LA PRIMA FOTOGRAFIA DI HITLER
E chi è Questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler!
Diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell’opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?
Di chi è il pancino pieno di latte, ancora non si sa:
d’un tipografo, d’un mercante, di un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in uffcio, alle nozze
magari con la figlia del sindaco?
bebè, angeluccio, tesoruccio, piccolo raggio,
quando un anno fa veniva al mondo
non mancavano segni nel cielo e sulla terra:
un sole primaverile, gerani alle finestre,
musica d’organetto nel cortile,
un fausto presagio nella carta velina rosa,
prima del parto un sogno profetico della madre:
se sogni un colombo, è una lieta novella
se lo acchiappi, giungerà chi hai a lungo atteso.
Toc toc, chi è, è il cuoricino di Adolfino.
Ciucciotto, pannolino, bavaglio, sonaglio,
il bimbetto, lodando Iddio e toccando ferro, è sano,
somiglia ai genitori, al gattino nel cesto,
ai bambini di tutti gli album di famiglia.
Bè, adesso non piangeremo mica,
il fotografo farà clic sotto la tela nera.
Atelier Klinger, Grabenstrasse Braunau,
e Braunau è una cittadina piccola, ma digniotosa,
ditte solide, vicini dabbene,
profumo di torta e di sapone da bucato.
Non si sentono cani ululare né i passi del destino.
L’insegnante di storia allenta il colletto
e sbadiglia sui quaderni.
(Wislawa Szymborska)
Di sicuro Hitler è stato bambino. Difficile, però, immaginarlo. La Szymborska, come sempre, ci regala parole guizzanti, che pulsano di ironia. Chissà che è successo, a Hitler, da piccolo. Forse gli hanno portato via il giocattolo preferito (doveva essere un bambino scuro scuro, scommetto). O, forse, un ebreo lo ha morso mentre andava sull’altalena.
Qualcosa a un certo punto sio è "inceppato". Ma non ho mai voluto approfondire la sua piscologia. So solo che l’intelligenza può essere luciferina.
E comunque non riesco a immaginarlo, Hitler in erba.
Però è stato un bambino, anche lui. Avrà pianto e strillato e gridato e sorriso. Chissà quando la scintilla nei suoi occhi si è accesa di follia. Ma è accaduto.
A volte sento dire" Ma tutto sommato non era così male, amava i cani". Che idiozia. Come se amare gli animali ci sollevasse dal peso di ogni colpa e di ogni rimorso. Conosco persone stupide, egoiste, arroganti che amano moltissimo i loro compagni a quattro zampe. E anche Hitler, sì, li amava. Molto. Lui, di cani, ne ha avuti tanti intorno. E non erano tutti così pelosi, e nemmeno abbaiavano. Parlavano.
UN NERO AL SOLE
Doveva morire, Michael Jackson, per sfiancare la leggenda metropolitana del "negro che voleva essere bianco".
Alla fine, si sono accorti un po’ tutti che si trattava di una malattia della pelle, la vitiligine. Certo, lui aveva soffiato vento su questo incendio, con il suo nasino appuntito, il volto rifatto, i capelli piatti come il mare all’alba. E aveva fatto scandalo.
Nessuno si scandalizza, invece, davanti alle frotte di bianchi che vogliono diventare neri.
Ogni estate, puntuali, ci crogioliamo al sole per prendere la tintarella. Che, a voler essere puntigliosi, altro non è che la difesa della pelle davanti all’aggressione dei raggi solari.
Dunque la melanina, che evoca il bel colore caldo del cioccolato, è solo una reazione.
Alcuni anni fa andava di moda l’abbronzatura selvaggia, quella senza creme di protezione, quella che faceva preparare pappette di carota e olio di oliva, che ci faceva mangiare la frutta (non per la salute, per carità: la tintarella).
Ora è tornata la tinta lunare, in uno stile retrò, all’inseguimento di quella bellezza diafana e patrizia che un tempo distingueva le dame di classe dalle contadinotte con la faccia rosso pomodoro.
Ma anche questa moda cambierà. Cosa non cambia, è il fatto che tutti d’estate lavoriamo alacremente per diventare "neri".
Ma nessuno si allarma. Nessuno lo trova bizzarro. Nessuno grida "al bianco! al bianco! al bianco che vuole diventare negro!".
Ma se un negro prova invece a diventare bianco (ammesso che ci riesca) si trova davanti un plotone di esecuzione.
Chissà perché.
Forse perché un pizzico di razzismo striscia, clandestino, nel nostro inconscio?
Siamo ancora abituati a considerare i figli di Kunta Kinte una variante minore? No.
Non, perlomeno, alla luce del sole. E allora dovremmo piantarla di considerare innaturale un eventuale cambiamento cromatico della pelle di altri, mentre la nostra, d’estate, si trasforma in tutte le tinte del cioccolato, da quello fondente ai variegati Nutella.
Se ci togliessimo un attimo dalle nostre abitudini, forse ci troveremmo davvero ridicoli: tutti lì, in fila sul lettino, a voler essere "neri per forza" (e non per caso).
Ma le mode e le convenzioni, si sa, ci abituano a non pensare.
MAL DI SICILIA
Sono appena tornata. E già mi manca. Mi manca, questa terra che ti entra nel sangue, ti scoppia dentro, all’improvviso, con violenza.
E’ uno strappo, la Sicilia. Una lacerazione magnifica che rompe ogni abitudine precedente e ti porta via, ti porta via nei suoi segreti fatti di Acqua e di Fuoco, di alchimie sacre e di umanissimi languori.
Ne cerchi l’essenza e lei si fa avvicinare, si ferma, fugge in un vicolo, si nasconde, riposa nelle prime ore del pomeriggio, quando non senti nulla, solo il rumore del mare, e si sveglia di nuovo, si alza con i siciliani, cammina al loro fianco e ciondola fra le carezze del vento.
Da subito sono rimasta rapita. E’ una forza aspra e allo stesso tempo dolcissima, che profuma di zagare e gelsomini, di passione e indolenza, di sangue e d’anima.
Ho passeggiato per le vie di Trapani, mi sono infilata sulle nuvole di Erice, lassù, su quella montagna che regala ancora una spiritualità nascosta nei ruderi, nelle chiesette, nei vicoletti mai scalfiti da tempo.
Mi sono lasciata vincere dalla pigrizia di Favignana, con le sue casette bianche bianche e i sentieri per il mare.
E mi sono commossa davanti alle rocce di Levanzo, isoletta piccola, selvatica come l’odore di mare, come quel sale che lì avvolge e insaporisce ogni cosa, la condisce di vita. Stavo sulla barchetta di un pescatore, circumnavigavamo l’isola. C’erano queste rocce mai tradite dall’uomo, attraversate dai battiti d’ala di alcuni gabbiani. A volte la bellezza "ferisce". Mi sono trovata piena di lacrime, sopraffatta dalla mia piccolezza davanti a quello scenario selvaggio, inviolato. E’ una ferita benedetta, quella della bellezza. Quella di ogni bellezza.
Sì. La Sicilia ti entra nel sangue. Specie se, con rispetto e pudore, provi ad annusarla con confidenziale piacere.
Ho fatto pochi bagni ma ho passeggiato tantissimo nei vicoli, cercando con lo sguardo la popolazione per carpirne gli umori.
E sono umori belli.
Ho sempre amato il dialetto siciliano. La lingua è uno dei "suoni" dell’anima, assomiglia a chi la parla. E’ una specie di "pelle cantata". Per questo i dialetti si intonano con le caratteristiche delle persone, gli fanno da eco e da specchio. Attraverso il dialetto entriamo in contatto con il suono di un popolo. Ci sono dialetti cafoni, simpatici, arroganti…"A ciascuno il suo", come direbbe Sciascia.
Il dialetto siciliano ha un suono particolare. Parla di passione e di nobilità, di antiche eleganze e di umili dignità. Ci sono sia l’orgoglio che il pudore. E ci sono la dolcezza e le asperità, un po’ come i cannoli che ti invitano ad ogni angolo e il richiamo violento della tonnara.
Terra particolare, la Sicilia. Incrocio di Oriente e Occidente. Sento le voci antiche di arabi e spagnoli, che ancora oggi sussurrano negli angoli, lasciano tracce nelle architetture e nelle gastronomie, danno vita a quel carattere particolare che deriva dall’incontro di razze diverse.
Mi sono gustata ogni attimo. E quando sono partita, ho lasciato qui un pezzettino di nostalgia. Tornerò a riprenderla. Prima o poi tornerò.
MAMMA HO PRESO L’AEREO
N.B. Avevo già scritto il post quando ho avuto notizia del disastro aereo delle Comore. Ho deciso, dopo averci pensato, di lasciarlo comunque. Perché la sincerità è meglio dell’ipocrisia. Toglierlo dopo averlo pubblicato sarebbe stato "falso", dato che era stato scritto senza conoscere questa tragedia. E perché io fra due giorni volerò comunque, e perché come me ogni giorno migliaia di persone attraversano i cieli. E un po’ di ironia su alcuni aspetti un po’grotteschi forse ci aiuta a distendere un po’ i nostri timori. Perchè di fatto, volare è un rischio davvero. Lo sa bene chi, oggi, dopo il disastro aereo non ha più un futuro.
Finalmente qualche giorno di stacco. Vado in Sicilia. E prendo l’aereo. Ogni volta, come capita a molti, provo una leggera vertigine al pensiero di rimare bloccata lassù, per aria, con i finestrini sigillati. Nessuno va pazzo per gli aerei, siamo onesti. Ma è una paura che si vince, sopraffatta dal pensiero dei luoghi che visiteremo, delle persone vecchie e nuove che incontreremo, della "vacanza della mente" in cui ci infileremo.
L’unica cosa che, ogni volta, mi urta, è il discorsetto inaugurale delle hostess (non prendo l’aereo da un po’, ma non credo sia cambiato).
Si piazzano lì, in mezzo al corridoio, con il loro sorriso che allaga la faccia e l’altezza…celestiale; iniziano a fare segnali da vigile mentre ti spiegano cosa fare nel caso l’aereo avesse problemi. E tu NON vuoi assoultamente che abbia problemi, l’aereo. E non vuoi neppure pensarci. Fai di tutto, prima della partenza, per ignorare il fatto che da lì a breve i tuoi piedini non toccheranno più nessun suolo, che per nessuna ragione potrai uscire o aprire un finestrino (a meno che tu non faccia come la mia vecchia insegnante di storia dell’arte, che durante il volo a New York, vinta dalla claustrofobia, chiese alla hostess di turno: "posso aprire il finestrino per fare entrare un po’ d’aria?" e alla - ovvia – risposta negativa lasciò che il panico dilagasse…preferiva farsi fare lo scalpo dall’aria, lei, piuttosto che sostenere il concetto di "finestrino sigillato"). Non scenderai e starai buono buono per tutto il viaggio, lungo o corto che sia. Cerchi di non pensare che i i palazzi tra poco saranno grandi come puntini neri su un ippopotamo, cerchi di evitare ogni richiamo a quella sospensione da terra quando loro, le hostess, ti sbattono in faccia non solo la concretezza del volo, ma addirittura la possibibilità di guasti, ammaramenti, atterragi di fortuna (o nessun atterraggio, se sei davvero sfigato).
Ladies and gentlemen please pay attention as we display the safety features and procedures of this aircraft in case of emergency. Even if you are a frequent flyer you should listen careully to the indication of the flight attendants.
Each seat in this aircraft has a safety-belt that must be fastened when the appropriate signals are on. Please notice how to fasten, fit, and unfasten the seat-belts. For you own safety, we suggest you to keep you seat-belt fastened anytime while seated.
During an emergency please remain in your seat with your seat-belt fastened and your seat in the up-right position.
In case of a drop in cabin pressure breathing masks will drop from the ceiling. Wear you mask and breathe normally. If someone needs help wearing the mask, remember to wear yours before helping others.
During an evacuation of the aircraft the walkway emergency lights will guide you to the emergency exits, which are located in the front, middle and rear part of the cabin. Please locate the exit colser to you, and notice it could be behind you.
In case of an emergency landing you will instructed to get into the "brace" position which is shown in the safety sheet you can find in front of you seat. You must get into the "brace" position if you hear the order "Brace, brace!".
In the unlikely case of an emergency landing in water, the life jacket is located under your seat. You must wear the life jacket as shown by the flight attendants, and inflate it only outside the aircraft. The life jacket will inflate automatically if you pull the strap you can find on your chest. If this doesn’t happen, you can find a rubber straw which can also be used to inflate the jacket. On the jacket you can find a torch and a whistle.
For any information about the safety issues of this airplane please check the safety card located in front of you seat and feel free to ask the flight attendants.
As we prepare for take-off, we ask you to check that your seat-belt is fastened, you table is up and locked, and you seat is in the up-right position.
We thank you for your attention and we wish you a pleasant flight!"
E se per caso sei fortunato e non sai l’inglese, ecco che ti becchi, subito dopo, la traduzione:
"Signore e signori cortesemente prestate attenzione alla dimostrazione delle caratteristiche e delle procedure di sicurezza di questo aeromobile. Anche se siete soliti volare frequentemente vi invitiamo ad ascoltare con attenzione lee indicazioni degli assistenti di volo.
Ogni posto di questo aeromobile è dotato di una cintura di sicurezza che deve essere indossata mentre l’apposito indicatore è acceso. Osservate come agganciare, regolare e sganciare le cinture di sicurezza. Per la vostra sicurezza, vi invitiamo a tenere le cinture allacciate per tutto il tempo in cui siete seduti.
Durante un’emergenza rimanete seduti ai vostri posti con la cintura di sicurezza allacciata ed il sedile in posizione verticale.
Nel caso di una depressurizzazione della cabina, le maschere ad ossigeno usciranno da appositi scomparti collocati nel soffito dell’aereo. Indossate la maschera e respirate normalmente. Se un altro passeggero necessita di aiuto per indossare la maschera, vi ricordiamo di indossare la vostra prima di aiutare altri.
Durante l’evacuazione dell’aeromobile alcune luci di emergenza mostreranno un sentiero luminoso che vi condurrà alle uscite di emergenza, che sono posizionate nella parte anteriore, centrale e posteriore dell’aeromobile. Identificate l’uscita a voi più vicina, e ricordate che potrebbe trovarsi dietro di voi.
Nel caso di un atterraggio di emergenza vi verrà indicato di assumere la posizione di sicurezza, che è mostrata nell’opuscolo che trovate di fronte al vostro sedile. Dovete assumere la posizione di sicurezza non appena udite il comando "Brace, brace!".
Nell’improbabile eventualità di un ammaraggio, potete trovare un giubbotto galleggiante sotto il vostro sedile. Il giubbotto va indossato come mostrato dagli assistenti di volo, e gonfiato solo all’esterno dell’aereo. Il giubbotto si gonfierà automaticamente tirando l’apposito nastro. Se questo non dovesse succedere, potete gonfiare il giubbotto utilizzando l’apposito tubo di gomma. Attaccati al giubbotto trovate anche una lampada di segnalazione ed un fischietto.
Ci stiamo preparando al decollo, pertanto vi invitiamo a controllare che la vostra cintura di sicurezza sia correttamente agganciata, che il tavolino sia sollevato e bloccato e che il vostro sedile sia in posizione verticale.
Per ulteriori informazioni circa la sicurezza a bordo di questo aeromobile vi invitiamo a leggere l’apposito opuscolo che trovate di fronte a voi, e vi ricordiamo di non esitare nel chiedere informazioni agli assistenti di volo.
Vi ringraziamo per l’attenzione e vi auguriamo un piacevole volo
Un volo piacevole se state zitte, per favore. Io a guardare quelle improbabili uscite di sicurezza mi sento male. Infatti ogni volta "fischietto" e guardo fuori dal finestrino, guardo le ultime valigie che vengono caricate, guardo l’ala dell’aereo, guardo il cielo…insomma guardo tutto ma non loro.
Le istruzioni sono preziose. Come dire: moriremo, sì, ma…"istruiti". Con il nostro bel manuale di viaggio.
Comunque, al di là del disagio iniziale, quando l’aereo decolla la sensazione è davvero incredibile: ti senti sospeso, galleggi in un vuoto in cui gli spazi esterni all’improvviso sembrano deformi: troppo piccoli, troppo lontani, troppo vicini…Troppo. Sempre un "troppo" di mezzo a falsare la sensazione della realtà, delle proporzioni ordinarie, delle fughe prospettiche.
Adoro quel momento, io. E’ un po’ come tornare bambini, quando andavamo in altalena e il vuoto ci dava quei piacevoli brividini sulla pancia che non aveva farfalle ma interi gruppi di coleotteri.
Ecco, se le hostess tacessero supererei meglio quell’attimo di disagio che precede la meraviglia del volo.
Tanto, lo sappiamo una volta "lassù", c’è poco da fare.
C’è solo da godersi il volo e chiedere a quei sorrisoni una bella bibita. Magari gelata.
IL SOGNO
Il sogno viaggia dentro e fuori di noi. Ci appartiene, ci “segna”, traccia la strada che fatalmente percorreremo.
Il sogno è crogiuolo, groviglio, dedalo di sfumature, crocicchio di illusioni e fantasmi, desideri e speranze. È proteiforme come i colori della notte stessa, quella che per prima ci insegnò, da bambini, a valicare la frontiera diurna penetrando i giardini segreti.
Ma cos’è, esattamente, il sogno? Per l’uomo antico era la chiave di accesso alla trascendenza, l’oracolo notturno che arrivava da mondi lontani e avvisava, suggeriva, a volte taceva. In un mondo in cui tutto era sacro, il sogno era faccenda di dèi. Erano loro a inviare messaggi più o meno ermetici, a suggellare la veglia sulle umane questioni che da lassù, da quei cieli abitati, apparivano nel nitore di una trama precisa, tessuta da mani invisibili. Il sogno apparteneva a chiunque, alla strega e al sacerdote, al patrizio e al plebeo, al vecchio e al bambino.
Di sogni profetici è costellata ogni storia, sacra o laica che sia.
E se mentre Giacobbe sogna gli angeli vanno e vengono dal cielo, quando l’incubo notturno squassa la mente ogni deformazione luciferina arriva, con un brivido, a farci visita.
Eppure il sogno non è una realtà univoca. È ambiguo come ambigua è la vita dietro le apparenze della “ragione”.
Il sogno incanta, inganna, mescola, confonde. O chiarisce, certo. Dipende da sorti a noi impenetrabili.
Di certo nell’era moderna è Freud a ritrovarne il senso smarrito. Il progresso dei lumi, le sorti “magnifiche e progressive” lo avevano relegato nello spazio un po’ stravagante delle questioni “irrazionali”; svuotato del sacro di cui era parte, il sogno rimaneva appeso in una notte che non si faceva troppe domande.
Freud arrivò. E ne recuperò l’importanza. Ne indicò i simboli moderni che affiancarono gli antichi arcani.
Il sogno, dicevo, non è mai razionale né univoco. Ha tante direzioni possibili, collude o confligge con i nostri pensieri, ci precede o ci accompagna, si insegue di notte ma si insinua nel giorno, colorando la realtà attraverso una sottile invadenza che negli “occhi aperti” fa ritrovare la strada delle fughe notturne.
Ogni sogno è importante. Non ci sono sogni “maggiori” o “minori”. La partitura della musica onirica compie ogni giro e conosce ogni chiave. E se è vero che i sogni profondi ci restano addosso, è anche vero che i piccoli, “insignificanti” sogni in cui svuotiamo i residui diurni ci aiutano a integrare le esperienze che viviamo e che abbiamo vissuto.
Alcuni sogni sono “di razza”, sì. Ma anche i “meticci” hanno la loro importanza.
E di giorno, a occhi aperti, tutti continuiamo a sognare.
Sogniamo un mondo migliore, evadiamo dalle grotte del quotidiano per volare liberi, in alto, sollevati dall’ansia della materia.
Eppure se il sogno ci invade troppo diventa prigione. Perché la realtà è qui, adesso. Non ha vie di fughe, non offre scampo. Si accade, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno.
Per calibrare sogno e realtà ci vuole un buon ago nella nostra bilancia.
Se l’uomo ha sempre esplorato i territori del sogno per dar vita a ogni slancio creativo, è anche vero che a volte nei sogni si è perso per sempre.
Entrare e uscire dal sogno richiede talento, sforzo e misura.
Per questo dobbiamo muoverci con molta prudenza da svegli.
E lasciarci sprofondare, di notte, nei luoghi impossibili abitati da ogni possibilità.
Online il nuovo numero di Silmarillon. Il dossier è sul tema del sogno.
Un grazie a tutti quelli che ancora una volta mi hanno regalato il loro tempo e la loro scrittura. Grazie, davvero.
TUTTI SU FAKEBOOK
Confesso: ho ceduto anche io alla tentazione. Sono su Facebook. Del resto, il mio lavoro si basa di comunicazione si basa anche sulle nuove tecnologie e i nuovi strumenti offerti dal web. Giusto, dunque, andare a dare un’occhiata.
Anche perché per visitare il sito devi essere registrato.
Così ho creato la mia pagina, provato a caricare qualche foto, cercato vecchi amici (ecco, di fatto su questo punto funziona davvero: ho ritrovato care persone nell’altra parte del mondo, sfumate nel tempo come accade ai titoli di coda).
Benissimo, bella esperienza. Con un click ritrovi vecchi amici. Ma poi? Che si fa su Facebook tutti i giorni? Si chatta, si chacchiera, si aggiornano le proprie pagine.
E così ho cominciato a imbattermi in frasi assolutamente indispensabili:
"Mi sto facendo la doccia"
"Che palle questa pioggia"
"Ho fatto il test Che animale sei?"
"Vado al mare"
"Vado in montagna"
"Sto a casa e dormo"
Insomma, uno zibaldone di assoulta necessità, per me e per il resto del mondo.
E. a questo punto, mi sono ritirata. Non capisco, forse sono troppo involuta per questo modernissimo mezzo. Ma a me di commentare questi squarci di intensa autobiografia davvero non va. E di me non saprei che dire…Che scrivo?
Oggi ho fatto la spesa
Ma a chi interessa? A me no di certo: l’ho fatta.
Forse posso evocare dubbi filosofici, sociali o sistenziali, posso sollevare punti interrogativi…
"Se ho sette caramelle e me e rubano due quante caramelle mi restano?"
La "scribacchio-mania" che oggi imperversa ha aspetti interessanti ma, diciamocelo, anche aspetti del tutto inutili. Forse ci vorrebbe, che so, una specie di "raccolta differenziata" delle comunicazioni.-..
E poi c’è il solito, vecchio discorso: i rapporti virtuali sono anche una trappola. Anche se ci si conosce fuori dal web. Il test di "immunità"al riguardo? Basta vedere quanto tempo dedichiamo alle tradizionali, faticose e impegnative relazioni "fisiche" dopo le nostre incursioni sul web.
Per questo Facebook è anche un po’ Fakebook.
Ci sono tanti "falsi" in circolazione, e non parlo del fenomeno, certo inquietante, delle identità "apocrife" piazzate sul sito, ma del nostro modo di relazionarci agli altri attraverso l’immagine che si decide di dare, protetta dalla frontiera del nostro schermo e del nostro mouse.
E’ un discorso che abbiamo già affrontato più volte, qui al Mulino.
E quando su Facebook vedo gente incollata allo schermo, tutta intenta a produrre intensi commenti sull’amica che ha comprato la crema antirughe (wow! brava! adesso sì che prendi il sole!) mi domando se non sia meglio provare a vederli, questi amici. Specie se abitano nella nostra città.
Non so, ma io continua a piacermi il guardare le persone dritto nelle palle degli occhi.
E poi, ho sempre una domanda che circola liberamente nella mia testa: ma la gente non ha niente da fare???
Visto che il tempo è sempre carente, mi domando quanto ne resti, dopo queste prolungate soste su Facebook, per fare ciò che ci piace. E, soprattutto, incontrare esseri umani "dal vivo". C’è ancora la stessa differenza che passa tra l’ascolto di un Cd e un concerto dal vivo. Almeno credo. O no?
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