sempre in corsa dietro il fuggevole tempo. Anche io avevo i miei paesi delle meraviglie, quei paesi che, come tutti, ho smarrito da adulta, malgrado qualche piccola avventura libera e scavezzacolla che ancora riesco a regalarmi guardando dentro il mio albero (ognuno ha il suo, di albero).
Ci sono sempre stati conigli, dicevo. Sì. Avevo quasi otto anni quando zio Roberto – un omone grandissimo e larghissimo, la cui circumnavigazione della vita richieda un certo impegno – mi regalò il coniglio delle mie meraviglie. E’ strano perché è uno dei ricordi più nitidi che conservo della mia infanzia, quasi sempre occupata a giocare a nascondino con la memoria. Ricordo il negozio di giocattoli a Roma, dove andavamo a trovare i parenti, nonno nonna e zii, due volte all’anno (durante le feste comandate, ovviamente). Di zio Roberto in particolare non ricordo quasi nulla. Anzi, di tutto quel periodo ho solo immagini che stanno in punta di dita: i tramezzini morbidi morbidi del bar di piazza Vescovio, vicino casa dei nonni, io seduta su un gradino nell’immensa piazza da dove le statue del Vaticano osservavano l’ardire dei miei collant fucsia che rompeva il bianco della gonnina (mi vergognavo un po’, conciata da bambina “buona” con tanto di scarpe alla bebè, di vernice), la bustina magica che riempiva l’acqua di bollicine quando a tavola la nonna agitava la bottiglia, la concentrazione di uomini sulle colline romane dopo il rapimento di Aldo Moro, io mamma e mia sorella che facciamo le facce buffe agli animali dello zoo, oggi “civilissimo” bioparco.
Ricordi in ordine sparso. Ma su tutti scintilla quel pomeriggio quando zio Roberto mi invitò a scegliere un peluche. Gli scaffali erano pieni di animaletti ammassati, una vera galleria zoologica. Io a un certo punto lo vidi. Era là, vicino a un delizioso cerbiatto che però ignorai, forse perché Bambi mi aveva fatto versare tutte le lacrime quando gli avevano ammazzato la mamma. Era lì, splendido nel suo pelo bianco e nero. E i suoi meravigliosi occhi blu, liquidi e profondi come il mare in un giorno di sole, mi innamorarono all’istante. “Lui, lui!”. E lui fu mio. Era enorme, e io me lo misi in braccio tutta orgogliosa per quel regalo inaspettato (non faceva mai regali, lo zio Roberto). Da allora diventammo inseparabili. Dormivano insieme la notte. Lui era il coniglietto dei miei sonni d’oro, il totem che mi proteggeva dalla forze oscure che minacciano la notte dei bimbi, era il confidente delle mie malinconie quando litigavo con la mia sorellina. Sì, un membro della famiglia a tutti gli effetti. Della mia famiglia. Ognuno di noi ha avuto il suo “animale guida” speciale, il suo compagno d’arme e di giochi. Il mio era lui.
Accadde però che a furia di strofinarmelo addosso e per tutta la casa, con il passare del tempo il bel pelo di Fuff (questo il suo nome) si annerì, divenne opaco. Così mia madre mi consigliò di farlo lavare dalla signora Silvana, che sotto casa nostra aveva la sua lavanderia. Fece fatica a convincermi, ma chi meglio di una signora lavandaia avrebbe saputo restituirmelo tutto pulito e brillante?
Ma accadde l’irreparabile. Quando Fuff tornò a casa, aveva perso i suoi bellissimi occhi blu. Nulla, al loro posto non c’era nulla. Si erano sciolti durante il lavaggio ad alta temperatura, mi disse quell’assassina della signora Silvana. I suoi bellissimi occhi, dal taglio a mandorla e la pupilla nerissima, erano persi per sempre. Ero inconsolabile. Fu una di quelle tragedie che ti ricordi per sempre, da adulto. Il mio coniglio senza occhi. Il mio coniglio cieco. La mamma ci mise una toppa e fece fare due grandi occhi di panno celeste. Ma erano occhi privi di vita, senza espressione. Non erano più come il mare in un giorno di sole. Erano occhi "piatti", occhi qualunque.
Continuai a prendermi cura di Fuff malgrado l’orrenda mutilazione, ma dentro di me ho sempre ricordato quel paio di occhi magnifici su cui si posavano i sogni della mia infanzia.
Ci fu un altro coniglio importante, un coniglio letterario stavolta.
A dieci anni ero già ero una lettrice famelica. Un giorno mi regalarono un libro che ho stampato nel cuore: Quando Hitler rubò il coniglio rosa, di Judith Kerr. Racconta delle avventure di Anna, una ragazzina ebrea che, insieme alla sua famiglia, deve lasciare la Germania per vivere in Svizzera dopo l’insediamento di Hitler. Anna può portare via solo un peluche dalla sua casa e lei sceglie quello nuovo, un cane, lasciando per sempre il suo vecchio coniglietto. Ma si rende conto di avere sbagliato: il cane è nuovo, senza “storia” né condivisione di affetti. Anna rimpiange il suo coniglietto convinta che adesso sia finito nelle grinfie di quel signore antipatico coi baffetti, che magari ci gioca tutti i giorni nella sua stanza.
E’ un libro bellissimo, uno di quelli che hanno segnato la mia vita di lettrice. La storia di Anna e della sua famiglia in giro per l’Europa narra di difficoltà e nostalgie con delicatezza e umorismo. Ho un’immagine, dopo tanti anni, davanti. La pagina che descrive la faccia di Anna appiccicata su una vetrina di dolci, gli occhi fissi su una magnifica pasta al cioccolato. Quando in pasticceria mi compravo il tartufo, fatto di biscotto e cioccolata, pensavo sempre alla povera Anna gustandomi ogni briciola della mia fortuna.
In quel periodo ci fu un altro coniglio ancora. Un coniglio che mi impedì di mangiare questo animale per tutta la vita.
Io e mia sorella passavamo spesso il weekend in campagna, a casa di Maria e Alfredo, una coppia di contadini che ci ospitava volentieri. Così vivevamo libere, correvamo sui prati e facevamo merenda con pane, olio, aceto e sale (buonissimo), la sera guardavamo le fiamme del camino ma soprattutto giocavamo con tutti gli animali. Galline, pecore, maiali, cani e conigli.
Un giorno stavo davanti alla casa, incerta sul da farsi, quando voltandomi all’improvviso vedo Maria (una donnona brusca ma buona, molto affettuosa) che tiene nella sua mano ruvida un coniglio bianco, afferrandolo per le orecchie. Lui zampetta disperato, quasi avesse capito cosa sta succedendo. Nell’altra mano Maria ha un’accetta. I due, donna e coniglio, si trovano accanto a un albero tagliato quasi alla radice, trasformato – ora all’improvviso capisco – in un altare sacrificale. Caccio fuori un urlo terribile, comincio a piangere implorando Maria di smettere i panni del boia, all’improvviso il cielo azzurro è pieno delle nubi della mia disperazione, ma lei mi guarda e alza l’accetta scansando i miei urli. In fondo è naturale, uccidere gli animali e mangiarli. Una contadina non può comprendere il cuore di una bambina che vede un’anima ovunque, ed è giusto, una contadina rispetta il ciclo di vita e morte che onora ogni giorno. Ricordo quel momento come fosse adesso. Giro il collo, strizzo gli occhi e mi tappo le orecchie ma non riesco a non sentire il rumore secco del metallo che scende veloce sul tronco. In mezzo, in quello spazio trafitto, le zampette non si agitano più.
Mi viene da vomitare. La cruda realtà di quel momento spezza gli incantesimi della campagna, irrompe nel mio rapporto affettuoso con tutti quegli animali che, non posso far più finta, finiranno un giorno sul piatto. Anche sul mio.
E’ una scena che non mi ha più lasciato.
Non sono mai stata capace di mangiare un coniglio. Me lo hanno proposto in tutte le salse, ma nulla.
In quegli ossicini minuti rivedo ancora le zampette che si agitano al vento. E, chissà, in quei piatti rifiutati cerco ancora gli occhi di Fuff. Quei bellissimi occhi blu, perduti per sempre.
DELL’AMORE E DELL’ODIO
Il mio unico amore nasce dal mio unico odio
(Romeo e Giulietta, Shakespeare)
Quando Romeo, disperato, realizza che la fanciulla di cui si è innamorato nel breve spazio di un respiro è figlia del suo nemico peggiore, paralizza solo per un istante la sua intenzione, inscrivendola nello stupore.
Questa frase mi ha sempre affascinato, colpito.
Raduna i misteri di un’ambivalenza sempre presente, che unisce – in vari modi – l’amore all’odio malgrado i nostri tentativi di liberarci dalle ambiguità mettendo l’amore da una parte, incorniciato alla parete dipinta di roselline pastello, e l’odio da un’altra parte, meglio ancora se si tratta di uno sgabuzzino, un anfratto poco visibile, poco pericoloso per la nostra “bella immagine” con cui ci riproduciamo a noi stessi e agli altri.
Già nel tempo del mito questa umana tendenza viene corrosa attraverso dèi dalla doppia valenza e amori che si trasformano in odio, come nel caso di Medea.
Fu Freud con la psicanalisi a consolidare le verità dell’ambivalenza attraverso un inconscio bizzarro, birichino, capace di eludere i nostri manicheismi per riproporci la scomodità di sentimenti e sensazioni.
Fu lui a dire che la madre adora e odia il suo piccino (prevale una parte, ma questo non significa che l’altra non resti in vita) scandalizzando tutti quelli che in questa immagine vedono solo l’emblema dell’amore assoluto. Vero. Ma per ogni “luce”, per ogni amore, c’è sempre un contraltare che, nel mondo degli opposti, lo definisce e gli dà corpo e sostanza.
Oggi la scienza sembra soccorrere i “vaneggiamenti” di quelli che indagano filosoficamente e psicologicamente i tessuti della psiche. Infatti un gruppo di ricercatori britannici dell’University College of London ha scoperto che quell’”odi et amo” di Catullo è scientificamente vero. Amore e odio sono le due facce di una stessa medaglia. Infatti sono attivati dalle stesse aree del cervello e dagli stessi meccanismi biochimici.
Dunque è inutile scansarel’uno dall’altro con tanto sudore cercando a tutti i costi una separazione cesarea. Bisogna discriminare, sì. Imparare a dirigere le nostre emozioni.
Ma pretendere di esaltarne una credendoci immuni dall’altra è un errore molto pericoloso.
I nostri mondi interiori vivono di luci e di ombre, mescolano le cose, viaggiano sull’irrazionale. Governare il nostro “cavallo” vuol dire anche sapere che questo cavallo è sia bianco che nero.
Amore e odio sono così vicini. Solo una cosa li separa davvero: la razionalità dell’odio.
Chi odia infatti lo fa metodicamente, agli impulsi seguono sempre pianificazioni, strategie. L’odio è serpentino, come un demone.
L’amore, soprattutto quello passionale, è più farloccone. Segue la pancia e non la testa, si nutre di sogni e di nuvole, di proiezioni ideali.
Colui che odia invece vuole vedere la realtà per non sbagliare la mira quando affonda il coltello.
Non a caso quando ci innamoriamo gran parte della corteccia cerebrale associata alla capacità di giudizio “va in panne”, mentre nel circuito dell’odio la parte raziocinante del nostro cervello rimane bene attiva.
L’odio cerca vendette, vendette servite fredde per essere gustate meglio. L’amore no, lui vede intorno a sé solo il puttino che lo ferisce.
Ci sono poi molte gradazioni, sia nell’odio che nell’amore. Ma entrambi, comunque, sono necessari a farci prendere coscienza di noi, che ci piaccia o no.
Non è bello odiare. E’ terribile. Ma a volte è necessario. E, guarda un po’, se trasformato, il carburante dell’odio, energia libidica di Thanatos, arriva a trasformarsi in amore che cura, guarisce.
Eros e Thanatos non possono essere separati.
“Il mio unico amore nasce dal mio unico odio”, dice Romeo.
E quando Thanatos lo colpirà con la spada del fato, avrà comunque conosciuto il miele ambrato di Eros.
LAVORI IN CORSO
Sto traslocando, accidenti. Chi ha fatto traslochi recenti o lontani sa benissimo quale devastazione fisica e mentale comporta…
Fra me e i gatti (ormai sul ciglio della nevrastenia felina) non sappiamo chi sta peggio!
Ci rivediamo qui fra qualche giorno, quando emergo dagli scatoloni e dalla polvere…
LEGHISMI E QUALUNQUISMI
La Lega propone una mozione in Parlamento relativa all’ingresso dei bambini extracomunitari nelle scuole. E ti pareva. Subiranno un test di lingua italiana che li indirizzerà verso classi separate (vero obiettivo ariano del popolino leghista), insieme a un tetto sulla presenza dei bambini stranieri in classe, che non potrà superare una certa soglia. E gli altri che fanno? Vanno a giocare nell’erba? O si mettono invece a fumarla, l’erba, segnati dai precoci schiaffi della discriminazione?
Sarà perchè ogni volta che si toccano i diritti dei bambini mi inferocisco, sarà perchè penso che i Leghisti siano gli ambasciatori ufficiali dell’involuzione umana, sarà perchè non ne posso più di sentir spacciare come operazioni "salvifiche" alcune squallide azioni razziste ultimamente messe in atto (non mi riferisco alle prostitute e alle multe e ai vincoli ora imposti, mi riferisco al resto…), contrabbandate come aiuto per la (dis)integrazione degli immigrati in Italia.
Ora, non dico che la legge e gli atteggiamenti del precedente governo, democratico e di sinistra, siano stati migliori. Anzi, alcuni atteggiamenti certamente hanno peccato di una maggiore ipocrisia: permette alle persone di entrare in Italia salvo poi incazzarsi quando al semaforo ti irritano con il loro panno lavavetri o la sera ti piantonano con in mano la loro rosa esausta, sfinita come loro, richiede comunque una bella faccia tosta. Una faccia come il culo, diciamolo pure. E quanti ne visti, di questi signori "progressisti" che dopo aver inondato la tavolata di amici e colleghi di discorsi filo-immigrazione, di apologie della tolleranza, di demagogie salva-etnie-che-l’Italia-non-è-razzista, di grida scandalizzate contro la paura del "diversi", rivolgersi subito dopo con toni foschi all’indiano di turno che provava a vendere loro un accendino con una sfiga uguale a quella della piccola fiammiferaia.
Insomma, pare che nè a destra né a sinistra si riesca a essere onesti davanti al problema dell’immigrazione. Perchè, come si sa, il problema si fa scomodo quando lo si tocca con la carne, quando ci si sbatte contro fisicamente. Parlarne invece fa sentire tutti migliori. Basta che quel "coso", quell’uomo con la faccia nera o gialla o rossa non si avvicini nella nostra area di discurezza infastidendoci come farebbe una mosca. Bastano i dibattiti, le discussioni, le filosofie. Il nero davanti, a tu per tu, quello no, per favore…Perchè lui, accidenti, rischia di smontare ogni finzione, di qualunque appartenenza politica.
I problemi si dibattono in un certo modo quando sono…lontani. Quando non ci toccano. Quando non disturbano le nostre serate.
Begli ipocriti, tutti quanti.
E intanto restiamo incapaci di sapere cosa fare realmente davanti a un paese che cambia sotti i nostri occhi e come un fuoco d’artificio si accende di tanti colori.
Per tornare al signori leghisti con il loro filantropico "aiuto per l’integrazione", vorrei domandare, a questi geni delle idee eque e umanitarie, perchè non pensano di fare un test di italiano anche ai bambini italiani fra cui molti, diciamocelo, peccano di una certa ignoranza (per non parlare dei grandi, che spesso snocciolano una profusione di errori ed orrori grammaticali e sintattici che chiederebbero un corso immediato).
Perchè i bambini colorati sono sempre diversi da quelli bianchi, da quelli puliti, pettinati, belli, targati "Italia"? Meglio ancora se sono padani, vero bollino Chiquita per la certificazione di qualità.
Il sangue, signori miei, lo abbiamo tutti rosso. Vediamo di ricordarcelo.
Da parte mia, cerco di mantenere un atteggiamento equo che non si arrocca dietro posizioni precotte, di destra o sinistra che sia, cercando ogni volta di vedere cosa sia "giusto" e cosa "sbagliato". L’immigrazione è complessa, difficile. Non basta un’etichetta politica e via.
Ma non voglio che paghino i bambini. Loro, i bambini, sono sacri. E vanno protetti. Tutti. Dico ancora: tutti.
Quanto a certi vittimismi italiani davanti all’immigrato rubalavoro, vorrei dire una cosa: alcuni sono sacrosanti, altri, invece, davvero ridicoli. Un esempio? Io ho fatto tinteggiare la nuova casa da una piccola ditta (un signore e tre-quattro operai) italiana doc. Con tanto di partita Iva. Hanno voluto 3.300 euro. In nero. Come la maggior parte di imbianchini, idraulici, tappezzieri, falegnami e compagnia bella, non hanno voluto fatturare. E io, cogliona, pago le tasse anche per loro, che straguadagnano (suvvia, ma che ci vuole a imbiancare una parete?? giusto perché sono pasticciona e non ho mai tempo…). Ho chiesto se per favore mi davano una mano di vernice bianca anche al tavolino fatto fare dal falegname e gli appiccicavano sopra le piastrelle in cotto (un tavolo da quattro persone, non da quaranta. Un’oretta di lavoro). Quanto hanno preso? Altri 300 euro, belli belli in tasca senza decurtazioni fiscali.
Beh, io non ci sto. Poi si lamentano degli albanesi che rubano il lavoro. Invece sapete che dico? Che io, la prossima volta, chiamo proprio gli operai albanesi. Lavorano in nero esattamente come questi italianissimi signori, ma almeno non ci speculano sopra.
Insomma, l’immigrazione è davvero faccenda delicatissima, piena di tutto e il suo contrario, densa di distinguo e contraddizioni.
Solo che i signori leghisti dicano almeno, tranquillamente, di essere felicemente razzisti. Hitler lo faceva, almeno aveva la faccia tosta di proclamare la superiorità di una razza.
In Padania la superiorità razziale scivola serpentina e carbonara nelle retrovie, è una verità occulta, un sussurro che non deve mostrarsi al sole ufficiale della politica per mantenere un po’ di decenza e far passare certe azioni politiche. Come fa quel famoso sindaco di non ricordo dove…Un coglione, comunque.
Almeno dite le cose come stanno, porca miseria.
Tanto con o senza voi leghisti il famoso sogno di Marthin Luther King per il momento va comunque a farsi fottere.
ARMONIE
Il piacere che lo scrittore prova
è il piacere dei saggi.
Dal non silenzio nasce l’essere;
dal silenzio,
lo scrittore genera una canzone.
In un metro di seta vi è lo spazio infinito;
le parole sono un diluvio
da un piccolo angolo del cuore.
La rete dele immagini, lanciata, si allarga
sempre di più; il pensiero perlustra
sempre più a fondo.
Lo scrittore offre
la fragranza di fiori freschi,
un’abbondanza di germogli che sboccia.
Venti vivaci sollevano le metafore;
nuvole si alzano da una foresta di pennelli.
(Lu Ji, Soddisfazione)
Il poeta-soldato Lu-Ji, condottiero di eserciti ma amante delle parole, allievo di Confucio, regala versi bellissimi nel suo "L’arte della scrittura".
Un ponte verso la saggezza orientale, una strada piena di lumini accesi a segnalare il cammino di un’anima vibrante.
L’enigma dell’universo, la multiforme scoperta delle sensazioni più sottili, la soglia fra parola e respiro diventano ricerca viva, fonte di continua indagine.
Stamani mi sono svegliata con la voglia di attingere a uno di questi versi.
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