AVE MARIA N’INTENDO…
Non finirò mai di stupirmi. A volte perfino chi si occupa di faccende religiose…ne sa una più del diavolo.
Ecco l’ultima novità tecnologica: il rosario elettronico della Prex.
Non so voi, ma a me vengono i brividi.
Capisco, lo so che è passato molto tempo da quando le preghiere venivano trasmesse oralmente, ma da qui al rosario elettronico ce ne vuole.
Non commuovono le spiegazioni patetiche presentate sul sito: per i vecchietti che non si spostano, per insegnare ai bambini…
I vecchietti che non si spostano pregano a casa; perbacco, mica devono recitare l’Ave Maria al passo di tarantella! E i bambini, da sempre, hanno imparato lo stesso a pregare. Serenamente. Anche senza rosari elettronici.
Mi inquieta questa tecnologia commerciale che si inventa bisogni che non abbiamo, assolutamente inutili, e li spaccia come aiuti filantropici. Che schifo.
E noi, come polli, cadiamo su tutto. Ma proprio tutto.
Giacchè ci siamo, perchè non realizziamo un prete domestico che, come nell’ologramma di Guerre Stellari, ci recita una bella messa casereccia, magari serale che la domenica mattina alzarsi è fatica?
Io in Chiesa non vado, ma se ci andassi, se la frequentassi, vorrei continuare ad andarci. Con le mie gambe. E con la mia voce.
IL CIELO SOPRA ROMA
A volte basta davvero poco per stare meglio. Basta guardare per aria.
Lo faccio sempre, e sempre ne ricavo un respiro dell’anima, una dilatazione, un dolce sconfinare in luoghi che non so dire, e che per questo "sono".
Anche nel cielo invernale, in queste fredde giornate che anticipano la quiete delle giornate post-natalizie, mi perdo nei colori del cielo, lo faccio mentre cammino, o mentre attendo lo scatto di un semaforo con il mio scooter, lo faccio dalla finestra, accompagnata dallo sguardo acciambellato del mio gatto intento nel suo soave oziare. Lo faccio e mi sembra di allargare i miei confini, di essere meno "terra" e più "cielo", di scansare per un attimo, un attimo troppo breve, la gravità di questa materia che ci fissa, ci aggancia, ci radica ma allo stesso tempo ci tiene prigionieri nel suo divenire.
Ogni cielo, invece, dietro la mutevolezza dei suoi chiarori e delle sue nuvole di cotone, racconta di un tempo immutabile, di uno spazio senza perimetro, di altezze convesse e di magici destini.
Adoro alzare gli occhi per cercare il cielo. Ne seguo i giochi di luce fino a sera, fino a quando ogni stella si accende.
E mi sento felice. Così, senza motivo.
E’ come se i polmoni si allargassero, il cuore si dilatasse, e la testa penzolasse giù, finalmente inerte, ammutolita.
Il cielo della città va cercato, annusato. Sopra i palazzi, sopra gli scorci di grandi e piccole vie, ha i suoi angeli, come a Berlino.
Me li immagino lassù, a guardare i nostri piccoli, grandi affanni.
L’incapacità di fermarci, oggi, li ha resi ancora meno visibili. Ma a occhi chiusi, nella pausa di qualche profumo portato dal vento, può capitare di sfiorarne per un attimo l’arcana bellezza.
DOLCE PECCARE
Prendo spunto dagli ultimi commenti sul post precedente per parlare di un argomento a me carissimo: il cioccolato.
Tentazione, delizia, croce e godimento. Sono una cioccolatara convinta, almeno quanto Nanni Moretti (lo ricordate con la sua immensa Sacher?).
E, come tutti i cioccolatari convinti, ne adoro le declinazioni più classiche (Sacher, Tiramisu, Salame al cioccolato) ma ammicco anche agli esotismi (pasta al cioccolato).
Chiaro: il cioccolato fa bene all’animo. Lo tira su, lo solleva dalle quotidiane tristezze depositandolo su un Olimpo fatto di celestiali sapori.
E chissenefrega dei famosi "brufoli&ciccia": ne vale la pena. Ne vale davvero la pena.
Quell’istante di estasi, di beatitudine è il nostro riscatto.
Libera endorfine, combatte depressione e ansia.
Del resto, quando si pecca, bisogna peccare bene. Lo sa bene chi pranza o cena con me: quando si arriva al dolce, inutile ogni appello a tortine di mele o pere, mousse di crema, crostatine o gelati. Io finisco sempre per scegliere il dolce al cioccolato. Meglio ancora se accompagnato da un mare di panna.
Lo so, sono come quei bambini golosi che pasticciano con le loro manine e si infilano pezzi di cioccolata nel naso.
Ma non me ne vergogno.
E, come dicevo, se bisogna peccare, bisogna peccare "bene". Non vorremmo fare la fine degli ignavi di dantesca memoria? Se si prende il dolce, che dolce sia. E non c’è tentazione più…dolce, appunto, di quelle oasi di cioccolato.
Non aspetto il Natale, per questo.
Pecco spesso, pecco in continuazione.
Finirò nel girone dei cioccolati-dannati.
Sento già le fiamme dell’inferno, che tuttavia squagliano i pezzi di cioccolato rendendolo ancora più cremoso…
BUON COMPLEANNO A CHI?
Io non sono mai stata brava con i compleanni. Mi scordo perfino quelli dei miei parenti più prossimi, perfino quello di mia madre. Freud ci andrebbe a nozze. Io mi sono abituata, direi. A NON ricordarli.
Ma ora, con Facebook che ogni giorno mi segnala compleanni vari, è diventato un gioco da ragazzi. Ma non mi piace, questo gioco. Il "segretario" elettronico mi mette un po’ di tristezza. La "memoria affettiva" ha ben altro sapore. Un compleanno ricordato via computer (o via cellulare) è un po’ come quei messaggini tutti uguali che si mandano a natale o a capodanno. Quelli in serie, come la Ikea.
Anche questi "memo" mi stanno antipatici, sebbene ne riconosca l’efficacia. Un’efficacia assoluta. Stasera, per la prima volta in dieci anni, mi "sono ricordata" del compleanno di un mio carissimo amico. E andiamo a cena fuori. Offro io, è il mio regalino. L’avevo detto che questi memo non sono una gran trovata…
PUBBLICITA’ REGRESSO
Ho appena scritto un post sui gatti, ma, a rischio di sembrare monotematica, non riesco a trattenermi dal commentare una pubblicità incrociata durante la lettura dell’inserto femminile del Corriere, pubblicità che ha a che fare con ermellini, visoni e cincillà. A costo di sembrare la Bardot de noantri, preferisco scriverne.
Pagina doppia pubblicitaria: sulla destra, il logo della Colombo, prestigioso lanificio che vanta negozi perfino a Vienna e Parigi. Benissimo, se non fosse che un gomitolo di lana…non è uguale al pelo di una pelliccia.
Sulla pagina di sinistra, la pubblicità recita:
La passione della qualità
Allevare e selezionare cashmere, visone, ermellino e cincillà per ottenere da questi meravigliosi animali pochi grammi, ogni stagione, di finissima materia prima. Nasce così il prodotto Colombo che esprime il nostro stile di vita dove i valori diventano cultura e la cultura diventa qualità.
Cosa cosa?
Sappiamo bene quali torture subiscono gli animali da pelliccia, moda che speravo estinta, spazzata via dalla terra, e che invece quest’anno sembra tornare sulle nostre passerelle. "A volte ritornano", ci avvisava Stephen King. Già.
Moda di pessimo gusto, che non risponde più a nessuna reale esigenza. Non sono graziose, infatti, le moderne alternative al classico pellicciotto? Davvero non resistiamo al macabro fascino? Per fortuna abbiamo fatto passi in avanti, in questo decennio, mostrando cosa significa trucidare "questi meravigliosi animali", come dice Colombo, scuoiandoli vivi per non sciupare il loro prezioso tesoro.
Buffo, poi, veder circolare signore in pelliccia nel morbido (rispetto al clima) ventre di Roma. Manco fossero le amanti del dottor Zivago.
Allevare ermellini e pecore non è la stessa cosa. Andiamo. Ma, la cosa peggiore, è il tono della pubblicità, che parla di "valori che diventano cultura". Ma quale cultura? Quali valori? Lo sfruttamento gratuito degli animali a favore del nostro godimento estetico non esprime nè cultura né valori. Esprime solo mediocrità. La pelliccia non è un valore. O meglio, l’unico valore che rappresenta è quello economico.
Davvero, le alternative oggi ci sono. Materiali termici e isolanti, pelicciotti folti, colorati, che abbelliscono giacche, piumini e cappotti.
Ma, a quanto pare, per alcuni il fascino della pelliccia vera è irresistibile. Ricordo una pubblicità, molto efficace, che circolava circa vent’anni fa. C’era la foto di un bellissimo cucciolo di volpe, e sotto la scritta: "Questo cucciolo sta cercando la sua mamma. E’ forse nella tua pelliccia?".
Lo domando a Colombo?
IL “GATTESE”, UNA LINGUA MAGICA
Anakin
Sebbene il mio lavoro abbia a che fare con le parole e con la lingua italiana, non riesco a non rimanere affascinata da un altro linguaggio "straniero", che può essere studiato solo empiricamente. Né corsi, né tesi di laurea. Il gattese richiede solo attenzione, empatia, curiosità.
Intanto, diciamolo subito: a differenza dei cani, i gatti non passano mai inosservati. O li si ama, o li odia. Li si può anche "odiare moderatamente", passando attraverso varie sfumature. Ma, sempre, suscitano reazioni forti.
Perchè il gatto è il meno domestico degli animali domestici. Non potremo mai "possederlo", e per fortuna. Non ti dirà mai, un gatto, "Guarda, sei il mio padrone e ti amo incondizionatamente, fa’ di me ciò che vuoi". Questo amore devozionale appartiene al mondo dei cani.
I gatti, loro, fanno quello che vogliono, eppure nella loro amabile "indifferenza" ci amano molto. Sono solo creature libere, libere davvero.
Ma si affezionano, hanno un mondo emotivo. Ci sono storie di gatti straziati dal dolore per l’assenza dei loro "padroni" (più coinquilini, che padroni), di gatti che si sono buttati dalla finestra per seguire il "gattone" umano precipitato di sotto.
Quindi la leggenda del gatto egoista e indifferente, solitario per eccellenza, va sfatato.
Studiando il loro linguaggio si scoprono molte cose. Quando è felice, il gatto drizza la coda formando una specie di punto interrogativo alla fine. E quando è felice? Non solo quando mangia, ma anche quando ci vede, a meno che non siamo stati assenti per giorni (allora, offeso, ci ignora).
Quando un gatto è in imbarazzo, magari perchè puntando lo scaffale e spiccando il balzo è caduto, si lecca con finta indifferenza, come se non fosse accaduto nulla.
Quando ci osserva, socchiude gli occhi in segno di amicizia. E, soprattutto, esprime la sua gioia facendo le fusa. Alcune ricerche hanno mostrato che i gatti fanno le fusa solo in presenza di altri, uomini o gatti che siano, dunque si tratta di un potente strumento di comunicazione. Poi, da bravi paraventi, fanno le fusa e strizzano gli occhi anche quando vogliono mangiare (ma chi di noi quando vuole ottenere qualcosa non esercita qualche sublime arte manipolatoria? siamo sinceri…).
Quando invece tirano fuori la lingua sono nervosetti, come quando muovono la coda in modo un po’ nevrastenico, da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Ma la faccenda straordinaria, magica, misteriosa, sta nel loro potere di sentire i nostri stati interiori. Non è raro che quando stiamo male il gatto lo percepisca, e si accoccoli esattemente sulla zona dolente del corpo. Se si tratta di un malessere interiore, ci si avvicina partecipando con fusa e leccate (le fusa abbassano la nostra pressione sanguigna, esercitando, secondo me, una serie di vari miracoli).
Conoscere i loro linguaggi ci aiuta a conoscere meglio noi stessi. Sempre presenti, immersi nell’attimo, oscillano da stati di rilassamento a stati di allerta con estrema facilità. In questo, non finiscono mai di stupirmi. In equilibrio fra gli opposti, sanno godersi il momento in modo molto…zen.
Nella nostra società asfittica, epilettica, ricca di patologie varie, il linguaggio misterioso e allo stesso tempo semplice del gatto è un toccasana.
Ieri sera, distesa sul letto con i due mici che vivono con me, mi godevo il temporale. Tutti e tre guardavamo fuori dalla finestra, godendoci reciproche manifestazioni di affetto. Poi, all’improvviso, Anakin è balzato giù e se ne è andato. Ho provato a implorargli di rimanere, ma mi ha guardato appena e ha cambiato stanza. Lui, semplicemente, non aveva più voglia di stare lì. I gatti sono fatti così. E li trovo meravigliosi.
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