SE MI LASCI TI CANCELLO
Non servono più complicate – e fantasiose – manipolazioni mentali per superare insanabili pene d’amore (ricordate il bellissimo film "Se mi lasci ti cancello?").
Basta una pillola, oggi.
Si chiama Amorex e sta per essere lanciata sul mercato. Si tratta di un rimedio che usa una pianta africana che verrebeb usata da secoli in Costa D’Avorio. Mah. Ci credete alle pilloline africane?
Credo che le minori …"sentimental tenzoni" africane siano dovute a un diverso modo di vivere.
E, comunque, l’uomo ha sempre sofferto per amore. A ogni latitudine e longitudine.
In ogni tempo e in ogni luogo.
Perfino nei paesi più ieratici e spirituali.
Il dolore cocente di una delusione sentimentale è universale. Ha riempito la letteratura e la poesia. L’uomo ne ha tratto ispirazione, ha fatto di amori e passioni il perno della sua creatività, le ha sublimate nell’arte, le ha cantate, celebrate, dipinte e suonate.
Non riesco a immaginare un Leopardi o un Dante, tanto per fare qualche…microscopico esempio, senza le loro muse. E l’amore, si sa, è anche dolore.
E’ tensione, inganno e illusione. Ma è anche verità, spazio dell’essere.
Il lutto per la fine di un amore fa sempre male. Ma serve. Serve a crescere, a maturare, a succhiare la linfa di un’esperienza.
Invece la nostra società moderna fa del dolore uno spettro da allontanare, un nemico dell’uomo che, come un ebete, dovrebbe vivere in un perenne stato di rilassato rincoglionimento.
Diciamolo, le pene d’amore sono un "sale" nella vita. Non si tratta di masochismo, ma di un gusto deciso, un gusto che si accompagna alla dolcezza dei momenti estatici e che ne rappresenta il suo contraltare. Non c’è unione senza separazione, né gioia senza dolore.
La fine di un rapporto non è un file da archiviare con un click. E nemmeno una gastrite noiosa da curare con uno sciroppo.
E’ un processo che fa parte della vita, che ci rende gli uomini e le donne che siamo, che fa parte di noi e della nostra storia individuale.
Anche gli amori non corrisposti fanno soffrire, fanno soffrire tanto. Eppure. Eppure servono. Questo dolore serve.
Invece eccoci qua, con una bella pillola da prendere con un poco di zucchero (ricordate Mary Poppins?) e voilà, ogni tristezza è cancellata.
E pensare che i replicanti di Blade Runner temevano di non avere emozioni, di non essere abbastanza "umani" mentre noi, noi vogliamo diventare "alieni".
Mi spiace, io a questa pillola rinuncio.
Mi tengo le notti insonni, le malinconie, le lacrime.
Quelle che ho avuto e quelle che avrò.
Di ogni amore, alla fine, ricordiamo in modo sereno anche il dolore. Perchè il dolore è un processo, fa parte di un gioco più grande, è il grande traghettatore che ci porta altrove, facendoci approdare in luoghi nuovi.
E’ un viaggio. E non si può arrivare alla meta senza fare il viaggio, piacevole o spiacevole che sia.
Di ogni amore, alla fine, manteniamo una memoria completa, compiuta, racchiusa fra gli estremi della gioia e della sofferenza.
Se togliamo al sofferenza, togliamo qualcosa di importante anche all’amore.
Non importa se si tratti di vero amore o di illusioni, di armonie o di disordinate passioni. Ogni esperienza ci porta da qualche parte. Ogni dolore ci educa, ci insegna qualcosa.
E’ come se volessimo costruire un palazzo senza finestre per paura che passi troppa luce, o che ci siano troppi spifferi. Ed è una finestra, il dolore. Una finestra su noi e sul mondo, su come viviamo e come pensiamo.
I sentimenti non possono non farci anche soffrire. Altrimenti sarebbero solo vizi logici, o cavilli della ragione. Sarebbero esemplari in fila indiana, e non cecchini improvvisi (o Cupidi) che ti colpiscono quando, ignaro, attraversi una strada.
Niente pillola, grazie.
E poi, lo sappiamo, il dolore, specialmente quello che riguarda le pene d’amore, alimenta la creatività, ci costringe a soluzioni interiori ed esterne, ci stimola quanto la gioia.
Lo sanno bene gli inglesi, quando scrivono "happiness writes white". La felicità scrive bianco.
Niente pillola, e niente zucchero. Prima o poi, andrà giù lo stesso…
STORIA DI FEDE E D’AMICIZIA
Non voglio esagerare con gli animali (quanti post dedicati ai gatti) ma curiosamente mi imbatto spesso – ultimamente – in storie davvero commoventi.
Come quella che riguarda Faith, il cane nato con una menomazione (l’assenza delle due zampe anteriori) che grazie all’amore dei suoi padroni è riuscito a sopravvivere imparando addirittura a camminare in posizione eretta.
Non ci credete?
Ecco un video:
http://www.dissacration.com/2008/04/21/lincredibile-cane-con-2-zampe/
Io mi sono commossa. Mi commuovono sempre, queste storie.
E penso che "qualcosa" o "qualcuno" dissemini simboli viventi su questa terra per aiutarci a pensare, per allargare un poco i nostri angusti confini, per mostrarci la potenza dell’amore, in ogni sua forma.
Ecco perchè le storie di animali non sono solo storie di animali.
Lo sapeva bene anche Esiodo.
Posso solo aggiungere che il nome del cane, Faith (Fede), non poteva essere più appropriato.
E’ proprio vero che la fede…sposta le montagne.
LA MAGIA DELL’ISTANTE
Ecco, mentre attraversavo il ponte per arrivare a Piazza del Popolo ieri, verso il tramonto, il Tevere sembrava esattamente così. Ero ferma alla fila dei semafori, mi sono girata e la bocca si è aperta a forma di Oh. La bellezza mi stupisce sempre, è come una ferita imprevista. Come un mare che mi allaga.
Ne ho parlato qui, a volte, perché spesso mi trovo a fare considerazioni sulla fretta, sul modo asfittico in cui viviamo, sempre all’inseguimento del prossimo desiderio, del prossimo impegno, del prossimo intrattenimento. Sempre il…prossimo. Sempre avanti, tesi verso una corsa impossibile, perdiamo l’attimo. Perdiamo l’occasione.
Quanto era bello il Tevere, ieri. Con quello scorcio di città, con i tetti che aspettano i disegni fiamminghi della sera, con le ombre che preparano la stanza della luna.
Ero felice. Quel momento è stato il significato della giornata.
Viverli più spesso non è difficile, basta rallentare e fermarsi. Ma non lo facciamo mai. Lo facciamo solo quando ci ricordiamo.
Beh, io ho deciso di farlo più spesso.
PAROLE SANTE…
Una volta un santo tenne una conferenza sul potere del mantra. Stava dicendo: "Il mantra ha il potere di condurci a Dio". Appena udito ciò, un incredulo nella sala si alzò e cominciò a gridare: "Questa è una stupidaggine! Come può la ripetizione di una parola condurci a Dio? Se continuiamo a ripetere "pane, pane, pane" si manifesterà forse il pane?
Con uno scatto il santo disse: "Siediti, bastardo!". L’uomo cominciò a tremare e diventò tutto rosso. "Come osi parlarmi così?- gridò – Ti dici santo e poi vai in giro a insultare gli altri! Che razza di individuo sei?" "Signore, mi dispiace molto averti offeso – disse il santo – ma, dimmi, cosa stai provando in questo momento?" "Come osi chiedermi cosa sto provando? – gridò l’uomo – Mi sento oltraggiato!"
"O signore – disse il santo – ho usato una sola parola offensiva ed essa ha avuto un effetto così potente su di te. Perché allora il nome di Dio dovrebbe cambiarti?"
(Swami Muktananda – Guida al viaggio spirituale)
Le parole. Nobili, bellissime, importanti. E a volte squallide, negligenti, raffazzonate.
Siamo tutti "incantati" dalle parole proprio per il loro potere. Ma ci sono parole e parole. Ci sono le parole sincere, autentiche, che derivano da una reale esperienza, e ci sono le parole vuote, vestite di ornamenti intellettuali e presunte sapienze. Io preferisco quelle nude. Meno belle, magari. Meno invitanti.
Sono importanti, le parole. Ma sono ostacolo e mezzo allo stesso tempo. Lo sa bene chi, come me, ne ha fatto il proprio mestiere.
Sarà che in questo periodo sono un po’ stufa delle tante parole vuote che trovo in giro. Si riconoscono. Basta annusarle. E’ possibile farlo nella parola scritta e in quella "parlata". Basta comportarsi un po’ come un cane da tartufo, se ne insegue l’odore.
Percorrerne le tracce.
Alcune hanno un vizio artificiale, sono "siliconiche", come le creme che ci spalmiamo sulla faccia.
Parole millantate, contrabbandate per vissute, sentite.
Da sempre faccio un piccolo gioco, lo faccio da quando ero ragazzina.
Quando una persona parla, cerco di "ascoltare" la provenienza delle sue parole. Possono venire tutte dalla testa, o affiorare da regioni più profonde, vibranti, nascoste.
Parole di pancia, di cuore, o di testa.
Quando qualcuno parla esclusivamente con parole "di testa", la voce si arrampica in alto, ovviamente, e diventa petulante, "alta", solitamente veloce.
Gli occhi…seguono. Nel senso che sembra quasi che la persona, tutta la persona, si raduni dietro gli occhi, che diventano più grandi, più attivi (nervosamente attivi), più "ansiosi" in quanto devono fungere da contenitore e riparo.
Quando invece qualcuno parla da qualche zona interiore più profonda, sentita, è come se l’intera persona scendesse al di sotto della testa, lasciando gli occhi "liberi", e liberando allo stesso tempo il resto del viso. Ovviamente anche la voce è diversa: più profonda, più calma, più vera.
Ci sono naturalmente quelli che fanno finta, ma…si capisce.
Sono solo stupidi giochi percettivi, per carità. Ma sono molto divertenti. Aiutano l’osservazione e la percezione degli altri. Specie per un’appassionata di cinema e di parole come me: ci sono attori che recitano…con la testa, e attori che recitano…con la pancia.
E’ soprattutto nel viso – e nella voce- che si riassumono completamente le caratteristiche di queste differenti situazioni. Queste diverse posture interiori modificano, temporaneamente, lo sguardo di una persona.
Anche quando leggiamo, se siamo abbastanza sensibili riusciamo comunque a cogliere se dietro quella scrittura ci sono solo artifici, virtuosismi, o moti spontanei, sinceramente sentiti, vissuti, esperiti.
Comunque Muktananda, con uno dei suoi deliziosi esempi, invita a una riflessione importante, quella sul potere delle parole.
Cerchiamo perciò di trattarle bene. E, soprattutto, di farne buon uso.
SOGNI E DESERTI
Ho spostato un granello di sabbia.
E ho modificato il Sahara.
(J.L.Borges)
Ho sempre amato la sintesi di Borges. Poche, eloquenti parole. Maestro di minimalismo, di arte della sottrazione. Sempre elusivo, impalpabile, leggero quanto profondo.
L’immagine di un deserto mutante, fatto di tanti minuscoli granelli di sabbia, ha la stessa sostanza del sogno: un disegno che cambia, un disegno fatto di enigmi, di tracce svelate e poi ricoperte, di orme smarrite e oasi ritrovate, di tempeste e silenzi, di notti abbaglianti in cui le stelle giacciono insieme alla luna fino al mattino e poi, come in una fugace danza onirica, svaniscono lasciando uno scintillio misterioso, una traccia diafana eppure persistente.
Sono un po’ come i sogni, i deserti.
Conosci forse il punto in cui parti ma non sai dove arrivi, né dove sosti.
Incontri arsure e piccoli capolavori di vita, come certe piantine.
Non l’ho mai attraversato, und deserto. Non ancora.
Ma lo penso così, apparentemente disordinato ma in realtà tessuto da trame precise, mutevole e denso di significati arcani, di guazzabugli e rivelazioni. Come un sogno.
In fondo anche di notte, in mezzo al vuoto della ragione, il mondo si popola di tanti granelli di sabbia che compongono le montagne che attraversiamo: fragili, mutevoli, destinate a cambiare forma al primo soffio di vento, o al primo risveglio.
E ogni risveglio è il ritorno da un viaggio.
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