MAGIC ITALY
Non mi occupo di polica ma di comunicazione. E devo dire che, malgrado tutte le sacrosante critiche al logo varato dal Pdl e presentato dalla Brambilla, non riesco a non pensare che in fondo si tratta di un logo…"onesto".
Onesto, sì. Perché rispecchia perfettamente quell’Italia oleosa e patinata che smerciamo all’estero. Quella delle cartoline, degli "spaghetti pizza e mamma mia", delle tovaglie a quadrettoni e dei mandolini strimpellati per gli stranieri.
L’Italia "estera" delle "fettucine Alfredo" ("who’s this Alfredo?" domandavo a tutti disperata, quando vivevo in America) e del "ragù with meatballs" (laddove le meatballs sono polpettone da mezzo kilo), della pasta scotta e delle salse di ketch up rovesciate sopra con disinvoltura.
L’Italia della gestualità estrema, ridicola, quela dei provoloni che acchiappano le straniere per strada…
Insomma, l’immagine posticcia che tanto piace ai paesi stranieri. Quell’immagine turistica e massificata, come quella delle statuine che affollano i negozi di Via della Conciliazione, come quella dei Centurioni davanti al Colosseo (prego – cheese – sorridere please)…
In fondo, a Berlusconi, uomo tipico della macchia mediterranea, vero "caratterista" della commediola italiana più spicciola, non dispiace questo logo così banale e scontato, come le sue comunicazioni.
LUCY IN THE SKY WITH DINNERS
Mentre Giulia beve la sua Coca Coca a casa della nonnina e gioca a carte con la sua famiglia, in giro per il mondo c’è gente che cena per aria, da Dubai a Tel Aviv.
Si tratta dell’ultima trovata "celeste" trovata in fatto di mode. E’ così trendy, ora, partecipare a una di queste lussuose cene che stanno riscuotendo un successone, alla faccia della crisi.
Personalmente, non vedo che piacere ci possa essere nell’essere issata insieme a una marmaglia elegante-vestita su una piattaforma, legata a una sedia (già, perché chi casca diventa una polpetta…non commestibile), a tavola con forchette e coltelli ben ancorati al tavolone, e tirata su a 50 metri di altezza.
Eppure, "fa fico".
Questa nuova, bizzarra trovata sta spopolando. Basta visitare il sito ufficiale spulciando menù, chef volanti, aereo-video e fotografie.
Bah. Boh. E ancora bah.
Semplicemente, trovo cretino spendere 15.00 euro – questo il prezzo dell’"altissima, purissima, costosissima" cena in alta quota. Una cena durante la quale non puoi nemmeno muoverti (ma come si fa a fare pipì? Si apre una botola sotto la sedia?), inchiodata come non capita neanche a quei noiosissimi raduni gastronomici per comunioni, matrimoni, anniversari e quant’altro.
Non pagherei mai 15.000 euro per stare incollata alla sedia. Manco fossi un politico!
A questo punto, preferisco quella "falsa" di Giulia. Io vado a mangiare da sua nonna. E voi?
LA PUBBLICITA’ AI TEMPI DELLA CRISI
Piccolo spazio pubblicità.
Ai tempi della crisi, si sceglie volentieri di menzionarla. E’ un esorcismo, un citare la parola incriminata per toglierle potere, per eliminare lo spauracchio, il bau bau, l’orco nero del nostro consumismo.
A me, personalmente, questa scelta non piace. Perlomeno, finora non ho trovato un modo elegante, efficace, nell’affrontarla inserendola negli spot. Che a volte finiscono per essere ancora più "falsi", più lontani dalla realtà, di quelle Borse che all’improvviso hanno rivelato la facciata bugiarda dietro la tracotanza, the dark side of the banks.
Stucchevole, posticcio, irritante. Mi riferisco allo spot della Coca Cola, quello che spara in scena Giulia, eroina post-consumista che alle vacanze in un resort preferisce la casa della nonna, alla pizza il sushi, al salame il caviale, al ristorante costoso un ragù fatto in casa…
Pare quasi un ritorno alla vita frugale, alle smarrite identità comunitarie. Un inno alla semplicità, al "fai da te fai per tre", ai valori tradizionali che si contrappongono a questa modernità così vuota, plastificata. Peccato che poi Giulia si tracanni litri di Coca Cola.
La prima volta che ho visto la pubblicità, che all’inizio mi aveva divertito, incuriosito (i disegni sono molto carini), alla comparsa ldella Coca Cola – sorpresa sorpresa! – sono rimasta basita. E mi sono sentita agguantare per i fondelli.
Non prendere, agguantare.
Perché davvero la Coca Cola è invece il marchio imperituro del consumismo, dell’omologazione, di tutto ciò che di global esiste al mondo. E’ perfino riuscita a venderci la sua immagine di Babbo Natale, che da allora – e per sempre, nei secoli dei secoli, amen – sarà identificato con il signore panciuto e rossovestito che gironzola nei nostri cieli tra renne e strenne. E che, ci scommettiamo, ha contribuito a tanti natali spendaccioni (a proposito: Giulia, a Natale che fai? vai a fare il cenone alla Caritas?).
Sento puzza di presa in giro. Sul serio, è ridicolo che una simile pubblicità sia propinata proprio dalla Coca Cola. E vada per le ricerche della felicità (molto diverse da quella del film di Muccino) a suon di lattine stappate, ma quest’ultima trovata pubblicitaria è veramente fuori luogo. Esageratamente fuori luogo.
Io mi sento presa in giro. Non c’è male, come "restyling" pubblicitario: dalle evocazioni di esistenze luculliane ed epicuree a una versione "saturnia", austera e rigorosa.
Beh, io di Coca Cola non ne bevo molta. Ma adesso ridurrò il suo consumo. Perchè voglio seguire i consigli di Giulia: invece di comprare lattine (che poi finiscono per inquinare) bevo solo acqua di rubinetto.
Giusto, Giulia?
COPY E INCOLLA
Il mestiere del copy ha a che fare con la creatività, l’inatteso, "l’urto" che sbalza fuori dal rettilineo di uno schema prevedibile attraberso l’ingegno.
Ma, più che di generazione dei copy, parlerei, a volte, di generazione del "copy e incolla".
La grande diffusione di internet porta inevitabilmente con sé il risvolto della medaglia: ogni cosa nuova, creativa, viene immediatamente copiata, riprodotta in serie, proprio come nelle opere di quello "squinternato" – ma molto geniale – Andy Wharol.
E il fenomeno non riguarda solo i copy che invece di inventare…copyano, appunto.
Riguarda chiunque.
E riguarda non solo la scrittura ma la nascita di buone idee, di cose nuove, mai viste prima (le "mucche viola", laddove il colore non ha nulla a che fare con la mucca di Milka).
Francamente, trovo irritante questo copia&incolla che impazza. Ma c’è poco da fare.
Anni fa, fui fra i pionieri dei corsi per redattori in case editrici. Poi, c’è stata una moltiplicazione che ha quasi del miracoloso: "pane e pesci" in tutto lo stivale, da Bolzano a Catania.
Una vera eruzione di corsi simili, che non aggiungevano nulla all’originale. Oggi ne sorrido, ma all’epoca mi arrabbiai molto perché non mi consolava il fatto che la mia idea fosse stata copiata da tutti.
In fondo, succede sempre così, quando si ha una buona idea.
La cosa divertente è che ancora oggi vedo in giro, a proposito di questi corsi (e affini) una soluzione che all’epoca (parlo del 2000) era davvero innovativa: sul sito dell’agenzia per la quale lavoravo, dirigendo anche i corsi in questione, pubblicai il nome e cognome degli stagisti di fine corso, e la loro destinazione. Non lo faceva nessuno, perlomeno non nel nostro contesto (e finora non mi è giunta notizia di nessun altro contesto che lo abbia fatto in precedenza).
Oggi, tutti, dico tutti, quelli che propongono corsi analoghi hanno sfruttato questo tipo di comunicazione.
Si tratta solo di un’idea. Ma è questo il punto: mancano le idee, oggi. E’ come avere a disposizione tante pietanze ma non saperle cucinare. Gli ingredienti sono lì, hanno solo bisogno di essere riuniti, cotti a puntino. Ma tu continui a vedere solo pezzettini isolati.
Quando ero più "piccolina", me la prendevo molto per gli eserciti di copy (mi ricordo di una mia stagista che all’improvviso se ne andò facendo la sua agenzia; peccato che copiasse ogni pagina del sito che ogni volta aggiornavo: stessi termini, stessi concetti, stessi titoli); oggi ho imparato a fregarmene.
Peccato, però, che ci siano molti "spacciatori di idee" in circolazione.
E che una certa omologazione (sociale, culturale, plotica,ecc.) abbia dato vita a un deserto privo di linfa.
Per fortuna, parallelamente esiste un’altro universo in cui pullula la creatività. Nel pensare, nel progettare, nello scrivere, nel fare.
Mosche bianche. Anzi, mucche viola.
IL PROFUMO DELLA ROSA
Da sempre il profumo di certi fiori, a primavera, ha su di me l’effetto di una madeleine proustiana. Risveglia memorie sopite, mi trasporta in sospensioni del tempo e dello spazio, in cui per un istante cessa ogni ansia, ogni divenire, ogni distacco.
Fra questi magici profumi, prediligo quello del gelsomino, del glicine, e della rosa.
Lo sa bene chi mi conosce, ed è costretto a subirsi i tuffi del mio naso nei soffici fiori. Li annuso con voluttà, ci ficco le narici ovunque mi trovi (mi fermo perfino quando sono in motorino: la vista di un glicine fiorito mi attira come un’ape verso il miele).
I meravigliosi, generosi ofori di queste piante sono per me alchimie del tempo: tutto si dilata, annuncia promesse soavi, culla memorie indistinte eppure persistenti.
Tutto è possibile, sembra sussurrarmi il profumo del fiore mentre abbraccia i miei sensi in festa.
E ogni dove, avanti e indietro nel tempo, in quel momento ha la stessa arcana transitorietà di un tramonto fiammingo.
Sì, qui profumi sono come luoghi di passaggio per altrove lontani, sono nuvole odorose che galleggiano lasciandosi andare con dolcezza alla deriva, senza direzioni né condizioni.
Quest’anno, finalmente, ho potuto inaugurare il mio nuovo terrazzo con queste piante speciali.
E, quando mi sono trovata a girare in cerca di rose, mi sono accorta, con stupore, di quanto sia difficile trovare esemplari davvero profumati.
Ci sono rose bellissime, di forme e colori seducenti: grandi petali gialli, bianchi, arancioni, fiori enormi o piccini, arbusti rampicanti o alberelli.
Ma il profumo non le abita tutte, le rose. Alcune sono meravigliose eppure completamente inodori.
E non c’è rosa se non c’è profumo. Almeno per me. Sono cresciuta giocando nel giardino delle vecchie zie, pieno di rose giganti che ogni anno ci regalavano i loro aromi ambrati, fruttati, speziati…
Ricordo come fosse oggi lo scalpiccio dei miei piedini durante i "mosca cieca" intorno alle siepi di quel giardino incantato.
E oggi, oggi che sono grande, nelle rose ritrovo anche i profumi della mia infanzia, con quel gusto di borotalco appena spruzzato.
Ma non è stato facile trovare rose profumate. A Roma esiste un posto straordinario, il roseto comunale.
Fu uno dei primi posti che visitai, quando venni ad abitare qui. Ci sono tornata qualche giorno fa, ad ammirare le rose in piena esplosione. Le ho conosciuto tutte attraverso gli occhi e il naso (detesto le persone che, non viste, le violano strappando dei petali per profumarsi le mani), perdendomi nel prato delle meraviglie.
Eppure anche lì, gli odori a volte erano assenti.
E ho pensato a quanti fiori ci seducono come sirene attraverso le geometrie, i cromatismi, gli slanci verticali…
Ma per me, di nuovo, non esiste fiore senza profumo.
Sarà perché "sento" parecchio il mondo attraverso il naso.
E’ un conoscere antico che in parte abbiamo dimenticato.
Ecco, quei profumi sono la mia madeleine. Mi portano via, in una sorta di vertigine atemporale. Una vertigine che ha il sapore di mondi lontani. Quasi arcaici, primitivi.
Non posso salpare verso quei mondi davanti a una rosa senza odore.
LE COPERTE E LE SCOPERTE
Ho sempre amato le strisce dei Peanuts.
Charlie Brown, Lucy, Linus, Snoopy tra un divertimento e l’altro mostrano una realtà condivisa, fatta di ansie, idiosincrasie, piccole fragilità. Basta pensare alla famosa coperta di Linus (e a tutte le nostre), diventata ormai un riferimento indispensabile quando parliamo delle cucce che ci costruiamo per esorcizzare la realtà. A tal propsito mio nipote Dede, quando era più piccolo, si è trascinato dietro per anni una federa di cuscino. Blu, tutta rovinata, "in piedi" per la sporcizia (guai a sottrargliela per farla finire in lavatrice), era il suo totem, il suo flauto magico, la sua copertina inseparabile. Quando si ostinava, se la portava fuori con sé, passeggiando con questa federa rovinata, strappata, unta e bisunta (mia madre e mia sorella si vergognavano fino al midollo). Quella federa lui la chiamava " pizzo bello". Già, pizzo bello. Perchè ogni sera setacciava i quattro angoli in quanto ce n’era uno "migliore": il pizzo bello, appunto. Questo angolo speciale era dotato di virtù magiche e terapeutiche, infatti se ti facevi male lui ti strusciava amorevolmente il pizzo bello sulla zona dolorante. E passava il tempo a giocherellare con l’angolo della federa, passandoselo tra il pollice e l’indice con un movimento preciso, ripetuto. Ci si addormentava, con il pizzo bello, e ci si svegliava. Lo cercava durante il giorno, e se lo portava perfino a spasso. Una volta mia madre, esasperata, lo sottrasse per lavarlo, facendogli trovare una bella federa blu nuova di zecca, con tutti i pizzi perfetti (il pizzo bello di Dede era scucito, sgualcito, rovinato dall’usura). Ma lui, dopo un attentissimo esame al tatto, pronunciò le parole fatidiche: "Questo non è pizzo bello".
Un dramma, finchè il pizzo bello non uscì dalla lavatrice (credo fu asciugato con un phon per accelerare la restituzione).
Adesso dede è cresciuto. Non ha più pizzi, né ciucci. Non ricordo come superò il trauma di questa separazione (io vivo a Roma, loro a Senigallia). Ma ce la fece. Tutti, dobbiamo farcela: dobbiamo separarci dalle nostre coperte infantili. peccato che poi ne troviamo altre. Troviamo plaid di dimensioni matrimoniali, confortevoli piumini d’oca, pregiati tessuti estivi. Insomma, le coperte di Linus scortano anche i nostri giorni adulti. Sono i nostri biglietti per un mondo meno insidioso, i nostri esorcismi, la "messa in fiaba" delle paure.
Ogni tanto dovremmo imparare a stare senza coperte. Ma non è facile, nudi, esposti ai venti delle quattro direzioni.
I bambini, con loro arcano intuito, sanno da subito che la vita non sarà facile, che il loro piccolo, transitorio Eden ha una scadenza. E si attrezzano, da subito.
Oggi Dede è un bambino di quasi dieci anni che ti racconta i suoi progressi in inglese e in matematica. Ma non ha mai dimenticato pizzo bello. E forse ne troverà altri, di pizzi.
C’è un libro magnifico, "Su con la vita Charlie Brown!" in cui Abraham J. Twerski, insigne psicologo di fama mondiale, narra i disagi quotidiani scortato dalle strisce dei Peanuts.
Ve lo consiglio: è un ottimo antidoto alle fatiche della vita adulta. I nostri drammi piccoli e grandi attraverso il sorriso vengono smascherati, riconosciuti, accettati. Coperte e scoperte, insomma. Rese vive dalla grazia e dall’intelligenza di Schulz.
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