PENSIERO
VUOTI E COLORI
Tutto triste, il camaleonte si rese conto che, per conoscere il suo vero colore, doveva posarsi sul vuoto» (A. Jodorowsky)
Dovremmo tutti posarci sul vuoto, per conoscerci davvero. Invece, come camaleonti, indossiamo i colori adatti alle situazioni; colori spesso sintetici, tessuti artificiali, hig-tec…Lontani, lontanissimi dalla nostra essenza.
E viviamo così, come arlecchini. Come tanti Zelig pronti a modificarsi in base al contesto, come un blob gigantesco che assume ogni forma che incontra.
Giocolieri dell’artificio, maestri della recitazione, artisti del colore edulcorato (un po’ come quegli EC245blabla che troviamo negli edulcoranti), avanziamo senza mai conoscerci veramente.
Forse un giorno, come accade al camaleonte, ci accorgeremo che per vedere davvero chi siamo dobbiamo…saltare nel vuoto. Perdere ogni colore, ogni piuma di pavone e ogni belletto. E’ solo nel vuoto che misureremo la nostra impalpabile essenza. Quella che farà svanire – come in un gioco di magia invertito - tutte le illusioni create. Rimarrà solo una coraggiosa nudità. Senza colori, forse. Ma piena di meravigliose – e terribili – scoperte.
Intanto viviamo, e mangiamo, e facciamo l’amore, e lavoriamo, e alleviamo figli, e diventiamo nonni, e dormiamo, e passeggiamo, e…
Tutti addobbati con i nostri colori di circostanza, come tanti alberelli di natale accesi nelle città.
Alcuni di noi sono più monocromatici, altri amano una moltitudine di colori. Ma la sostanza dell’artificio non cambia.
Come pittori, usiamo i cromatismi che più ci piacciono, o più ci servono. Lo facciamo per difenderci, come il camaleonte, o per piacere, per dominare, per fuggire…
Intanto il vuoto ci aspetta. Ma ci vuole troppo coraggio per fare quel salto.
LA VERA DEMOCRAZIA
L’altro giorno, ferma a un semaforo nel solito can-can epilettico delle giornate romane, mi sono imbattuta in un carro funebre. Dietro, la bara. Dentro, sui sedili, quattro uomi che ridacchiavano e scherzavano. E ho pensato che la vita è proprio così, qualcuno ride mentre qualcun altro muore. Certo, il vederlo insieme, nella stessa auto, è stato un po’ "forte". La macchina di lì a poco sarebbe arrivata in una casa piena di gente in lacrime, in un giorno di lutto, di assenze, di malinconie. Per loro, invece, era una giornata come tante. Tante giornate passate a portare bare, a vedere facce stravolte, a vestire salme e sigillare bare. Già, perchè in fondo l’ultima cosa del mondo che un morto "vede" solo loro, i signori delle onoranze funebri. L’ultima finestra sul mondo, prima che la bara sia chiusa per sempre, si affaccia su uomini sconosciuti che con perizia e distacco sistemano il coperchio che farà calare il buio.
E questi uomini si abituano, alla morte. Ci sono così abituati che trasportare una bara o cartoni di latte diventa la stessa cosa. Per forza. Altrimenti crepi anche tu, a vedere ogni giorno i morti e loro distrutti parenti.
Non deve essere facile, comunque. Vivere in mezzo alla morte. Ma forse ti dà anche una vera dimensione di vita, come sanno bene i tibetani con il loro bardo Todol (per loro la vita è una preparazione al morire).
Io non ce la farei, a fare questo lavoro. Mi si annoderebbe l’intestino. ma sicuro è un lavoro che non conosce crisi. Si muore, ogni giorno. Si muore tutti. E non c’è differenza di ceto sociale, di razza, di colore. L’impiegato e il politico, la massaia e la star del cinema, il postino e il manager. Tutti crepiamo. E allo stesso modo: rendiamo l’ultimo respiro a quella vita che abbiamo amato. La morte è l’unica faccenda veramente democratica, che non conosce élite e non fa distinguo. In fondo, quello di questi uomini è un lavoro sicuro. I morti muoiono. E le bare servono, e le onoranze. Anzi, il prezzo di questi servizi è anche assai esoso (ecco, qui la democrazia si incrina di nuovo, fatalmente).
Fosse per me, vorrei essere sepolta in un bosco, con una piccola lapide di marmo, o una semplice croce. Nella nuda terra, come dovrebbe essere. Quest’estate ho visitato, in montagna, un piccolo cimitero semiabbandonato. L’ultima lapide risaliva alla prima metà del Novecento. Fra muschi, edere, erbacce, quei volti antichi, ingialliti dal tempo, mi guardavano quasi bucando le fotografie. Avevano un sapore antico. E la morte sembrava più…morte. Cioè più vera, più natuarale. Oggi, nei condomini di marmo dei cimiteri moderni, fatico a sentire il respiro del sacro. Perfino il suono del silenzio perde ogni forza, lì.
Somigliano, questi cimiteri, alle nostre brutte, asfittiche città.
Per questo, in Scozia come a Praga, ho visitato cimiteri antichi, fatti di tombe e di erba.
La morte che abita questi luoghi mi dà un senso di pace. Di collegamento con un altro mondo.
Ripenso di nuovo alle facce allegre degli uomini in macchina. Forse non sono così blasfemi come sembra; in alcuni paesi la morte viene celebrata come una festa (in fondo, è anche una liberazione, per chi ci crede, e un dirigersi in luoghi di luce e d’amore).
Io non ci sono mai riuscita. Davanti a ogni caro perso per sempre mi sono distrutta, e ho odiato quegli uomini vestiti di nero che arrivavano come intrusi, asettici come mascherine ospedaliere, pronti a fare del morto una statua di cera, e della bara un sigillo perenne.
Non deve essere facile, per loro, vivere questa intrusione, essere fissati quasi con odio dagli occhi gonfi di pianto di chi circonda le bare. Ma ci si abitua, ci sia abitua. Solo che quando a morire è qualcuno che ami tutto cambia all’improvviso. Come sempre, l’esperienza diretta fa la differenza.
Forse, quel giorno non rideranno.
Perchè la morte, la grande Signora della Democrazia, non guarda in faccia nessuno. Non fa sconti. E non concede fughe.
Eh già, a volte siamo davvero tutti uguali.
BAGLIORI
Mi chiedo cosa ne facciamo di quel bagliore d’infinito che, prima o poi, tutti ci attraversa.
IN PIEDI
Ieri la lezione di yoga era basata sulla percezione dei piedi. Entusiasmante, Non facciamo mai abbastanza caso a queste piccole ma significative terminazioni che ci permettono di stare eretti, camminare…
Piccoli, grandi piedi. Sono le radici del nostro albero. A volte li strizziamo in scarpe scomode, li obblighiamo a soffocare ogni inverno finché, d’estate, tornano liberi e leggeri a volare sui sandali.
Vero oggetto di desiderio sessuale per alcuni, il piede nasconde molti segreti sulla persona. Un po’ come la mano. Ci racconta "chi è". Ditoni lunghi, armonici, affusolati o cicciotti. Piedi leggeri o pesanti, pudici o invadenti.
Averli belli è certo un lusso: nelle serate estive si decorano di lacci e pietruzze che ne esaltano le armonie.
Altri piedi, invece, sembrano davvero zampe…
Anni fa mi ruppi il mignolo del piede destro. Mi ricordo lo stupore nel notare come quella piccola striscia di pelle e carne all’estremità della mia gamba fosse necessaria nel sostenermi.Quel minuscolo mignolino aveva la forza di una montagna. Un mese stesa sul letto o a zoppicare con le stampelle, senza di lui.
Ieri, durante la lezione, abbiamo praticato un massaggio ai piedi cercandone l’ascolto. Molto interessante. Quante zone doloranti, altre piacevoli di toccare (come accade durante una seduta di riflessologia plantare), altre "dimenticate".
Poi, durante le posizioni, abbiamo cercato di mantenere la consapevolezza sul piede, invece di stare solitamente sulla testa, come accade un po’ a tutti noi.
Scendere in basso è davvero interessante.
E poi ci avvicina alla terra, quella terra da cui prendiamo energia (ricordo un tizio che parlava di macrobiotica e suggeriva di non portare scarpe di gomma in quanto isolanti, e senza scivolare nel new age alcune teorie sono davvero stimolanti).
Com’è bello, d’estate, camminare scalzi sulla riva. Di fatto, io odio ciabatte e affini, quindi anche a casa sto sempre scalza, complice il parquet. Perfino in terrazzo vado scalza (rientrando con i piedi…neri, augh).
Sì, la scarpa ci sottrae davvero qualcosa.
Tanti anni fa, un pomeriggio, ricordo che me le tolsi provando a camminare scalza nel centro storico di Senigallia, dove vivevo. Non facile sui sanpietrini. E un po’ "zozzo", certo.
Ma i piedi registravano tutto, erano attenti, presenti.
Ovviamente l’ideale è farlo sull’erba o sulla sabbia.
Io, quando posso, lo faccio.
E i miei piedini mi ringraziano.
SUPPLICA A MIA MADRE
Ieri sera, all’Auditorium, ho visto il bellissimo spettacolo Le canzoni di Pasolini. Ben fatto, leggero e profondo allo stesso tempo. E, come ogni volta, Pasolini mi sorprende per la sua straordinaria lucidità intellettuale e per il valore profetico delle sue considerazioni su una società, quella degli anni Sessanta, che aveva già in nuce gli orribili mondi di plastica a cui siamo stati consegnati, mondi che, come dice luil condannano il poeta alla solitudine per l’angoscia davanti a cose sbattute lì e mai risolte. I versi e le musiche e le canzoni erano davvero suggestivi, e mi hanno riaperto, nel cuore, quella "ferita d’amore intellettuale" che fu lui, Pasolini, negli anni in fiore della mia adolescenza. E che seguitò, sempre, a sanguinare.
Oltre ogni maturazione, lui è sempre lì, innocente e perverso, profondo e disincantato, poetico e prosaico.
Sta lì con le sue parole, i suoi versi, i suoi moniti.
E ho ritrovato, su youtube, un video con una poesia che ho sempre molto amato: Supplica a mia madre.
Narra delle radici della sua sofferenza, dell’impossibilità di amare altre donne, del dolore profondo di uno "svezzamento" interiore mai avvenuto.
Eccola:
http://www.youtube.com/watch?v=f5CFUbk8LMY
La trovo struggente e allo stesso tempo onesta, di un’onestà davvero feroce.
Bello, il montaggio con alcune scene di Mamma Roma, con Anna Magnani.
Il testo della poesia mi colpiì subito, tantissimi anni fa. E capii perché poi sua madre, Susanna Colussi, incarnò la Madonna nel Vangelo secondo Matteo. Non poteva essere altrimenti.
Al di à di psicologie, psicoanalisi e retrosociologie, resta un testamento unico, poetico, dell’amore di un figlio che non riesce – nella vita – a sostiuire una Madre con una donna.
Da quel dolore nacque tanto fermento e una lacerante ricerca, mai risolta. Che però ci ha regalato tanto. Davvero tanto.
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