PUBBLICITA’ REGRESSO
Ho appena scritto un post sui gatti, ma, a rischio di sembrare monotematica, non riesco a trattenermi dal commentare una pubblicità incrociata durante la lettura dell’inserto femminile del Corriere, pubblicità che ha a che fare con ermellini, visoni e cincillà. A costo di sembrare la Bardot de noantri, preferisco scriverne.
Pagina doppia pubblicitaria: sulla destra, il logo della Colombo, prestigioso lanificio che vanta negozi perfino a Vienna e Parigi. Benissimo, se non fosse che un gomitolo di lana…non è uguale al pelo di una pelliccia.
Sulla pagina di sinistra, la pubblicità recita:
La passione della qualità
Allevare e selezionare cashmere, visone, ermellino e cincillà per ottenere da questi meravigliosi animali pochi grammi, ogni stagione, di finissima materia prima. Nasce così il prodotto Colombo che esprime il nostro stile di vita dove i valori diventano cultura e la cultura diventa qualità.
Cosa cosa?
Sappiamo bene quali torture subiscono gli animali da pelliccia, moda che speravo estinta, spazzata via dalla terra, e che invece quest’anno sembra tornare sulle nostre passerelle. "A volte ritornano", ci avvisava Stephen King. Già.
Moda di pessimo gusto, che non risponde più a nessuna reale esigenza. Non sono graziose, infatti, le moderne alternative al classico pellicciotto? Davvero non resistiamo al macabro fascino? Per fortuna abbiamo fatto passi in avanti, in questo decennio, mostrando cosa significa trucidare "questi meravigliosi animali", come dice Colombo, scuoiandoli vivi per non sciupare il loro prezioso tesoro.
Buffo, poi, veder circolare signore in pelliccia nel morbido (rispetto al clima) ventre di Roma. Manco fossero le amanti del dottor Zivago.
Allevare ermellini e pecore non è la stessa cosa. Andiamo. Ma, la cosa peggiore, è il tono della pubblicità, che parla di "valori che diventano cultura". Ma quale cultura? Quali valori? Lo sfruttamento gratuito degli animali a favore del nostro godimento estetico non esprime nè cultura né valori. Esprime solo mediocrità. La pelliccia non è un valore. O meglio, l’unico valore che rappresenta è quello economico.
Davvero, le alternative oggi ci sono. Materiali termici e isolanti, pelicciotti folti, colorati, che abbelliscono giacche, piumini e cappotti.
Ma, a quanto pare, per alcuni il fascino della pelliccia vera è irresistibile. Ricordo una pubblicità, molto efficace, che circolava circa vent’anni fa. C’era la foto di un bellissimo cucciolo di volpe, e sotto la scritta: "Questo cucciolo sta cercando la sua mamma. E’ forse nella tua pelliccia?".
Lo domando a Colombo?
IL “GATTESE”, UNA LINGUA MAGICA
Anakin
Sebbene il mio lavoro abbia a che fare con le parole e con la lingua italiana, non riesco a non rimanere affascinata da un altro linguaggio "straniero", che può essere studiato solo empiricamente. Né corsi, né tesi di laurea. Il gattese richiede solo attenzione, empatia, curiosità.
Intanto, diciamolo subito: a differenza dei cani, i gatti non passano mai inosservati. O li si ama, o li odia. Li si può anche "odiare moderatamente", passando attraverso varie sfumature. Ma, sempre, suscitano reazioni forti.
Perchè il gatto è il meno domestico degli animali domestici. Non potremo mai "possederlo", e per fortuna. Non ti dirà mai, un gatto, "Guarda, sei il mio padrone e ti amo incondizionatamente, fa’ di me ciò che vuoi". Questo amore devozionale appartiene al mondo dei cani.
I gatti, loro, fanno quello che vogliono, eppure nella loro amabile "indifferenza" ci amano molto. Sono solo creature libere, libere davvero.
Ma si affezionano, hanno un mondo emotivo. Ci sono storie di gatti straziati dal dolore per l’assenza dei loro "padroni" (più coinquilini, che padroni), di gatti che si sono buttati dalla finestra per seguire il "gattone" umano precipitato di sotto.
Quindi la leggenda del gatto egoista e indifferente, solitario per eccellenza, va sfatato.
Studiando il loro linguaggio si scoprono molte cose. Quando è felice, il gatto drizza la coda formando una specie di punto interrogativo alla fine. E quando è felice? Non solo quando mangia, ma anche quando ci vede, a meno che non siamo stati assenti per giorni (allora, offeso, ci ignora).
Quando un gatto è in imbarazzo, magari perchè puntando lo scaffale e spiccando il balzo è caduto, si lecca con finta indifferenza, come se non fosse accaduto nulla.
Quando ci osserva, socchiude gli occhi in segno di amicizia. E, soprattutto, esprime la sua gioia facendo le fusa. Alcune ricerche hanno mostrato che i gatti fanno le fusa solo in presenza di altri, uomini o gatti che siano, dunque si tratta di un potente strumento di comunicazione. Poi, da bravi paraventi, fanno le fusa e strizzano gli occhi anche quando vogliono mangiare (ma chi di noi quando vuole ottenere qualcosa non esercita qualche sublime arte manipolatoria? siamo sinceri…).
Quando invece tirano fuori la lingua sono nervosetti, come quando muovono la coda in modo un po’ nevrastenico, da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Ma la faccenda straordinaria, magica, misteriosa, sta nel loro potere di sentire i nostri stati interiori. Non è raro che quando stiamo male il gatto lo percepisca, e si accoccoli esattemente sulla zona dolente del corpo. Se si tratta di un malessere interiore, ci si avvicina partecipando con fusa e leccate (le fusa abbassano la nostra pressione sanguigna, esercitando, secondo me, una serie di vari miracoli).
Conoscere i loro linguaggi ci aiuta a conoscere meglio noi stessi. Sempre presenti, immersi nell’attimo, oscillano da stati di rilassamento a stati di allerta con estrema facilità. In questo, non finiscono mai di stupirmi. In equilibrio fra gli opposti, sanno godersi il momento in modo molto…zen.
Nella nostra società asfittica, epilettica, ricca di patologie varie, il linguaggio misterioso e allo stesso tempo semplice del gatto è un toccasana.
Ieri sera, distesa sul letto con i due mici che vivono con me, mi godevo il temporale. Tutti e tre guardavamo fuori dalla finestra, godendoci reciproche manifestazioni di affetto. Poi, all’improvviso, Anakin è balzato giù e se ne è andato. Ho provato a implorargli di rimanere, ma mi ha guardato appena e ha cambiato stanza. Lui, semplicemente, non aveva più voglia di stare lì. I gatti sono fatti così. E li trovo meravigliosi.
PROMESSE
A volte nelle città, storditi dai quotidiani impicci, dimentichiamo di abitare le oasi verdi che le attraversano. Offrono stupori e ripari nel respiro della natura.
Villa Ada, a Roma, è una di queste. Ne apprezzo soprattutto le zone selvagge, quelle più pudiche, sottratte alle invasioni di biciclette, scarpe in corsa, cani da passeggio. Sono zone nascoste ma palpitanti, e offrono sinceri scorci di virginale bellezza, una pausa che dura uno spazio troppo breve ma che ha un sapore buono, buonissimo. Una realtà forse illusoria perché circondata dalle aggressioni metropolitane, eppure così vibrante, magica, piena del mormorio del vento e delle foglie che raccontano di arcane faccende.
Com’è bello passeggiare nel suo cuore ardente, lontano dai laghetti e dalle stradine ordinate, fatte a misura d’uomo. La misura non dev’essere dell’uomo ma della natura. Altrimenti l’artificio smonta e cancella l’incanto di un caos ordinato in cui ogni apparente groviglio segue un disegno preciso.
Le distese di erba umida, il sapore dell’ombra nella quale crescono i muschi soavi, diventano luoghi che allargano l’anima.
Ne abbiamo così bisogno.
Mi fermo a respirare, per riempire i polmoni di buona aria e buoni pensieri.
L’altro giorno, sempre a villa Ada, ho visto nei disegni fiamminghi del tramonto un passaggio nascosto. Ho continuato a camminare sull’erba, ma quando mi sono voltata indietro era scomparso, ingoiato dal primo morso della notte. Rimane la sensazione di un mistero promesso.
I LABIRINTI DELLA MEMORIA
Il lavoro creativo è sospeso fra la memoria e l’oblio
Jorge Luis Borges
Ho tre amori, tre passioni letterarie che fanno della memoria un punto cruciale. Nella mia vita di lettrice randagia, disordinata, che annusava nell’aria un autore e lo rincorreva tradendo i precedenti legami, ho sempre mantenuto, negli anni, il fuoco di queste passioni che man mano si è fatto brace, brace eterna. Brillano sempre, un po’ come i lumini in una chiesa.
Chi sono, questi amanti perenni? Sono Borges, Levi e Proust. Inutile, adesso, dilungarsi sui motivi delle loro meraviglie, ma sul tema della memoria hanno spazzato via ogni altro candidato, seppur nobile.
Tutti e tre hanno un rapporto diverso con la memoria.
Proust ne fa la sua ricerca. Estasi e assillo, per lui. Una ricerca “sacra”, in cui il consueto svolgersi del tempo rettilineo, da ieri a oggi verso domani, finisce per assumere una forma circolare, extratemporale, in cui la memoria diventa grimaldello analogico, apertura di un recuperato senso di sé e del mondo che sconfina in uno spazio assente e allo stesso tempo presente, in quella vertigine extratemporale in cui passato e presente si fondono, danzando in un cerchio al di là di ogni umana linea retta.
Per Borges invece la memoria è un luogo ambiguo, come ambigue sono molte situazioni di questa realtà (come gli specchi, ad esempio, “che attraverso la copula moltiplicano l’uomo”). Per lui è il luogo che definisce la colpa e il rimorso; rappresenta anche le radici dell’albero che siamo diventati, radici che sono ingombranti, talvolta amico talvolta nemico, come sapevano bene anche gli antichi greci, con Mnemosine. La memoria aiuta, la memoria opprime.
Il povero Funes viene schiacciato da una memoria invadente, aggressiva, in cui è minacciato dal ricordo di ogni dettaglio che vive, da sempre e fino alla sua morte. Mi fa pensare un po’ alla nostra situazione contemporanea, con gli tsunami quotidiani delle nuove tecnologie e dei mass media che senza sosta propinano informazioni, le sganciano dalle loro bombe, in continuazione, senza pietà. Infestati dal “sapere”, forse un giorno capiremo di non capire niente. E sapremo di non sapere, tornando a una socratica e ben più profonda coscienza. Siamo schiacciati, come il povero Funes, anche se noi, noi riusciamo benissimo a dimenticare cosa non ci fa comodo. In questo caso, la memoria diventa invece necessaria. Anche se è stata trasformata in un qualcosa di retorico: “manteniamo la memoria storica”, “senza memoria non c’è futuro”, “per non dimenticare” ecc. in un bla bla mediatico pieno di parole ma privo di reale coinvolgimento. La retorica della memoria diventa così oggetto di banalità, di ciarle narcisiste in cui ognuno, dal politico all’”intellettuale” (ce ne sono, oggi?) mette in vetrina il suo ego. La nostra non è una società eco-comparibile, ma è certamente ego-compatibile. E ne fa le spese anche il giusto uso della memoria, agitata qua e là come un povero polipo su uno scoglio. "Memoria sì, memoria no", canterebbe il sarcastico Elio nelle sue Storie Tese.
Del resto, siamo abituati a cose che scivolano via, come sabbia fra le dita. Non facciamo in tempo a fermarci per ricordare che subito sopravanzo altre richieste, altre pressioni professionali, sociali, mediatiche…Con la stessa rapidità con cui in Facebook rispondiamo al famoso “Che pensi?” e subito i nostri commenti vengono invasi dal gruppo di amici e conoscenti che a loro volta intervengono. Non c’è spazio per l’uso sapiente della memoria. In Se questo è un uomo Primo Levi si interroga seriamente sugli orrori che la storia sta consegnando all’umanità, e forse lo sa, sa già che alcuni elementi stanno “come d’autunno sugli alberi le foglie” malgrado il tentativo di fissarne per sempre l’esperienza attraverso la memoria scritta. Ma con la memoria uno dei problemi è proprio questo: o ci si fissa troppo su questa, perdendo la lucidità del nuovo, della trasformazione, dell’occasione che viviamo ogni giorno, oppure la si lascia morire, tornare oblio.
In fondo, il presente è esattamente ciò che sta tra passato e futuro, ciò che si regge fra memoria e ignoto. “Il lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio”. Esattamente. È ora, in questo istante, tra conosciuto e sconosciuto, tra ciò che è stato e non è più, in attesa di ciò che deve invece ancora accadere, che si moltiplicano le possibilità di una vita intensa, profonda, consapevole. Soprattutto consapevole. Del resto, il ricordo di noi può essere illusorio, fugace come la rugiada al mattino.
Ciò che ricordiamo non è sempre ciò che abbiamo davvero vissuto, lo sapevano bene gli antichi greci e lo sapeva bene anche Freud, che ci ha insegnato le trappole della proiezione e del falso mondo che spesso creiamo e vediamo. Dunque la memoria può essere inganno, ostacolo, pietra d’inciampo. Ancora una volta, tutto dipende dall’uso che ne facciamo. E l’uso, individuale e collettivo, è spesso fragile, traballante, parziale. Come se per non dimenticare…finissimo invece per dimenticare tutto. Come se a volte dimenticassimo ciò che va ricordato e ricordassimo ciò che va dimenticato. Perfetto.
Sappiamo bene come lo stesso ricordo, appeso nei nostri pensieri, diventa colmo degli addobbi che pazientemente gli mettiamo addosso negli anni. Lucine, palle di Natale, angioletti che illuminano le azioni più brutte, i vissuti più dolorosi.
Davvero una maga, in questo caso, la memoria. Abracadabra. Ecco trasformati gli eventi. Bidibibodibibu. Ciò che era bello diventa bruttino, ciò che era brutto diventa bello. L’intollerabile si trasforma nel tollerabile (e viceversa), il sapido in insipido (sempre,anche qui, e viceversa).
I ricordi hanno un limite, oltre il quale diventano un peso che impedisce ogni passo in avanti. La vita non è fissità. La vita è mobile, dinamica, si colora come le foglie d’autunno e po si trasforma, incessantemente. Non lo facciamo forse anche con i rircordi, come abbiamo appena detto?
Ma alcune memorie restano ancorate negli abissi dell’inconscio, in quel mondo grottesco e incantato, terribile e meraviglioso, in cui, come diceva anche Hillman, ogni evento interiore è presente. Laggiù, in quel sottosuolo arcano, il tempo non passa mai. Il presente è l’unico tempo che l’inconscio conosce. Lui non fa differenza tra un trauma accaduto vent’anni prima e l’oggi che stiao vivendoo pensando di vivere). Non si tratta del presente di cui parlano saggi e uomini spirituali. È diversa la sua qualità. Nell’inconscio le ombre ricordano continuamente, è memoria e non libertà di essere in un vero presente.
Certo è che se avessimo una memoria che trattiene tutto, lucidamente, razionalmente, saremmo nei guai.
Ricordando tutto, di fatto Funes finisce per esplodere. La memoria selettiva è necessaria però deve essere sapiente, e fatica a farlo. Dimostrazione lampante, appunto, l’inconscio, che trafuga ricordi e li seppellisce clandestinamente, ricordi che poi diventano le ombre e i fantasmi rimossi che ci perseguitano nostro malgrado, impedendoci di essere liberi e soprattutto interi.
Adoro i guazzabugli notturni dei sogni, che mescolano memoria e fantasia, realtà e licenze, desideri e paure. Sono molto più liberi di noi, non oppressi dai carcerieri che usiamo invece di giorno.
Ricordare può essere bello o mostruoso, la memoria è un oggetto strano, complesso, mobile come un caleidoscopio.
Perché oltre a ricordare dobbiamo conoscere l’essenza del nostro ricordo, della memoria.
Essenza che è spesso alterata, ingannata da ciò che la mente vi depone in seguito.
E si finisce per passare a certi estremi, certe radicalità che mostrano, nella loro iperbole, qualche inciampo nel coretto uso della memoria, come nel caso degli ebrei – sempre legati all’Olocausto che spesso finisce per giustificare ogni pretesa in una sorta di “assoluzione dovuta”, e di quello del branco di folli, ultimo, in tempi recenti, un certo professore universitario, che ribalta il concetto negando addirittura la realtà di quello scempio. Ecco che la memoria può diventare un totem intoccabile di cui ci si fa troppo scudo, a volte, o una polvere che copre ogni evento.
In mezzo, c’è la saggezza. C’è il conservare il passato sapendo che il mondo dei mutamenti ci porta ogni giorno anche nuovi confini, nuove realtà, ci bagna in acque che non appartengono mai allo stesso fiume. Come un equilibrista sul filo, dovremmo camminare con attenzione tra memoria e futuro, tra ciò che sono stati i mattoni delle nostre credenze e la possibilità di costruire nuove abitazioni, tra il noto e l’ignoto. Tra ciò che eravamo e ciò che saremo. In mezzo, il presente. Ed è così difficile, abitare questo presente. Ci chiede di essere liberi. E noi, liberi davvero, non lo siamo mai.
CUOR DI LEONE
Probabilmente l’avete già visto su internet, ma se non lo avete fatto, ve lo consiglio. E’ il video con la incredibile storia di Christian,
Il leone, adottato, una volta adulto, tornato in libertà, dopo un anno ha riconosciuto i suoi padroni strofinandosi addosso come un cucciolone.
Io mi sono commossa, ovviamente. E voi?
GATTITUDINI
La gattitudine è uno stato dell’anima, oserei dire. Non c’è nulla di più bello di quei momenti pacioccosi, negligenti, beati, che si passano insieme ai gatti. Momenti che ripagano della fatica di vivere, sul serio.
Solo chi vive le gattitudini può capire questo stato particolare che è quasi come un satori.
Anzi, un "gattori".
Dei miei due gatti, uno è filosofo, l’altra una disadattata arruffona e un po’ psicopatica, adorabilmente psicopatica.
Uno è un po’ orso, l’altra è un felino allo stato brado.
Lui "pensa", lei si struscia maliziosa.
Lui si fa appendere a testa in giù, lei rizza il pelo come provi a prenderla in braccio, fissandoti con i suoi occhi spiritati.
Lui è lago tranquillo, lei è onda di mare in tempesta.
Lui è brezza, lei bufera.
Lui somiglia a una sonata di Mozart, lei a un concerto dei Led Zeppelin.
Lui è "nanna", lei "insonnia".
Tutti e due, a forza di opposti, finiscono per somigliarsi.
Con loro vivo le mie gattitudini.
Le più belle? Nelle giornate come questa, quando fuori piove e mi rannicchio sul divano, un libro e due gatti.
Momenti di essere, momenti di assenze e presenze.
Gattitudini, appunto.
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