SIAMO TUTTI SCRETTORI?
Stamani, sfogliando Epolis, mi sono imbattuta in un buffo nelogismo: "screttori". Cioè, lettori e scrittori.
Nell’articolo – umoristico – si parlava di internet e di come questo mezzo abbia portato tutti a scrivere e leggere di più.
Quanto allo scrivere di più, sono d’accordo. Sul leggere di più nutro qualche perplessità. Sicuramente leggiamo di più, non so se leggiamo… "meglio".
La quantità non corrisponde alla qualità. Mai.
E la qualità delle letture oggi rischia di crollare davanti a una bulimia informativa ( e non solo) che ci fa saltellare qua e là, come cavallette impazzite.
Certo è che oggi scriviamo tutti di più. Per la facilità di un click, di un intervento su un social network, dell’aperura di un blog, dell’invio di una email..
Quanta fatica, una volta, scrivere in "bella copia" la nostra brava lettera da spedire (io personalmente non l’ho mai fatto. Le mie lettere sembravano delle macchie di Rorschach ma non sono mai riuscita a fare due copie, la "brutta" e la "bella". Colpa del mio ozio calligrafico.
Oggi invece il mouse, la tastiera e il web ci aiutano con rapidità e facilità.
E tuttavia dobbiamo stare attenti alla superficialità, alla frenesia del "dire" qualcosa a tutti i costi.
Come accade in Facebook, che sta spopolando. Ma leggere o scrivere frasi come "Pinca Palla" si sta facendo un bagno profumato oppure "Ginetto" sente il bisogno di prendere un po’ d’aria e poi va a letto" fa di noi bravi screttori? Bah.
Meglio stare zitti, a volte. E guardarsi un bel film…
LA NOTTE DI ELUANA
Avevo deciso di non scrivere nulla. Per pudore, per rispetto, per amore dei silenzi su verità dolorose, più grandi di me.
Ma non ce la faccio più. Non ce la faccio più ad assistere, impotente, alla strumentalizzazione di questa morte, diventata un caso politico e un’occasione di conflitto fra istituzioni.
Non ne posso più dei cortei, né di quelli pro né di quelli contro la decisione cruciale.
Non ne posso più di questi avvoltoi mediatici che piombano su una preda ancora calda per farne organi da macello.
Non ne posso più delle Chiese che invadono la politica né della politica che invade decisioni personali, private.
Non ne posso più dei diritti violati, stuprati per consolidare le varie forme del potere.
Non ne posso più di vedere un padre maciullato dai giochi politici, che ancora stanotte non sa, non sa se riuscirà a interrompere lo strazio di sua figlia.
Non siamo nessuno, per decidere della vita e della morte. Ma non possiamo non farci domande sulle stronzate che sentiamo raccontare in questi giorni, né ignorare i quesiti che infrangono le acque tranquille delle nostre coscienze.
Stasera la Cei dichiarava che Eluana viene uccisa perché non "corrisponde ai criteri di efficienza della nostra società". Ah sì? E una vita in stato vegetale sarebbe un criterio di non efficienza? Stronzate. Vero, la nostra è una società ammalata di produttività, affogata nella melma dorata di vite dinamiche, belle e socialmente perfette, nel "produco dunque sono-anzi appaio", ma qui non si tratta di efficienza, qui si tratta di una vita non vita sostenuta artificialmente.
Eh già, perché non si dice mai abbastanza quanto l’accanimento terapeutico sia una delle piaghe del nostro modernissimo secolo. Se questa ragazza, diventata donna nella notte della sua gioventù, non fosse stata attaccata agli strumenti che la tengono in vita attraverso un nutrimento artificiale sarebbe già morta, morta tanto tempo fa.
E dove sarebbe la tanto invocata volontà divina? Non è forse l’uomo che strappa a Dio le decisioni tenendo in vita come Zombie uomini e donne in coma, oppure ridotti al lumicino da malattie estreme, incurabili, come quella che si mangiava la vita di Welby? Come quella che si è già presa la vita di Eluana?
Non è forse vero che il tanto citato – questi giorni – papa Wojtyla a un certo punto ha deciso di non tornare più in ospedale per essere lasciato nella sua stanza, chiedendo di essere lasciato in pace per "tornare alla casa di Dio"?
Avrebbe potuto essere "curato" ancora, come oggi, con ostinazione, cotinua a fare la scienza, che considera la morte un oltraggio alla vita. Capisco, per la scienza dopo la morte esiste il nulla. Ma la Chiesa? Continua a parlare di diritto alla vita. Ma il diritto alla morte?? Non è forse la morte il passaggio fatale, il momento supremo che ci porta verso la luce? C’è una sacralità della vita, è vero. Ma esiste anche la sacralità della morte. E sì, mi spiace, ma penso che si possa credere in Dio e allo stesso tempo appoggiare questo padre che vuole interrompere una finzione. "E’ scomoda", dice Berlusconi insultandolo. Ignorante. Cafone. Ma come ti permetti? Come fai a intrometterti in una realtà custodita nel segreto della sofferenza di un padre che da anni assiste alla vita artificiale di un essere umano tasformato in una larva? Possiamo solo avvicinarci in punta di piedi, con tremore e rispetto, davanti a questo segreto.
Non sa, Berlusconi, con i suoi bei figli da copertina, quanto possa essere sofferta una decisione del genere.
Solo un’esperienza diretta ti sbatte in faccia tutta la crudeltà di un’esistenza drammatica, dedicata a ciò che resta di un figlio. Senza la pace sinistra di chi non c’è più per davvero. Ma lei c’è, Eluana c’è, e c’è solo grazie alla nostra tecnologia, alle nostre macchine, a una società che non si arrende davanti alla morte.
E a volte invece bisogna lasciar andare. E, soprattutto, non intromettersi.
Se si parla di rispetto armonioso della natura delle cose, allora bisogna mollare la presa.
O, quantomeno, lasciare ad altri il diritto di farlo.
Io, io vorrei che con me lo facessero. Vorrei volare via, vorrei tornare a casa.
E sono certa che chi mi conosce saprebbe che fare. Il cuore di un genitore, per quanto pieno di errori, di limiti umani, di meschinità, conosce il mistero della vita e della morte di un figlio. Perchè un figlio è un figlio.
E vedere queste arene politiche mi disgusta. Mi fa arrabbiare.
Scavalchiamo perfino una Costituzione pur di mettere le mani sulla vita altrui.
Sacralità della vita. Giusto, giustissimo. E la sacralità della morte?
Esiste una dignità del vivere ma anche una dignità del morire. E la Chiesa che fa? Tratta la morte come una sconfitta, quando i casi diventano scomodi. Perchè un suicidio per un amore finito non è paragonabile alla richiesta di un Piergiorgio Welby, o di un Beppe Englaro, di interrompere vite appese alle macchine.
D’accordo, non è Eluana a scegliere. E’ il padre a farlo per lei. E’ lui che se assume il peso "karmico".
Eluana non parla. Non sente. Non ascolta. Non decide. E’ un cuore che batte perchè aghi e sondini infilano acqua e sostanze nutrienti in un corpo.
Piantiamola con questo can can davanti a un padre che merita silenzio e rispetto.
Davanti a una scelta dolorosissima, lancinante, pesante come il mondo stesso.
Quest’uomo dovrebbe essere lasciato stare.
E tutti, laici e religiosi, politici e sacerdoti, dovrebbero fare un passo indietro, abbandonare il rumore per ascoltare il silenzio. Una donna già morta muore di nuovo, e un padre sceglie di lasciarla andare via, compiendo l’estremo gesto.
Sacralità della vita. Sì, ma c’è anche la sacralità della morte.
Lo sapevano bene gli indiani d’America, con una saggezza che abbiamo dimenticato del tutto. Se ne andavano in punta di piedi, sapendo che ogni giornata poteva essere "una buona giornata per morire".
Da noi no, non si può morire. Si può solo vivere, a tutti i costi. Anche a costo della vita stessa.
LIBRERIE
On-line il nuovo numero di Silmarillon
Il dossier di questo numero:
La mia libreria
Viaggio intorno alle nostre librerie. Come sono fatte? Come scegliamo di organizzare i nostri libri? Quali sono i libri che amiamo di più?
Da quelle tradizionali a quelle on-line, come Anobii, le librerie raccontano di noi.
Perché non siamo solo que llo che mangiamo.
Siamo anche quello che leggiamo.
Un caro saluto a tutti.
E buone letture.
Panda che sparano?
Un bestseller scritto da Lynn Truss parla della punteggiatura dei testi. Il titolo è: Eats, shoots and leaves. Ne parla Annamaria testa nel suo piacevole: "Le vie del senso".
Fa riferimento alla storia di un panda che entra in un bar, mangia (eats) una brioche, spara (shoots) in aria e se ne va (leaves) per colpa di una virgola di troppo alla voce “panda” del dizionario.
Infatti ogni panda “eats shoots and leaves”, senza virgole. Cioè “mangia germogli e foglie”.
L’importanza della punteggiatura è fondamentale. Cambia completamente il significato della frase e questo esempio ne è una prova eloquente.
PAURE
Non mi va di partecipare al dibattito sulla "questione omosessuale" scatenata, fra gli altri, dal film "Milk" di Gus Van Sant.
Non mi va di entrare sulle questioni sessuali delle persone.
Non mi piace l’enfasi eccessiva data dai postumi dell’Isola con la vittoria di Luxuria che ora imperversa ovunque (simpatica ma troppo presenzialista attualmente).
Non condivido le tensioni eccessive che ruotano intorno a questi temi.
Ma mi è piaciuto, e tantissimo, questo film.
Perchè malgrado l’intento "politico" il film racconta una storia universale, la storia di un uomo che si batte per i suoi diritti e quelli degli omosessuali come lui in un periodo in cui questi diritti erano negati (a differenza di oggi).
C’è un accento sul "noi", nella sua battaglia. Un afflato corale, un impeto comunitario condivisibil, qualunque sia il "colore" del nostro sesso.
A differenza dell’individualismo che ormai tutto ha soppiantato, perfino alcune battaglie che dovrebbero essere "corali" e che nascondono invece una sfilza di eghi pompati e separati, camuffati dietro "cartelli" vari.
ll film è bello, dicevo.
E’ sobrio, mai volgare, mai "eccessivo", grazie anche al talento scintillante di Sean Penn.
Una scena – semplice semplice – mi ha ricordato una certa verità.
Davanti alla lettera anonima che contiene minacce di morte, Penn/Milk risponde appiccandola sul frigorifero, a mo’ di post, di memento mori. Se la mettesse in un cassetto si ingigantirebbe fino a fare paura, mentre così, alla luce di ogni giorno, non spaventa più. Sta lì, sul frigo, leggibile, affrontabile.
In effetti le nostre paure funzionano proprio così. Più le spostiamo, più le infiliamo nel buio dei nostri cassetti, più ci spaventano, prosperando a dismisura. Diventano l’ombra, quell’ombra deformata dalla ingannevole luce lunare (come mostra anche una sapiente carta dei Tarocchi) in cui le illusioni di maya si trasformano realtà.
In effetti dovremmo tutti appendere sul firgorifero ciò che ci spaventa. Dovremmo farci i conti, ogni giorno, finché la confidenza non prende il posto dello spavento.
Anche perché non si scappa, dalla paura.
La si può rimuovere, relegare nei labirinti inconsci eppure lei, tutta spiegazzata ma più aggressiva che mai, riemergerà, trovando il suo filo di Arianna.
Insomma, la scena in questione non era affatto stupida. Anzi, suggeriva una opportuna riflessione sui cassetti e sui frigoriferi di tutti noi.
Troppi cassetti, in effetti. E pochi…frigoriferi.
WHAT’S IN A NAME?
Tis but thy name that is my enemy;
Thou art thyself, though not a Montague.
What’s Montague? it is nor hand, nor foot,
Nor arm, nor face, nor any other part
Belonging to a man. O, be some other name!
What’s in a name? that which we call a rose
By any other name would smell as sweet;
So Romeo would, were he not Romeo call’d,
Retain that dear perfection which he owes
Without that title.
Non è il tuo nome il mio nemico
sei tu te stesso, anche se non un Montecchi.
Cos’è un Montecchi? Non è né mano, né piede,
non è braccio né faccia, né ogni altra parte
del corpo di un uomo. Oh, sii un altro nome!
Che cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo una rosa
con qualsiasi altro nome avrebbe comunque un profumo tanto dolce.
Così anche Romeo: se non fosse chiamato Romeo
manterrebbe quella cara perfezione che gli appartiene
senza quel titolo.
Romeo e Giulietta, Shakespeare
“What’ s in a name”? Si chiedeva Shakespeare in Romeo e Giulietta.
Cosa c’è in un nome? Cos’è un nome?
Un nome racchiude l’essenza che, malgrado sia immutabile, proprio da questo nome viene incarnata per vivere la sua “storia”.
Infatti furono proprio i cognomi di Romeo e Giulietta, Montecchi e Capuleti, a determinarne l’amaro destino.
La consapevolezza della parola, del nome, è di vitale importanza.
Chiamare le cose con il giusto nome.
Non a caso negli antichi miti aborigeni il mondo è stato creato attraverso un canto le cui parole indicavano le cose, che in questo modo si anima-vano.
Il nome è potere.
Non possiamo essere approssimativi, indicare qualcosa senza cercare la massima precisione. Se si lavora con le parole, bisogna conoscerne la forza.
Trovare sempre il nome più adatto non è facile.
Per questo a volte ci soccorrono i dizionari di sinonimi e contrari, di prezioso ausilio.
Ma la parola che nasce dall’ispirazione è spesso quella più giusta.
Più tardi, scrivendo, confronteremo, cercheremo, limeremo, sposteremo.
Ma le parole vanno lasciate libere di fluire in ogni processo creativo.
Un po’ come se fossimo noi, gli antichi aborigeni australiani alle prese con le loro “Vie dei Canti” di chatwiniana memoria.
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