Nulla ci tira fuori chi siamo come l’amore.
Ci toglie le mutande, ci mette nudi davanti ai nostri limiti.
Ogni forma d’amore, da quella più nobile ai…calessi che scambiamo per sentimenti.
Perché le emozioni scoprono la pelle, la espongono alle tramontane, scompigliano i processi mentali con cui costruiamo le belle immaginette per i nostri presepi sociali e professionali. Non ci sono più il bue e l’asinello a scaldarci, la tempesta e la neve, niente più pastorello ma un mefistofelico diavoletto che ci punge con i nostri limiti, le nostre storie irrisolte, i nostri mai sopiti fantasmi.
Certo, anche la “pancia” mente, ma è meno furba della testa alla quale tutti ricorriamo, più o meno, per difenderci dalle emozioni che ci mettono in contatto diretto, e crudo, con ciò che siamo. Con le nostre parti più vulnerabili.
La conoscenza intellettuale, mentale, delle cose del mondo ci rende tutti belli, nobili, tutti potenziali “saggi” pieni di pillole da elargire. Ma quella conoscenza che non passa attraverso i pori della pelle, dell’esperienza diretta, non sarà mai realmente interiorizzata, realmente “cellulare”, impressa nelle profondità del nostro essere.
La testa è una grande via di fuga. E’ un grande cuscino su cui ci sediamo per governare il cavallo pazzo delle nostre emozioni, delle nostre “pance” così pericolose e compromettenti.
E se è vero che il centro è il cuore, beh, è più difficile “scendere” dalla testa al cuore che “salire”attraverso la pancia. Infatti la via dal basso verso l’alto è la via dell’albero, del passaggio fino al cielo per discendere di nuovo, ossigenati, dal cielo stesso.
Fare esperienza del mondo ( e non farne mera lettura, analisi e studio) è una cosa terribile. Chiede tanto coraggio.
L’istinto – per esempio – fa paura. Ma se continuiamo a scappare, ci spaventerà ancora di più. Così accade con tutto ciò che le nostre viscere reprimono. Succede con le rabbie, con gli amori incrinati, con i vissuti "scandalosi" che diventano forme di energia che, resa innaturalmente immobile, solida e statica, forma un sasso invsibile, una specie di “cancro” che invade, silente, il nostro corpo altrimenti vibrante.
Non è bello calarsi nel mondo delle passioni. Non è bello percepire i sentieri molteplici delle nostre emozioni, dei de-sideri che – stelle lontane e irraggiungibili – muovono il criceto nella ruota, in eterno, mentre noi non evadiamo mai dalla gabbietta.
Ma soltanto l’esperienza diretta, per contatto, con l’emozione ci permette di tentare di salire su questo cavallo incosciente, che galoppa a destra e sinistra , su e giù, trascinandoci dalle albe della nostra gioia ai tramonti della solitudine, dai nostri cieli assolati agli inferni delle notti più buie.
E così, molti scelgono una vita blindata. Sigillata dalla mente, chiusa alle emozioni, alla pelle, ai sentimenti che impacciano l’adulto meraviglioso che sbandieriamo tirandoci invece fuori paure, invidie, fragilità e gelosie. E tuttavia io preferisco sentire ogni limite, ogni meschinità, ogni irrisolto passato piuttosto che barattare con la mente l’inganno di un perbenismo rubato, di una saggezza scippata da qualche libro o qualche maestro, di maniere composte quanto posticce sedute sopra il tumulo di sentimenti ai quali è stato fatto un bel funerale. Anche la “pancia” è inganno, come inganno può essere l’amore, in cui mille illusioni bisogna attraversare prima di sollevare un velo infinitesimale di “verità”, un velo così sottile che un volo di farfalla lo strapperebbe.
Ognuno di noi ha bisogno di una testa, di una pancia e soprattutto di un cuore.
Ma le difese che costruiamo a volte superano la forza di una muraglia cinese. Difese mentali, corazze contro i sentimenti che agganciano sempre la nostra antica provenienza, i nostri mondi infantili, i nostri genitori che sulle cellule hanno disegnato, insieme a noi, progetti vari per i nostri destini.
Oggi molti uomini e molte donne preferiscono una vita tranquilla, al riparo dalle correnti di ogni tipo d’amore.
Il contatto con l’altro ti sbatte in faccia te stesso, ti tira fuori l’irrazionalità che nessuna ragione riesce a domare. E fa paura.
Le maschere sociali e professionali sono piccole icone perfettamente riuscite.
Ma dietro, dentro, si nasconde un pulsare segreto. Perché tutti, che lo riconosciamo o no, cerchiamo l’amore. Perché tutti sappiamo che da vecchi non conteremo i nostro trofei professionali, effimeri come l’ebbrezza di una bevanda alcolica in una sera d’estate, ma ascolteremo, dentro, la ricchezza degli scambi profondi che siamo stati capaci di avere. Se invece di quella ricchezza trovassimo un deserto, non ci sarà maschera che ci potrà consolare, né mente erudita che ci potrà salvare.
Amare significa mettersi in gioco, esporsi alle proiezioni, agli inganni, alle delusioni. Rendersi vulnerabili anche quando non ne vale la pena (fino scoprire cosa di noi ci ha condotto fino a quel punto, quale parte dimenticata o svalutata) siamo stati costretti a conoscere). È un gioco duro, spietato. Ma ci aiuta a conoscere noi stessi come nessuna lettura e nessun lavoro potranno mai fare. Perché le maschere si sgretolano e rivelano la parte fragile, pulsante, umbratile e meschina che nessuno vorrebbe mai vedere. Ma è accanto a quel “nero” che si scova anche un raggio di verità su noi stessi. Verità che, appena sfiorata, scompare di nuovo nel gioco delle maschere di un carnevale imperituro.