WHAT’S IN A NAME?
Tis but thy name that is my enemy;
Thou art thyself, though not a Montague.
What’s Montague? it is nor hand, nor foot,
Nor arm, nor face, nor any other part
Belonging to a man. O, be some other name!
What’s in a name? that which we call a rose
By any other name would smell as sweet;
So Romeo would, were he not Romeo call’d,
Retain that dear perfection which he owes
Without that title.
Non è il tuo nome il mio nemico
sei tu te stesso, anche se non un Montecchi.
Cos’è un Montecchi? Non è né mano, né piede,
non è braccio né faccia, né ogni altra parte
del corpo di un uomo. Oh, sii un altro nome!
Che cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo una rosa
con qualsiasi altro nome avrebbe comunque un profumo tanto dolce.
Così anche Romeo: se non fosse chiamato Romeo
manterrebbe quella cara perfezione che gli appartiene
senza quel titolo.
Romeo e Giulietta, Shakespeare
“What’ s in a name”? Si chiedeva Shakespeare in Romeo e Giulietta.
Cosa c’è in un nome? Cos’è un nome?
Un nome racchiude l’essenza che, malgrado sia immutabile, proprio da questo nome viene incarnata per vivere la sua “storia”.
Infatti furono proprio i cognomi di Romeo e Giulietta, Montecchi e Capuleti, a determinarne l’amaro destino.
La consapevolezza della parola, del nome, è di vitale importanza.
Chiamare le cose con il giusto nome.
Non a caso negli antichi miti aborigeni il mondo è stato creato attraverso un canto le cui parole indicavano le cose, che in questo modo si anima-vano.
Il nome è potere.
Non possiamo essere approssimativi, indicare qualcosa senza cercare la massima precisione. Se si lavora con le parole, bisogna conoscerne la forza.
Trovare sempre il nome più adatto non è facile.
Per questo a volte ci soccorrono i dizionari di sinonimi e contrari, di prezioso ausilio.
Ma la parola che nasce dall’ispirazione è spesso quella più giusta.
Più tardi, scrivendo, confronteremo, cercheremo, limeremo, sposteremo.
Ma le parole vanno lasciate libere di fluire in ogni processo creativo.
Un po’ come se fossimo noi, gli antichi aborigeni australiani alle prese con le loro “Vie dei Canti” di chatwiniana memoria.
IL PESO DELL’ANIMA
"Sette anime" di Gabriele Muccino divide pubblico e critica, scompiglia, ispira o respinge.
A me è piaciuto. Moltissimo.
Peccato che la traduzione italiana non abbia rispettato, tanto per cambiare, il titolo in inglese: "Seven pounds", sette libbre, che richiama il "pound of flesh" shakesperiano, la libbra di carne umana chiesta dal mercante di Venezia per estinguere il suo debito.
Sette libbre, sette pesi, sette debiti.
E’ la storia di un uomo che si finge esattore fiscale per trovare sette persone da salvare per compensare sette vite (fra cui quella della moglie) terminate a causa di un incidente stradale in cui la sua auto uscì fuori strada.
Una lista di Schindler con sette nomi: sette persone da salvare, sette vite da aiutare.
Solo che di una di queste si innamorerà, e questo amore complicherà il suo piano ma non lo fermerà.
Un film drammatico, dolente, intensissimo.
Il peso della colpa e del rimorso pervade ogni scena, e allo stesso tempo accade che la speranza (improvvisa, come ogni speranza) soffi per un istante breve il suo alito caldo d’amore, e riscaldi un cuore nel tempo che concede un fiammifero. Ma la fiamma si accende, divampa, prosegue in un altrove diverso da quello sperato, trasformandosi in brace ardente nella memoria e nel fisico di un dono ricevuto.
Il cuore, non a caso, è l’altro tema centrale del film. Un cuore malato da salvare, un cuore ferito da sanare.
Facilissimo, in casi come questi, cadere nella banalità, nel valzer dei sentimenti strappalacrime, nella formattazione di schemi emotivi banalizzati – come sempre – da enfasi e ridondanze. E invece no. Invece il film è sobrio, elegante, tende un filo e non lo molla. Inizia in punta di piedi e poi il disegno di una danza comincia a svelarsi (ma bisogna attendere almeno il secondo tempo del film) finché all’improvviso esplode come un fuoco d’artificio, i pezzi si compongono rapidamente in una tensione emotiva che punge la pelle, la scopre.
Gran bel film. Grandissima interpretazione di un talento assoluto, Will Smith, scintillante nel suo felice sodalizio con Gabriele Muccino, che come un amante ne esalta le virtù attraverso una regia "fisica" e allo stesso tempo sottile, impalpabile.
La sceneggiatura (stupenda) è di un americano, malgrado le critiche di lentezza (certo, andiamo sempre troppo veloci) ed "ermetismo" (il puzzle che si compone man mano a me è piaciuto moltissimo) io ho trovato sette anime entusiasmante. E lacerante.
Fa riflettere sula nostra umana condizione, sospesa tra colpe e desideri di redenzione. E, soprattutto, pone domande mai risolte: è lecito il suicidio? e se ci uccidiamo per donare i nostri organi ad altre persone saremo davvero "puniti"? non avremo diritto di sepoltura? è un gesto egoista o un gesto d’amore? compensare un errore con un’azione contraria ci rende liberi o ci indebita ancora di più verso il prossimo nostro?
E’ redenzione o scarico della coscienza? salvezza o dannazione?
E poi chi siamo noi per giudicare la vita nostra e degli altri?
"Lei è una brava persona?" domanda il protagonista agli sconosciuti che sta contattando per vedere se "meritano" il dono che cambierà il loro destino.
Già. Una brava persona. Sono io una brava persona? che significa essere "brave persone"? quali sono i parametri per giudicarmi?
forse più che brave persone dovremmo essere persone vere. Vere davanti all’immagine che vogliamo dare, agli altri e a noi stessi.
Non a caso a un certo punto punto del film Will Smith domanda: "Lei è una brava persona? Anche quando gli altri non la vedono?".
Ecco, ecco allora che diventa più difficile. Essere bravi quando gli altri non ci osservano, quando smettiamo le nostre recitazioni, quando ci troviamo nel buio della nostra stanza, davanti alla coscienza.
Non è un film facile, questo. Propone domande, suggerisce risposte per forza solo sfiorate.
Lo scavo vero non sta mai in un film. Sta nella vita.
Di certo, però, sono grata ogni volta che qualcosa o qualcuno mi mette davanti alle domande.
I FIGLI DELLA WERTMULLER
Da qualche giorno ho l’influenza, di nuovo.
Così oggi pomeriggio ho acceso la televisione e mi sono imbattuta in un’intervista a Lina Wertmller, regista che non amo particolarmente ma che è certamente dotata di intelligenza e sensibilità.
Mi è molto piaciuta la sua risposta alla domanda: "A quale delle tue opere sei legata di più?"
Ha risposto:
"Come faccio a dirlo? Sono tutti figli miei. Alcuni li amo per i pregi. Altri per i difetti".
Una risposta sincera. E bella.
SUSSULTI
Rotti
come frammenti
di una stella fuggitiva
viviamo.
I nostri pezzi restano
alla curva del sogno
(Maria Guerra)
Poco fa ho trovato questa poesia di Maria Guerra mentre cercavo dei testi per una lezione sulla potenza evocativa delle parole.
Di sicuro la poesia sa farci sussultare, inebriandoci di pensieri e sensazioni, perchè conosce la forza che che una sola parola, combinata magicamente insieme alle altre, riesce a incarnare.
La poesia vive di immagini.
Di sottrazioni.
Di sussurri.
Leggere poesie allarga un poco le ali dell’anima, spesso così rattrappite.
SE QUESTO E’ UN NOBEL
"Non possiamo accettare l’idea che Hamas continui a sparare mentre noi dichiariamo il cessate il fuoco. Non abbiamo intenzione di occupare Gaza, ma di annientare il terrore. Hamas ha bisogno di una lezione e noi gliela stiamo dando"
(Shimon Peres, Nobel per la Pace).
Credo non ci sia bisogno di molti commenti, al di là di ogni pensiero e di ogni schieramento.
Preferisco tacere, lasciando all’eloquenza di immagini, fatti e parole la forza di raccontare.
Mi viene solo una grande malinconia.
Insieme a un pensiero: i Nobel oggi sono come le lauree. Pezzi carta.
Chissà, forse potremmo dare a Umberto Bossi il Nobel per la tolleranza….
AGGIUNTA DEL 6 GENNAIO 2008
L’argomento è sempre "caldo".
Io, personalmente, sono sempre dibattuta e lacerata, in questo caso.
Lessi- anni fa, un bellissimo libro: "La questione palestinese", Gamberetti editore, scritto da un autore ora morto, apprezzato per la sua lucidità intellettuale. Un autore arabo-palestinese.
Ci si trovano dentro aspetti preziosi e scoosciuti.
Israele ha l sue ragioni, per carità.
però, francamente, accettare uno stato che vive nel benessere (Tel Aviv somiglia a Miami) occupando le terre nelle quali "tu" vivevi, e relegandoti in un fazzolettino di terra fra miseria e povertà, in base al fatto che anticamente era la terra di un David che nemmeno conosci, o riconosci, e che in qualche modo il mondo deve pagare pegno all’Olocausto (terribile, intendiamoci, ma finito, passato; è ora di guardare al futuro e soprattutto di non ripeterlo), beh, non è un fatto così normale.
Tra l’altro, a me sembra, in chiave psicologica (anche la storia è fatta di psiche, non solo di azioni), che il popolo ebraioc stia ripetendo uno schema coatto di cui è piena la letteratura psicoanalitica: quando subiamo qualcosa, siamo tentati di farlo scontare, poi, a qualcun altro, simbolo e ombra in cui proiettiamo ciò che abbiamo vissuto.
Accade non solo allo stuprato che diventa stupratore, non solo all’individuo, ma a tutti, anche ai gruppi, alle comunità, ai paesi.
Spesso non ne siamo nemmeno consapevoli, è un processo inconscio travestito da lumi e ragioni.
E a me pare, onestamente, che gli ebrei facciano ANCHE un gioco proiettivo in cui un popolo paga per tutti.
Del resto, i palestinesi hanno i loro torti.
Però è facile giudicare dai nostri rassicuranti (beh, quest’anno forse un po’ meno) orticelli protetti. Ma se qualcuno invadesse la nostra terra in nome di un Dio che non conosciamo, se "pretendesse", se riducesse in minoranza, allora che faremmo? Che faremmo per i nostri figli?
Io non me la sento di stare né dall’una né dall’altra parte. Dico solo uan cosa: non accetto che un Nobel per la pace dica che una lezione di guerra fa bene. Per una volta ci vorrebbe davvero Staffelli la consegna immediata di un Tapiro gigante.
Io non lo accetto.
Gli errori stanno da entrambe le parti, ma c’è stata un’invasione, anni fa. E non possiamo chiudere gli occhi. L’abbiamo anche spinta, protetta, per tappare le voci delle nostre coscienze ancora fresche di Olocausto. Ma, ripeto, il tempo passa e gli errori vanno sanati, non resi eterni da un’agonia prolungata.
Cerco di tenermi – con prudenza e saggezza – sul fragile confine di questo dramma mondiale (perchè riguarda tutti noi, tutti) vedendo di volta in volta il rimbalzare di errori, in un torneo di ping pong in cui al posto della pallina si tirano bombe.
Al premio Nobel vorrei comunque riportare i commenti del parroco di Gaza, Manwel Musallam, intervistato ieri su Repubblica: "A ogni boato i bambini scoppiano in un pianto disperato e non smettono più. Non importa quanto i genitori li stringano forte. Già due bambini sono morti di paura. Uno di 12 anni aveva appena visto bombardare una casa. L’altro aveva 16 anni e ha sentito gli aerei che sganciavano missili sulla sua testa. I ragazzi riprendono a fare la pipì a letto. Queste azioni di guerra poi distruggono la figura del padre, che dovrebbe proteggere e accudire e invece è impotente. Si può essere certi che da grandi questi bambini cercheranno un’altra figura di riferimwento dall’apparenza forte. Hamas, o un qualunque movimento estremista".
Che Sharon rifletta e magari ci ridia il suo Nobel.
Quanto ai morti, nessun morto conta o pesa di più. I morti sono morti. Anche nello Stato ebraico si contano i lutti, si convive con il terrore.
Hanno perso tutti, ebrei e palestinesi.
Ma mi viene sempre in mente la frase del Talmud tanto amata dal popolo ebraico: "Chi salva una vita salva il mondo intero". Sì, ma allora chi uccide una vita non uccide forse il mondo intero?
PULIZIA DELLA MENTE?
Sfogliando recentemente il Venerdì di Repubblica scopro che Madonna Ossi di Seppia (Montale, perdonami il prestito) ha ingaggiato un cleansing expert di New York per liberarsi di tutti gli oggetti che le ricordavano l’ex, Guy Ritchie.
Cleansing expert? Adesso abbiamo pure bisogno di una balia per disfarci degli oggetti. Fantastico.
Già già, abbiamo il consulente per lo shopping, quando compriamo, e il "mondezzaro" che ci soccorre quando dobbiamo fare le pulizie di Pasqua. Di fatto il cleansing expert è solo un nome altisonante per definire questa specie di spazzino domestico.
Insomma, da soli non siamo più capaci di fare niente. Neanche di gettar via quattro ricodi imbalsamati che, se ci fanno soffrire, sono comunque sopportabili mentre li scortiamo nella traiettoria verso il macero.
Tra l’altro il cleansing expert serve a far pulizia di tutto ciò che nel "soggetto" potrebbe evocare i ricordi di ciò che va dimenticato.
Un fatto che mi riporta alla mente un bellissimo film inglese, Eternal sunshine on a spotless mind, dall’infelice traduzione – nel titolo – italiana: Se mi lasci ti cancello ( il solito vizio da commediola pecoreccia).
Lui si rivolge a dei tizi per cancellare dalla sua memoria ogni traccia di lei. Il film è surreale, avvolgente, denso di ironia e malinconia. La sceneggiatura si è guadagnata un meritatissimo Oscar.
Ma si trattava – pensavo – di fantasia, di un’opera immaginifica bella quanto inquietante (a un certo punto lui cambia idea e insieme a lei cerca di nascondersi nei luoghi della memoria, incalzato dalla macchina cancellatutto che man mano li scova).
Ma, come sempre, arriva la realtà e caccia la fantasia, sostituendola.
Infatti, orrore e raccapriccio, il cleansing expert è un depuratore della mente attraverso la sottrazione dei ricordi materiali che circondano il cliente.
Magari bastasse liberarsi di un oggetto per cancellare un sentimento, una presenza.
A meno che non si tratti di amori ma di calessi, di infantili capricci travestiti a uso e consumo dei bisogni momentanei.
Questa sorta di "yoga commerciale" in cui la mente viene ripulita da una sorta di efficientissima colf mi fa venire i brividi.
Stiamo diventando una generazione di incapaci. Incapaci di intendere e di volere.
La vita è fatta di scelte, di dolori, di ostacoli. E non possiamo pagare qualcuno che spazzi via tutto (letteralmente) al posto nostro.
Se liberarsi esternamente di un ricordo fa male, si fa lo stesso. Da soli. Sulla propria pelle.
Questa mania di pagare balie, badanti, faccendieri domestici che si occupano anche dei sentimenti e delle emozioni sta subendo una sgradevole accelerazione.
Fra poco avremo perfino il FattoNatale, che non è un tossico ma un tizio che va in giro a comprare i regali per noi (detto in camera caritatis, qui si tratta davvero di una lagna di proporzioni bibliche, la tarantella di pensierini e pensieroni – ma quanto pensa, la gente, a Natale? – uccide chiunque).
Insomma, tutto pronto e confezionato per noi. Basta sborsare soldini.
Chissà se Madonna adesso è contenta. Voilà, il suo mondezzaro di fiducia ha risolto nodi noiosi per lei.
Peccato che dentro, negli anfratti di cuore e cervello, i fatti e le persone sfuggano (come i due protagonisti del film) alla nostra caccia alle balene, in cui arpioniamo ciò che ci fa male tentando di ucciderlo all’istante.
Il canto di certi giganti del mare, dei nostri mari interiori, è sempre più forte.
Perchè è misterioso. Perché è segreto. Perché canta anche il dolore.
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