CIELI STELLATI
Ho avuto la fortuna, quest’estate, di guardare uno di quei rari cieli che si accendono in una notte priva di luci artificiali.
Quei cieli che all’improvviso illuminano la notte, la trasformano in una festa di luci brillanti circondate da una scia bianca, che le avvolge come un mantello. La Via Lattea. Quasi impossibile vederla, di notte, in città. Le stelle si occultano quando le luci artificiali manifestano la loro presenza. Quasi a sussurrare che il segreto del cielo si coglie solo nel mistero della natura, in luoghi lontani dalle metropoli e dalle campagne abitate.
Mi ha ricordato un altro cielo, in un altro luogo, anni fa.
Come allora, anche stavolta mi sono sentita in compagnia di ali celesti, di quelle voci degli dèi che raccontano, lassù, la strada delle stelle. Miti, leggende e simboli per infilare un briciolo di consapevolezza in quell’abisso di conoscenza.
Mi sono persa un poco fra i sentieri stellati, dimenticandomi perfino di cercare le stelle cadenti (che proprio per questo motivo mi hanno poi elargito generose donazioni di luci guizzanti), smarrita in quel cosmo così grande, così palpitante, così sacro. Penso a una poesia di Borges, che parla della Luna dicendo che le antiche genti l’hanno colmata di antico pianto.
Così come, aggiungo io, hanno colmato quel cielo di antico stupore.
E io, tra poco, sarò di nuovo nella miseria di notti metropolitane che hanno spazzato via quel manto stellato.
Tuttavia l’antico stupore sta sempre lì, a portata di cuore e di occhi. Ma bisogna andarlo a cercare…
LEGAMI
Tutte le cose vicine e lontane
da una forza immortale
segretamente
sono legate le une alle altre
tanto che non puoi cogliere un fiore
senza disturbare una stella
(Francis Thompson)
Vi lascio per un po’ con questa bella poesia. E’ un tema, quello dei legami e delle connessioni, sul quale sto molto riflettendo…
STORIE DI VITA E DI MORTE
Mi sono svegliata nella casa di mia sorella, come tutte le mattine, qui in vacanza. Ci abito solo io, per un mese, insieme ai miei gatti.
Quando mi sono diretta verso la cucina, guardando distrattamente il pavimento l’ho vista.
Era lì. Un piccolo geco, trofeo delle battute di caccia notturne di Anakin e Leila. Se me stava rovesciato per terra, pancia all’aria, con il corpo tranciato a metà, con la parte posteriore già irrigidita nella morte. Ma respirava ancora. L’ho girato, pietosamente. Lui ha tentato una fuga impossibile, i suoi occhietti spalancati e terrorizzati mi hanno fissato mentre agitava invano le zampette anteriori. Piccola, innocente creatura destinata a una morte che arrivava tardi, troppo tardi. Non so infatti da quante ore fosse lì. Forse da tutta la notte. L’ho sollevato delicatamente e poggiato su un pezzo di Scottex, gli ho accarezzato la testolina mentre i goccioloni mi scendevano sulle guance. Sì, lo so: è la natura. Sì, lo so: fa parte della vita. Sì, lo so: si vive e si muore. So tutto. Lo so con la testa. Ma con le emozioni non sono mai stata brava a reggere la sofferenza delle creature di questo mondo. E non sono mai stata brava ad accettare le leggi della natura. Forse le comprendo, ma non le accetto. C’è tanta ombra, e tanto dolore. E in più ogni volta che vedo un esserino predato non riesco a contenere la diga emotiva: si apre, e mi allaga.
Capita quando guardo un documentario, quando incrocio animali sofferenti o abbandonati, quando leggo di abusi e maltrattamenti. Non importa se sono animali. Sono creature. Sono anima-li, appunto. Sono importanti, anche loro.
La mia reazione diventa esplosiva, a volte, se devo assistere all’agonia. Come stamattina, come quando mi sono trovata davanti il geco a metà. Quella metà voleva vivere, a tutti i costi. Mi sorprendo spesso della forza della vita malgrado la morte, sembra quasi che tenti un’ultima sfida. Contro ogni ragione, ogni evidenza.
Ho preso il geco e l’ho appoggiato su una pianta, chiudendo la porta finestra perché i gatti lo lasciassero morire in pace. E ho aspettato, trepidante. Ogni tanto tornavo da lui ma stava lì, vivo. Si muoveva ancora. Finalmente, dopo un paio d’ore, era morto. Anche la parte superiore si era irrigidita, fissa per sempre in quella posizione strana, in quella rigidità che comincia sempre all’estremità di un ultimo sussulto, quel sussulto che fa fare al corpo un movimento radicale, quasi come venisse davvero artigliato dalla morte, alla fine.
Ero triste. Non ho mai accettato il gioco dei gatti, anche se non posso far nulla. Il fatto che nessuna bestiolina diventi poi cibo ma rimanga solo divertimento mi fa male. Come, certo, mi fanno male mille altre cose. Ma stamattina era questo che mi dispiaceva. C’era quel geco sulla mia strada. Un piccolo, insignificante geco che però mi faceva riflettere sulla mia incapacità di penetrare a fondo il mistero della natura, e dei suoi cicli. La mia sensibilità si ribella per quanto la logica ne afferri bene la necessità.
Tristissima, sono uscita di casa e sotto il sole cocente mi sono imbattuta nel mio vecchio professore di francese. Un uomo che adoro, che ho sempre adorato. Uno dei pochi insegnanti veri che abbia mai incontrato. Da vent’anni continuiamo a volerci bene, a stimarci. Non più insegnante lui, non più allieva io. Solo un uomo e una donna, finalmente.
Ci siamo raccontati. Come facciamo sempre. Parlando di piante e di campagne, ha deciso di invitarmi nel suo giardinetto per ammirare la bouganville di venti metri che copre tre piani della palazzina. Ne è orgoglioso come di una figlia. E in effetti era un tripudio, una festa per gli occhi, una magica sosta di viola e di verde nel percorso sempre troppo uguale delle nostre case. Abbiamo apprezzato insieme i plumbago, con le loro nuvolette azzurre rubate al cielo, e il gelsomino, e tutte le piante e i fiori che lui coltiva in disordine (grazie a Dio) creando una macchia selvaggia dove la natura ritrova se stessa. Guardavamo le nuove gemme della bouganville, e io sentivo, forte, la vita. Mi ha perfino regalato una piccola pianta dai fiori blu, bellissimi, penetranti, due laghi di notte. Così sono tornata a casa con un vaso e una pianta. E un piccolo sorriso disegnato in faccia.
Riflettevo, più tardi, su questa mattina intensa, imprevista. Prima avevo assistito all’agonia di una lucertola, poi all’alchimia di una pianta meravigliosa che vuole toccare il cielo per ornarlo di viola.
Morte. Vita.
Questa è l’esistenza. A volte terribile, difficile da comprendere nei meccanismi di luci e di ombre, di gioia e di sofferenza. In ogni istante, qualcosa muore e qualcosa vive. Provo ad accettare.
Se solo riuscissi a osservare questa danza senza farmi travolgere…
Ma è la mia natura. E ho deciso di accettare anche questa.
I’D LIKE A FRAPPUCCINO, PLEASE…
Vivere a cavallo di due nazioni, di due culture, di due lingue, essere incerti s epensare in inglese e poi scrivere in italiano o se pensare in italiano e parlare in inglese, è un privilegio, certamente, ma anche una fatica. Ha tuttavia i suoi momenti di spasso, come accade quando in america, imporvvisamente, diventa di moda scimmiottare l’italiano per vendere più bevande e cibi, come sta accadendo ora.
Escono parole comiche, espressioni ridicole, concepite al solo scopo di suonare più seducenti alle orecchide dei consumatori e dare un nonsoché di esotico, genere Vacanze romane.
La catena di caffetterie che ha infestato gli Stati Uniti partendo proprio dalla città più distante dall’Italia, Seattle, offre una lista di variazioni sul tema cappuccino che non mancano mai di sbalordirmi: frappuccino,latteccino, mokaccino, serviti da uno studente o un pensionato che è obbligatorio chiamare "barista".
(…) Ma dove si raggiungono vertici di comicità involontaria è nei prodotti che vorrebbero richiamare l’Italia senza sapere coasa dicono davvero, e quali rischi presentano alle nostre orecchie. Per capitalizzare sulla popolarità di un altro classico italiano. la "bruschetta", nei reparti di surgelati al supwermercato è comparsa la "freschetta", espressione che non incoraggerebbe al consumo abitanti del centro sud italiano.
La catena Dunkin’Donuts, per rispondere all’offensiva delle italianate di Starbucks, ha fatto esoridre quest’estate un beverone chiamato "coolata", che va obbligatoriamente pòronunciato "culata". Lei cosa prende? Una culata. Non la ordinerò mai.
Vittorio Zucconi, da Hotel America.
Sono d’accordo con lui. E pensare quante scene fanno loro, gli americani, per le nostre storpiature. Ricordo ancora quando, tanti anni fa, ero in fila al Mac Donald.
Domandai, insieme alla colazione, un po’ di "milk".
"Milk"
"What?" fece la cassiera, sorpresa.
"Milk"
"Whaaat?" proseguì lei mentre la fila ietro di me cominciava a stranirsi.
A un certo punto le si accende la lampada in faccia, e la genietta esclama:
"Ah! Melk!"
Sì, melk. Infatti "milk" si pronuncia "melk".
Vabbè, ma è come se un americano al bar ordinasse una "gazzasa". E che cavolo ,non si capisce?
E vabbè. Melk. Melk. Meeeeelk.
Vacanza
Eccomi di nuovo a Senigallia. La mia terra natale. Come tutte le estati, il mare rinnova la sua quiete, quella che mi accoglie la mattina presto, quando il cielo conserva ancora la freschezza della notte, oppure la sera tardi, prima che la coperta di stelle copra le onde che muoiono sulla riva.
Peccato che, in mezzo, la ressa sulla spiaggia distrugga questo benvenuto torpore, in cui i sensi, languidi, planano sulle giornate di sabbia e di sole.
Anche quest’anno gli ombrelloni, sempre più aggressivi, dominano la spiaggia lasciando poco spazio al riposo degli occhi. Una caciara allegra, colorata, disordinata, abita quegli spazi condominiali in cui ognuno ricava la sua piccola abitazione estiva, tra una sdraio e un lettino.
Ma a me non piace. Non mi piace questo turismo “palestrato” condito con musiche e giochi da spiaggia. Non mi piace questa spiaggia pettinata, stirata, sciupata da un’accozzaglia di costruzioni.
E il pensiero vola verso luoghi più deserti, in cui il mare è mare. Libero, selvaggio, appoggiato su spiagge silenziose abitate da sassi e conchiglie.
Ma noi lo vogliamo così, il mare. Simile a un palinsesto televisivo, ricco di programmazioni ludiche per dimenticare la beatitudine di un’ozio in cui la mente si perde in se stessa.
Ci fa così paura, il silenzio. Ci spaventa anche se è accompagnato dalle onde del mare.
E ci fanno paura gli spazi liberi. Forse perché ci ricordano i nostri vuoti. E allora via, a riempirli di cose e persone, a consumarli come un cheeseburger.
Io non ci sto. Ed è per questo che al mare vado la mattina presto e la sera tardi. Insieme ai vecchi e ai bambini. Non a caso, le creature più sagge.
WEB: NAVIGARE A VISTA
Va bene, cambiare non è facile. Mai. Però a volte esercitiamo una vero e proprio pre-giudizio prima di conoscere davvero qualcosa. A me è accaduto con Vista. Forse perché, insieme alla pigrizia, avevo raccolto i numerosi malumori di esperti del settore, come alcuni amici webmaster o consulenti aziendali che lavorano sul web.
Solo che questi giorni, per cause di forza maggiore (il mio computer ha seri problemi tecnici) ho dovuto avvicinarmi a Vista in quanto il mio nuovo portatile ha, come tutti i portatili, il nuovo sistema che rimpiazzerà Explorer. Al quale, come tutti, sono molto affezionata.
Devo dire – con mia sorpresa – che Vista non è così drammatico come temevo. Sì, certo, presenta un funzionamento diverso, più articolato (si aprono insieme tantissime cartelle, tutte nello stesso momento), e all’inizio ci si sente un po’ spaesati. All’inizio. Poi, però, in modo intuitivo si cominciano a riconoscere le procedure diverse per lavorare sui nostri file, archiviarli, creare sezioni, ecc.
Ovviamente Explorer era più “semplice”, lineare. Ma, come sempre, è una questione d’abitudine. In fondo, pensiamoci: avremmo mai immaginato, anni fa, di trascinare immagini su uno schermo, tagliarle, inserirle in slide e presentazioni? O di usare l’editor del nostro sito, creando pagine intere attraverso un sistema di tasti?
Il punto è che per anni il nostro computer si è sempre basato su Explorer per fare ogni operazione. E noi ci siamo anche “adagiati”. Come succede con la solita strada che facciamo per andare dall’amica in campagna. E’ piacevole, accogliente e soprattutto priva di sorprese. Se un giorno però quella strada è chiusa per lavori in corso, dobbiamo cercare un’alternativa. E’ quanto mi è accaduto con il computer fuori uso. E ho scoperto che quell’alternativa forzata non mi dispiace affatto. E se pensavo di trasferire Explorer anche sul mio portatile, adesso sono decisa a proseguire la mia navigazione…a Vista.
Ci sono ostacoli, sorprese, opzioni che devo ancora capire, studiare. Ma non è poi così male. Davvero. A volte sono proprio le “pantofole della mente” a crearci il problema maggiore. Non vogliamo tirarci fuori dalle nostre meravigliose abitudini, non vogliamo davvero. E invece non è così male…
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