LA MAPPA E’ IL TERRITORIO?
La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata
(Gregory Bateson)
Chi, come me, lavora con le parole sa bene in quali angusti anfratti capita a volte di infilarsi. Il linguaggio è straordinario e allo stesso tempo insidioso, può brillare come un faro nella notte oppure diventare nebbia che tutto invade, mescolando i confini delle cose, spostandole, equivocandole.
La frase di Bateson è verissima ma, ahimé, ognuno di noi crede invece che la sua personalissima mappa mentale indichi il territorio, lo rappresenti in modo oggettivo e non soggettivo.
Purtroppo la neurolinguistica, con la scuola di Palo Alto, su questa affermazione ha costruito addirittura un meccanismo di gestione e controllo di chi ci sta di fronte, partendo dalla conoscenza delle sue mappe con le quali interagire. Dico purtroppo perché ho carissimi amici che insegnano questa disciplina tutta moderna (che però, come sempre, saccheggia gli "antichi") e che mescola Watzlavich e Bateson, Korzybski e lo zen orientale e mi è capitato di editare un loro testo pubblicato da Franco Angeli. Personalmente, queste manipolazioni usate a fini commerciali (molti venditori fanno corsi di pnl per imparare il "calco" del cliente che sta loro di fronte, e che consiste nel mimarne i percorsi gestuali e linguistici al fine di metterlo a proprio agio) mi lasciano molto perplessa.
Ma torniamo alle mappe e ai territori.
Il problema, dicevo, è che ognuno di noi ha la sua mappa, che diventa un territorio universalmente valido. Anzi, il territorio. Da qui si parte per "scapocciarsi" su ogni tema della realtà, passando da una discussione a cena a…una guerra.
I nostri territori sono come terre di mezzo popolate dagli abitanti che abbiamo creato. Insomma, siamo tutti dei tolkeniani senza saperlo. A questi territori diamo il valore di realtà, seguendo invece, spesso, le nostre credenze.
E le parole, in queste mappe, sono come i cartelli stradali. Sono loro a orientarci, a farci dare indicazioni agli altri (molte delle quali errate), a indirizzare i viaggi.
Ma la parola, senza un’esperienza condivisa, ha scarso valore.
Dunque le nostre mappe devono in qualche modo fluire le une nelle altre.
Senza la condivisione di un’esperienza tutto rimane su carta, o in punta di penna.
Certo, la percezione cognitiva di qualunque cosa ci venga offerta dalle parole avrà comunque un peso, ma questo peso sarà ripartito in modo differente.
Io non sono una "mamma", ad esempio. Dunque posso immaginare, con la mia mappa, in cosa consista un affetto filiale, provando a immedesimarmi nella maternità.
Ma per quanto profonda, la mia conoscenza sarà fatta solo di mappe e parole, senza un’esplorazione reale del territorio. Sangue del mio sangue. Bellissima immagine evocata, splendida frase. Ma non so che significa viverla, renderla reale, concreta.
A complicare le cose, ci si mette l’esperienza condivisa che, per ognuno, può avere un tenore diverso.
Dipende dal punto di vista, o di svista.
Per intenderci, sia i palestinesi che gli ebrei vivono sulla pelle il dolore di un conflitto che pare inestinguibile, eppure della medesima esperienza hanno una percezione assai diversa.
Perchè la mappa è il territorio, e le mappe sono diverse. Quindi ognuno al consulta durante la sua navigazione personalissima.
E a volte, quando si grida Terra! Terra! è troppo tardi.
In barba alle mappe, ai territori e alle parole.
NATALE CON PLEO
Di Pleo avevo parlato un paio di post fa. Il fatto è che me lo sono trovato davanti dal vivo, in doppia copia, la sera di Natale.
Doppia copia perché destinato ai miei due nipotini.
Io me stavo a letto, tra l’ebbrezza vagamente alcolica di una febbre quasi a quaranta e i bronchi intasati. Nella mia forzata quarantena ascoltavo le voci dei parenti riuniti per la cena. Arrivavano dal corridoio come un’eco consolatoria che però mi faceva sentire, se possibile, ancora più sfigata.
Tra l’altro sono anni che mi vesto da Babbo Natale per i miei nipoti ma stavolta ho ceduto lo scettro, anzi il saccone, a mio fratello. E loro, a otto anni suonati, ci hanno creduto di nuovo. Fantastico. Peccato che quello sconsiderato di Babbo Natale ha portato anche i due Pleo.
Mio nipote, clemente, dalla soglia della camera ha voluto farmi assistere alle prime mossette del suo nuovo amico.
Ed è proprio come lo avevo immaginato, ahimé.
Dormicchiava, si stiracchiava, grugniva.
Quando nasce (cioè quando uno lo compra) bisogna stare attenti a non fare troppo rumore, a non essere violenti ecc ecc.
E mi facevano pena, quei bambini (i due nipoti di otto anni e quella di tre) radunati intorno a quello sciocco neonatino di plastica che azzittivano ogni possibile caciara con gesti nevrastenici.
Tutti intorno a un coglione di dinosauro finto, tutti intenti a fargli i grattini sotto il mento o a fargli mangiare la foglia, e non in senso figurato: lui mangia davvero una foglia di plastica. Il prolema è che nella scatola d’acquisto ce n’è una. Ergo se un bimbo la perde quello muore di fame?? Con successivi sensi di colpa da lettino freudiano…
Insomma, lui è come l’avevo immaginato. E acchiappa grandi e bambini con quegli occhioni che ti guardano attraverso i loro sensori.
Ma con me non ce l’ha fatta, Pleo. Non mi sono commossa davanti alla sua vocetta e ai suoi prodigi di bravo robot lattante.
Eppure in alcuni parenti vedevo il brivido del compiacimento. Lo trovavano fantastico.
Io no. Mi dissocio e ci tengo a confermare quanto avevo supposto su Pleo.
Adesso l’ho perfino toccato con mano (è un po’ vellutato ma sempre di plastica rimane) ma nulla da fare. Lui da una parte, io dall’altra.
Non saremo mai amici.
Mi dispiace solo che i miei nipoti gli corrano dietro in questo modo.
Meglio la gatta di mia sorella che, per quanto perfida e ostile, è fatta di carne vera.
A proposito, chissà che ne pensa di Pleo.
Fatto sta che non la vedo girare…
E’ NATALE E’ NATALE SI PUO’ FARE DI PIU’
Non sopporto il tormentone pubblicitario di questo natale. Un falso buonismo che in realtà è tutto concentrato sul consumismo.
Del resto, abbiamo creato un sistema economico mondiale che si basa sempre e solo sul consumare.
Terribile, se si sosta un attimo sul significato della parola. Consumare. Dunque esaurire, distruggere, ridurre a nulla. Ma anche compiere. Compiere cosa? Il rito del consumo, appunto.
Una civiltà che per progredire deve consumare contiene in sé il germe della sua distruzione.
Ci siamo abituati, tutti, a farci riempire mente e orecchie con gli incentivi all’acquisto perchè fa bene non solo a noi ma anche all’economia, ne spinge la crescita giustificandone l’esistenza. Quindi se vogliamo star bene dobbiamo continuare a consumare a più non posso. Se mi fermo a pensarci ci trovo qualcosa di abietto, malato. Che cela un’oscurità relegata in uno scantinato che però non per questo cessa di esistere, come del resto ci mostra abilmente la recente disfatta delle nostre illusioni economico-finanziarie.
Penso spesso alla carta dei Tarocchi, quella con la Torre che precipita giù a causa dell’umana ignoranza. Di nuovo, ancora, la nostra Torre è caduta. Ma siamo pronti a mettere nuovi mattoni, a costruire facendo finta di non vedere l’assenza di fondamenta. Un po’ come se ci ostinassimo a fare una cattedrale sopra una fogna.
E ci si mettono pure le canzoncine della pubblicità, a farci far finta di essere più buoni solo perché ci ingozziamo di pandori, panettoni e cioccolatini. Non basta mettersi in testa il cappellino rosso di Babbo natale addobbando i nostri salotti. Il Natale va guardato in faccia, non nella gola.
Un’economia basata sul consumo continuo dovrebbe – prima o poi – farci pensare ai nostri destini.
Sarebbe ora di invertire un po’ la rotta. Ma non lo facciamo.
E mentre la gente muore di fame e dorme sotto i ponti, noi, tanto buoni e sapienti, lasciamo che ogni giorno i supermercati buttino via quintali di merce ancora buona, tanto per fare un esempio.
Il sacchetto che contiene una mela troppo matura, la scatoletta di piselli che scade dopo un paio di giorni, la torta ammaccata…Cibo commestibile, insomma, ma esteticamente bruttino, o vicino alla sua "fine". In poche parole, non commerciabile e dunque estraneo al girotondo dei nostri consumi.
Andrea Segrè, autore del libro Elogio dello spreco, indaga e scopre che si tratta di 658 tonnellate di cibo al giorno, 240 mila tonnellate all’anno, per un valore di un miliardo di euro. "Basterebbero a far mangiare tre volte al giorno, diciamo per l’intero 2009, qualcosa come 620 mila persone".
Non mi pare sia necessario aggiungere altro.
E’ Natale è Natale si può fare di più.
Decisamente.
L’ALBA O IL TRAMONTO DEL PD?
Di solito non mi occupo di politica, nelle pagine del blog. Ma a volte non riesco a resistere, specie negli ultimi tempi.
E poi la politica c’è, non si può far finta di ignorarla. Sarebbe come scegliere un panettone escludendo l’uvetta. In fondo "ogni nostro gesto è politico", scrive la bravissima Szymborska in una delle sue poesie. Vero.
Dunque a volte bisogna pure parlarne apertamente. Chi frequenta il Mulino sa che non ci sono schemi precisi ma una trasversalità che cerca di trovare i visi e le virtù da ogni parte, senza pregiudizi confezionati sotto le bandiere.
Ma, devo dirlo, il rantolo terminale di una sinistra che deve per forza cambiare per non morire non ha di meglio che ricevere l’estrema unzione da Alba Parietti?
La signora in questione passa con disinvoltura dai macellai ai filosofi, dai filmetti natalizi ai presenzialismi "impegnati" nei salottini più mondani che giornalistici di Bruno Vespa o Maurizio Costanzo.
Mai risolto il conflitto fra i lifting alle tette e quelli al cervello, Alba Parietti soffre la sindrome dell’intellettuale mancata (non basta tare insieme a un filosofo per diventarlo…) e decide di fare la Giovanna D’Arco della politica, proponendosi alle primarie.
Non bastavano le signore impomatate che hanno già raggiunto le fila dei vari partiti, da Cicciolina alla Santanché passando per i fuochi rossi (ma solo in senso cromatico) della Brambilla.
E poi attori, attrici…tutti in politica, via. Come se fosse un gioco.
Io la Parietti a guidare la resurrezione dei democratici italiani non ce la vedo proprio.
E poi mi fa paura, con quelle labbrone a canotto che sembrano evocare una Cappuccetto rosso dei tempi moderni:
Alba Alba, che tette grandi che hai….
Per proteggerti meglio
Alba Alba, che coscia lunga che hai…
Per arrampicarmi meglio sul Campidoglio
Alba Alba che occhi grandi che hai…
Per farmeli guardare meglio
Alba Alba che bocca grande che hai….
Per….
Parlare meglio?
Non è una donna stupida, la Parietti. Anzi, vanta una discreta intelligenza. Ma non basta.
Sono stufa di un paese in cui chiunque si improvvisa politico, in una macedonia di narcisismo e onnipotenza. La politica, quella vera, è faccenda seria. Non basta essere fotogenici e popolari. Malgrado Berlusconi, bisogna continuare a credere in qualcosa di meglio, in una politica seria che trovi un equilibrio fra i parrucconi doc e quelli appiccicati sul cranio.
Largo ai giovani, spazio alle idee.
Le quote rosa (definizione deprimente, sa tanto di apartheid tinteggiato a colori pastello) sono importanti, ma occhio alla qualità di queste quote.
Eppure, eppure la donna che fa la "lady politica" oggi va molto di moda. Dalle signore mogli di presidenti e affini (Carlà ci sta funestando da vario tempo, tanto per fare un esempio) a quelle che si stancano di prendere il té delle cinque e si buttano nell’impegno sociale (la battagliera Santanché), eccoci davanti a nuove rivendicazioni nei luoghi "maschili" in nome di una sacrosanta uguaglianza (salvo poi incazzarsi se non vale più la disparità fra l’età pensionabile), assistiamo a un can can appena iniziato.
In più, non si capisce perché quando una signora di spettacolo si avvicina a un’età "di mezza vita", diciamo così, come accade alla Parietti (e, di nuovo, alla Carlà), all’improvviso si trova sopraffatta dalla necessità di un riciclaggio in chiave politico-sociale.
Ma non è meglio cantare, ballare, recitare? Fare, insomma, quello che più o meno si presume si sappia fare.
Io vorrei vere donne in politica. Donne vicine ai problemi del quotidiano, senza troppi pensieri di immagine o lifiting o gioielli con contratto da testimonial.
Voi no?
NATALE NERO
Natale nero. Immediatamente si pensa alla crisi della finanzia internazionale, al crollo dei consumi, alla sfiducia nel comsumo.
Io però qui mi riferisco invece al Natale -in-nero, di molti venditori.
Questi giorni mi sono aggirata per negozi e mercatini, spesso senza comprare nulla, altre volte con qualche pensierino (ma direi più un punto e virgola che un pensiero…non sono in vena di feste, questi giorni).
Tutti, dico tutti, hanno incassato senza presentare uno straccio di scontrino. Neanche un pezzettino di carta, a parte il biglietto da visita consegnato insieme a un sorriso da padella.
Non so voi, ma io da quando faccio parte del popolo della Partita Iva faccio molta più attenzione a questo fatto, perché quanto incasso con il mio lavoro viene strapazzato da tasse e frenetici giri di Iva che mi fanno venire il mal di mare.
Non solo gli imbianchini, gli idraulici, i tecnici informatici (o di qualunque altra area, basta che siano…tecnici chiamati per interventi), ma anche i negozianti mostrano una bella faccia tosta, con buona pace delle incursioni fiscali.
Io non ne posso più.
Ma perchè non passa mai una bel vigile quando esco da uno di questi negozi??
Così, per par condicio…
E invece l’Italia deve continuare a essere un paese diviso in due, diviso fra chi paga le tasse e chi non le paga.
Ma porca miseria, è così difficile pensare di applicare anche qui il modello americano, quello che fa scaricare ai cittadini ogni spesa, dalla crema per i punti neri alla salsa di noccioline?
Così i cittadini sarebbero assai più interessati a ricevere i loro scontrini. E non sentirebbero sempre quella stramaledetta pressione che ogni volta chiama in causa la tua coscienza, quando ti dicono fra l’ammiccante e il minaccioso: "serve per caso lo scontrino/fattura?" E tu, come un pirla: "ma nooooo si figuri…" perché preferisci pagare un 20% in meno. A volte, poi, non ti tolgono nemmeno quel 20%. E intanto sai che incrementi il divario fra i "paganti" e gli evasori.
Ne avevamo già parlato, nel blog. Ma non mi ero mai resa conto di quanto ci marciassero anche molti fra i negozianti (i mercatini, poi, sono vere associazioni a evadere).
Tutte le volte che mi sono impuntata per avere il mio scontrino fiscale mi hanno guardato scandalizzati, manco avessi avuto la lettera scarlatta stampata in fronte.
Vorrei più onesta. Più democrazia. Quella vera, non quella di comodo.
Vorrei che il pagare le tasse fosse uguale per tutti. Anche il non pagarle, intendiamoci (Babbo Natale mi fai questo regalo?) Ma che almeno valesse per tutti.
E tuttavia non c’è mai qualcosa che vale per tutti, tranne la morte.
Così molti commercianti continuano a intascare e a evadere. Buon Natale, per loro. Magari cantano "E’ Natale è Natale si può evader di piùùùùù"
Del resto, come non capire il fatto di non voler pagare le tasse a uno stato che chiede quote bestiali per poi riservarci la mondezza in cui ci troviamo (mondezza di destra e di sinistra, con raccolta indifferenziata)… Comprensibilissimo. Per carità.
Così, però, si crea un dislivello, un’altra ingiustizia da gettare nel mucchio già bello pieno.
E allora mettiamoci d’accordo.
Io propongo un’altra canzoncina natalizia:
"Pago anch’io. Sì tu sì"
Oppure, ancora meglio, scriviamo a Babbo natale chiedendo meno tasse per tutti ma anche meno evasioni per tutti.
Però mi sa tanto che Babbo Natale sa fare i regali ma non i miracoli.
TESTA DI BAMBINO
Mio nipote Edoardo, Dede “per gli amici”, non fa che stupirci per la profondità dei suoi pensieri. Ha otto anni e come molti altri bambini ogni tanto sforna riflessioni improvvise che sembrano arrivare dalla bocca di un vecchio saggio.
Forse sono così, i bambini. Sono piccoli vecchi, come i nani di Biancaneve.
Non parlo dei bambini cantati da Povia, quelli che fanno Ooooooh!! che meraviglia che meraviglia insieme al verso dei piccioni.
Parlo dei bambini in carne e ossa, quelli che ci in-cantano ogni giorno.
Alcuni sono più fantasiosi, altri più logici. E tutti sembrano conoscere cose che noi non conosciamo, impegnati come siamo a stendere al sole come panni i nostri neuroni, dopo averli centrifugati per bene. Loro no, loro stanno lì e sparano proiettili di saggezza in modo così immediato e spontaneo da farti quasi paura. Sembrano ladri di conoscenza. Forse se la portano addosso, come polvere di stelle, dai cieli lontani che li hanno ospitati prima di nascere.. So che Odifreddi e la Hack si imbestialirebbero, ma me ne frego. Credo che siano anime scese sulla terra, i bambini. Anime giovani o vecchie, ferite o rinvigorite da secoli di conoscenza. Ma non mi va di parlare di metafisica e religione. So solo che per me hanno addosso l’odore degli angeli, quando nascono.
Poi, poi diventano anche piccole pesti che a volte schiacceresti volentieri. Eppure ascoltarli è sempre un’esperienza didattica, per me.
Dede, mio nipote, è un piccolo filosofo, e lo dico astraendomi dal pur legittimo orgoglio di zia.
Davvero, ha collezionato una serie di “imprese” logico- intellettive che lasciano la madre e la nonna a bocca aperta.
L’ultima è strepitosa. All’improvviso, l’altro giorno, si alza da tavola e dice:
Ma se Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri, poi doveva rubare a quei poveri che nel frattempo erano diventati ricchi e ridare tutto ai ricchi che ora erano poveri. Ma poi questi tornavano di nuovo ricchi…e quando finisce allora?
Beh, diavolo, ha ragione.
Io ero più romantica, da bambina. Pensavo alle farfalle come a fiori che volano, e altre immagini fantasiose. Lui invece ama la logica, alternando intuito e analisi.
Sono speciali, i bambini. Il problema è che tutti vogliamo essere “grandi” e forse abbiamo troppa fretta di crescere. Ma abbiamo l’occasione di imparare da loro.
Io so una cosa: non ho mai imparato così tanto come dai gatti e dai bambini.
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