CUORE DI PLEO, IL REPLICANTE
Vi ricordate lo scandalo del Tamagochi, il pulcinetto virtuale che una decina di anni fa sollevò amori e proteste?
Oggi è solo un pallido ricordo rispetto alla sua forma più evoluta. Si tratta di una novità tutta americana (e ti pareva?). Da tre mesi, infatti, tutti pazzi per Pleo, il dinosauro-robot che spopola approdando, man mano, in tutto il mondo,.
Pleo cresce, si sviluppa e interagisce con il mondo esterno grazie ai suoi sensori sofisticatissimi. Ha occhi e orecchie, insieme a un carattere preciso.
Potete sciropparvelo su you tube, qui >>
Lo ammetto, anche io all’inizio mi sono addolcita vedendo questo cosino che emette versi strani, che sorride o sonnecchia, cammina e si siede come un qualunque animaletto domestico. E poi diciamocelo, un dinosauro è molto più “glamour” di un cane, fa molto vintage, oggi così di moda…
Ma dietro le sue sembianze pacioccone Pleo nasconde qualcosa di mostruoso. Dietro questo apparentemente innocuo robot si cela l’ombra del virtuale che sostituisce il reale perfino laddove non esiste davvero il bisogno, creando un’umanità schiava dei robot che crede invece di controllare.
Pleo è “programmato per avere emozioni”, come descrivono i suoi luciferini e già ricchissimi ideatori dellaUgobe, l’azienda più “in” nel campo delle creazioni meccaniche destinate al grande pubblico.
Programmato per avere emozioni. Già. Esattamente come i replicanti di Blade Runner. Ed è proprio così: il magnifico film che un tempo ci sembrava descrivere una realtà impossibile in realtà fu solo profetico, come molta letteratura di Dick.
Infatti Pleo, perfetto replicante approdato dalla fantascienza alla realtà, chiede attenzioni come un qualunque essere vivente. Ha fame, sete, vuole essere coccolato.
E’ già la mascotte di tutti, grandi e piccoli. George Clooney (al quale forse troppo Martini ha vaporizzato i neuroni), noto amante della zoologia esotica rimasto orfano del suo porcellino nero con cui divideva anche il letto, si è comprato Pleo dichiarando, tutto contento, di essere entrato in bagno una mattina scordandosi di salutare il suo sensibilissimo e permalosetto robotino che si trovava nella stessa stanza (per lavarsi i denti?). Per tutta risposta Pleo ha cominciato a scappare nervosamente per tutta la casa, offeso a morte. E rideva, Clooney, gongolando felicemente per i prodigi del suo pargoletto.
Mah.
Non c’è nulla da ridere. C’è invece da piangere. E molto.
“Ugobe transforms the relationship humans have with technology by giving machines a soul. We are the first company to transform the relationship between humans and robots by blending emotions and personality with logic in machines”, dichiarano i suoi demiurghi.
Trasformare le relazioni umane dando un’anima alle macchine?
Ma stiamo scherzando? La nostra, di anima, è già così in crisi, alle prese con un mondo sempre più finto, posticcio, dove tutti comunicano solo attraverso le nuove tecnologie (Facebook ad esempio è diventato la moda del momento, il luogo deputato alle amicizie e agli eventi sociali…io francamente preferisco ancora le chiacchiere al ristorante) continuando a media-re una realtà sempre più lontana, filtrata, bucherellata dalla pioggia acida di invenzioni meccaniche che invadono il quotidiano.
Hai voglia a fare pubblicità come “La mia banca è differente”. Nel mondo dell’automatizzazione tutto è spaventosamente uguale e…assomiglia a un microchip.
Non mi piace, questo mondo. Non mi piace la direzione che sta prendendo. I video su Pleo mostrano una serie di adulti rincitrulliti che si danno appuntamento per condividere gioie e ansie della loro convivenza con il piccolo dinosauro che sta già rimpiazzando cani e gatti (e poi non perde nemmeno il pelo, vuoi mettere?) nel cuore degli umani. Anche Pleo ha un cuore, certo. Ma di metallo e processori.
Non aspettatevi mica che faccia come Edward mani di Forbice, il protagonista cinematografico ispirato dalla verve visionaria di Tim Burton: a Edward-Frankestein il suo creatore al posto del cuore aveva messo un biscotto…
Pleo è finto. E’ la summa del velo di Maya. Eppure i grandi sembrano dimenticarselo. Non a caso il robot non si vende nei negozi di giocattoli ma nei grandi centri che ospitano elettrodomestici, da Trony a Euronics.
In Italia è appena arrivato. Ma già circolano i sintomi di questa nuova, pericolosa influenza. E non ci sono vaccini, ahimé.
Si può solo ricorrere alla capacità di discriminare, di guardare al significato simbolico e sociale di questo “giocattolo” che ci allontana ancora di un passo dalla vera essenza delle cose. Essenza pulsante, vitale, su cui alita un soffio cosmico che non ha nulla di tecnologico.
Lo stupore davanti alle meraviglie del mondo si fa sempre più piccolo. Eppure io, io ancora inchiodo il motorino per farmi rapire dai cromatismi di un gruppo di nubi traghettate dal vento. E penso che quelle nubi siano più miracolose, più stupefacenti di un robotino che mi fa gli occhi di Bambi.
Seduttivo anche lui, per carità. Ma ancora preferisco i miei gatti, con il loro cuore pulsante. Li preferisco anche se mi riempiono casa di peli, se si fanno le unghie sul divano nuovo e se fanno la cacca che puzza (a proposito, ma quella di Pleo?).
Io, Pleo non me lo compro. Clooney probabilmente direbbe: no Pleo, no party. Pazienza.
Che bisogno c’è di avere un animaletto robot? Perché questa smania di virtuale?
Il problema, come al solito, non sono le tecnologie ma l’uso che ne facciamo.
Quando ho assistito a un incidente chiamando subito l’ambulanza con il cellulare ho pensato al lato luminoso della Forza Tecnologica, ma noi, come i Sith di guerre stellari, preferiamo sempre la via breve, comoda, scegliamo il lato oscuro che rimpiazza la vita laddove non esiste assolutamente la necessità.
Siamo immerso in Matrix, ogni giorno di più. Affoghiamo credendo invece di volare.
Vorrei che tutti i Pleo del mondo facessero come Hal 9000. Ci starebbe bene. Ma succederà anche quello, un giorno. Un giorno forse non così lontano…
QUANDO AL POSTO DI PHOTOSHOP C’ERA DORIAN GRAY…
Lucrezia Borgia
Oggi ci scandalizziamo per i fotoritocchi al computer. Il loro uso è quasi selvaggio, tanto che i grafici si specializzano nelle acrobazie garantite da Photoshop perché aumenta la resa e il lavoro.
Le foto dei personaggi celebri mostrano deretani, seni, muscoli, visi e corpicini scolpiti. Tutti belli, precisi, appetibili.
Tutti taroccati. Anzi, ritoccati.
Da qui lo scandalo di alcuni.
Certo, non è bello sapere che quasi sempre abbiamo davanti un’immagine posticcia alla quale hanno tolto qualche chilo di troppo oppure hanno sollevato un poco le tette con un sapiente gioco di ombre cinesi…
Il problema è che il computer oggi rende tutto immediatamente trasformabile grazie al controllo del virtuale che si fa realtà tangibile.
Però il fotoritocco non nasce certo con internet che, in realtà, ne meccanicizza e ne esaspera, moltiplicandole quasi all’infinito, le possibilità.
Prima della fotografia esistevano solo i dipinti: paesaggi e persone restituiti da mani sapienti. A volte…molto sapienti.
In effetti pare che i ritratti dei personaggi celebri – conti, imperatori, duchi e duchesse, regine e principi che hanno fatto la storia degli ultimi secoli – siano spesso stati abbelliti. Come nel caso di Lucrezia Borgia, miscuglio di fascino e ombra che ancora oggi seduce con la sua vicenda. La vediamo in molti quadri d’autore che ne esaltano i tratti delicati e allo stesso tempo profondi. E tuttavia a un certo punto i critici d’arte hanno scoperto che un anonimo ritratto raffigurante quella che sembrava una giovane qualunque in realtà rappresentava lei, Lucrezia, diciamo…"prima della cura". Il naso più ingombrante, gli occhi leggermente infossati sparirono poi dai ritratti ufficiali.
E non toccò solo a lei.
La fedeltà nel ritratto di sangue blu rischiava di essere viziata dal peso di una raffigurazione idealizzata, un po’ come si faceva con le antiche statue greche e romane che rappresentavano gli dèi (uno per tutti, il magnifico Apollo di Veio).
Solo che gli déi erano déi, ovvero "forme dell’anima", come scrive Campbell. E’ giusto che un dio sia Armonia e Bellezza suprema.
E tuttavia anche nel sangue reale si coagulava l’incarnazione divina. Di qui probabilmente la necessità di quel bello ideale ispiratore – nella resa pittorica – di molte lusinghe estetiche laddove la natura era stata poco generosa con il soggetto.
Ingentilire i tratti era una pratica diffusa quando si dipingevano per stirpi "patrizie".
Addirittura alcune regine non più giovani continuarono sempre a mostrare vent’anni in una eterna primavera anche nei ritratti dipinti durante il loro autunno.
Insomma, ritratti simili a quello di un Dorian Gray che non solo rimane giovane ma diventa anche più bello sotto lo sguardo dell’artista di turno.
Si sa, l’uomo da sempre insegue la bellezza non corrotta dal tempo, in un anelito costante che dona all’arte le visioni più suggestive. L’incanto senza tempo del Bello si fa struggimento, tensione verso.
In molti casi i visi e i corpi dei soggetti nobili venivano magnificati attraverso opportune aritmetiche dell’estetica; addizioni e sottrazioni studiate per ritoccare i tratti, ingentilirli e abbellirli.
Ritoccare, appunto. Un fotoritocco artistico, manuale, dal sapore di un tempo perduto che non è più.
Ma chi si scandalizza troppo per l’uso di photoshop forse dimentica questi "interventi" pittorici.
Si sa, il bello è una tentazione irresistibile. Come sapeva bene anche Dorian Gray.
MALCOSTUME INDIFFERENZIATO
Questi giorni si parla molto dell’ultima puntata di Report tutta dedicata al sistema romano della nettezza urbana, con il flagello nazionale rappresentato dalla famigerata discarica di Malgrotta con il suo gassificatore che esala fumi velenosi.
Un assessore del PD è stato costretto a dimettersi dopo la "figuraccia" fatta in televisione dove, con un intercalare denso di turpiloqui, credendo che le telecamere fossero spente ha continuato – l’ingenuo – a raccontarsi allo scafato giornalista, che ha così radunato una serie di pensieri poco graziosi relativi agli inquinamenti sull’inquinamento, cioè gli inciuci che coprono il business della spazzatura, vero "oro" non solo a Napoli (ricordate lo scandalo campano dell’epoca di Tagentopoli?).
Ora, quelli di Report saranno stati scorretti, d’accordo. Ma anche l’assessore è stato un grullo apocalittico: si sa che quel tipo di indagine giornalistica non guarda in faccia nulla e nessuno usando perfino il trucco delle telecamere spente, come nel caso di Bassolino.
Però la vera vergogna non è quella del giornalismo aggressivo di Report. La vera vergogna è ciò che è venuto fuori.
E cioè i legami "puzzolenti" tra Ama e Cerroni, il ricchissimo proprietario del gassificatore.
E lo scandalo della raccolta dei rifiuti che continua a gravare su Roma.
Rifiuti che in parte finiscono, in modo indifferenziato, proprio nel gassificatore di Malagrotta dove vengono bruciati insieme, allegramente, per ricavarne energia da vendere (energia i cui proventi vanno al Cerroni, ovviamente).
Non è sufficiente emettere decreti legge su quegli scioperati dei cittadini campani che insieme alla frutta buttano comodini e divani. Da noi le cose non vanno certo meglio.
Anche noi abbiamo le nostre "napoletanate", e una sana multa non farebbe mai male.
Nella civilissima Roma, caput mundi, sia l’Ama che i cittadini continuano a far finta di nulla.
Per quanto riguarda l’Ama, rivedetevi l’ultima puntata di Report (non basta un sito fichissimo che promette tanti buoni servizi sulla nettezza urbana per avere le "mani pulite" e le discariche a posto), e per quanto riguarda Roma…basta vivere nella capitale o visitarla per accorgersi delle buffonate che riguardano la raccolta differenziata.
Nella mia cittadina natale, a Senigallia, come in molti altri luoghi d’Italia, fuori da ogni casa ci sono i cassonetti condominiali, tutti puliti, tutti in ordine, tutti svuotati regolarmente ogni giorno (a Roma, in certi quartieri, pare a volte si scordino proprio di transitare…)
Accade anche in molte città europee, come la Germania.
Un brillante segno di civilità.
Invece no, a Roma no. A Roma come in altri capoluoghi nostrani la raccolta indifferenziata viene fatta all’italiana, ovvero in modo raffazzonato, furbetto, cialtrone.
Insomma, una raccolta alla carlona, in poche parole.
Per non voler spendere soldi che devono invece andare nelle gonfissime tasche di chi gestisce le tasse che noi poveracci paghiamo e che dovrebbero migliorare i servizi statali, si peferisce usare i cassonetti giganti, sparsi qua e là senza logica. Dove lavoravo, sotto l’ufficio troneggiava solo il cassonetto verde (sotto un ufficio, ripeto, e vicino a due negozi enormi di ferramenta e alimentari che ogni giorno buttano quantità industriali di scatoloni); per raggiungere quello bianco dedicato alla carta bisogna farsi a piedi tutta la via. Quando ho traslocato, mi sono caricata pacchi di giornali sulle spalle e ho percorso tutta la strada per buttarli nel giusto contenitore. Che posso farci? La maleducazione civica mi dà fastidio. Peccato, però, che dentro il contenitore abbia trovato materiale organico, lampadine, ferri e vetro.
Lo stesso accade sotto casa mia. Tu, da bravo, separi e distingui i materiali che getti, poi però ti accorgi che gli altri fanno come gli pare. Cioè se ne fregano dando vita a una bella macedonia di rifiuti. Ciliegina sulla torta: mobilia e materiale informatico.
Certo l’Ama non ci dà una mano, con i cassonetti mal distribuiti lungo tutta la città.
E spesso non offre certo il buon esempio.
Un mio amico dice addirittura di aver visto, una notte, il camion dell’Ama che raccoglieva in modo indifferenziato la spazzatura differenziata.
Non so se si tratta di una leggenda metropolitana da lui inventata, ma non metterei la mano sul fuoco sulla finzione…
Ecco che sia i cittadini sia le istituzioni pubbliche preposte alla gestione della mondezza preferiscono molte volte fare i loro comodi piuttosto che aiutare un paese e un pianeta ormai prossimi al coma.
Io, non ci riesco. Anche se insieme al vetro trovo le arance buttate dal supermecato non riesco a chiudere gli occhi.
Non servirà a nulla, la mia povera raccolta da "formichina". Troppe cicale in giro.
Ma quantomeno serve alla mia coscienza.
Ci sono coscienze, in giro, che somigliano molto alla discarica di Malagrotta…
IN NOME DEL FIGLIO
Eri giunto così in alto con le tue sole forze che di conseguenza nutrivi un’illimitata fiducia nelle tue opinioni. E questo non mi affascinava tanto da bambino quanto più tardi, nell’età della crescita. Dalla tua poltrona dominavi il mondo. Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale, folle, anormale. Nutrivi una tale fiducia in te stesso che non ti sentivi affatto in dovere di essere conseguente, ma non per questo cessavi di avere ragione. Poteva anche accadere che su un particolare problema tu non avessi alcuna opinione, e allora tutti i parei possibili al riguardo dovevano essere sbagliati, senza eccezione. Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero (…)
(Franz Kakfa, Lettera al padre)
Leggere la lunghissima lettera che Kafka scrisse a suo padre è un’esperienza dolorosa ma illuminante. Chi ha amato – come me – il suo genio assoluto non potrà non tracciare una linea dritta che lega tutte le sue opere al soffertissimo rapporto con suo padre.
Il senso di colpa, l’enigma, il processo che condanna senza giustizia e senza appello qualcuno ("ancora dopo anni mi impauriva la tormentosa fantasia che l’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, potesse arrivare nella notte senza motivo e portarmi dal letto sul ballatoio", scrive ricordando un episodio dell’infanzia), la metamorfosi di un uomo "senza qualità" che si trasforma in un insetto diventano improvvisamente più chiari alla luce del rapporto che condizionò e trasformò tutta la sua vita.
Un padre padrone che frustra i talenti letterari del figlio, che lo giudica un incapace, un essere tormentato e irragionevolmente inquieto, diventa così l’elemento creativo nel quale la sofferenza si veste di parole, dando luogo alla letteratura. Sofferenza che, in Kafka, non se ne andò mai.
Il padre e la madre possono essere pietre d’inciampo quando il rapporto diventa complesso, difficile. I loro fantasmi allungano la loro ombra per tutta la vita. Ecco che alcuni, però, trovano ispirazione nell’arte. Anime vulnerabili, esposte ai venti dell’incomprensione, che tuttavia fanno del dolore legna che arde bruciando nel fuoco della creazione artistica.
Forse non c’è neppure talento senza dolore. Non è un inno al masochismo, ma una constatazione che nasce dall’osservazione dei fatti privati e degli stati d’animo di una folta schiera di scrittori, pittori, musicisti.
In Kafka il marchio del padre dà vita a una sorta di lettera scarlatta che imprime una svolta decisiva nel suo destino.
E il figlio malaticcio, sfortunato, problematico, diventa uno dei talenti più brillanti del secolo scorso, un vero gigante della letteratura.
Molti geni sono figli dell’incomprensione con i genitori. Figure complesse, queste. Angeli e demoni dei nostri giorni, quando magari ci troviamo a "combattere con forze infantili in età adulta", come Kafka scrisse a suo padre.
Il bambino che è stato è lì con noi, e non è detto che sia gaio come il fanciullino di pascoliana memoria.
Magari è sbrindellato, ferito, sospeso nei territori inconsci in cui il tempo tace. Fragile, umbratile, lunare, si nasconde dentro e dietro l’adulto condizionandone le decisioni.
Il bambino che fu Kafka muove la penna dell’adulto, ne guida con mano sicura le intenzioni e i pensieri.
Così accade a ognuno di noi, nel bene e nel male.
Un padre non certo facile, quello di Kafka. I caratteri non si conciliano solo in virtù della condivisione di uno stesso sangue. A volte chi dovrebbe educarci diventa il modello dal quale fuggiamo, il modello che non vorremmo mai ripetere, quello che ci visita nei nostri incubi.
A un certo punto della vita, però, si deve avere pietà. Per sé stessi e per quei genitori nei confronti dei quali non siamo riusciti a trovare un varco, un passaggio capace di diventare un luogo di incontro.
Kafka decise di scrivere questa bellissima lettera in modo "da rasserenare un poco entrambi e rendere più facili la vita e la morte".
LE COSE CHE NON CONOSCO DI TE
Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo. Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro: a una festa, divisi in mezzo alla gente, ci troviamo a esprimere le loro opinioni, i gusti in fatto di libri e di cucina, a raccontare episodi che sono nostri, ma loro. Li osserviamo quando parlano e quando guidano, notiamo come si vestono e come intingono una zolletta nel caffè e la guardano mentre da bianca diventa marrone, per poi, soddisfatti, lasciarla cadere nella tazza. Io osservavo la zolletta di mio marito tutte le mattine: ero una moglie attenta. Crediamo di conoscerli, di amarli. Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena. Risalire all’originale è impossibile. E pur avendo visto tutto quello che c’era da vedere, che cosa abbiamo capito?
(Andrew Sean Greer, La storia di un matrimonio)
Lo straordinario incipit di questo romanzo merita una bella riflessione per tutti.
Mi piace, stavolta, non scrivere. Solo fermarmi, e pensare.
QUESTIONI DI IDENTITA’
L’altro giorno – di pomeriggio presto – mi aggiravo in libreria, con la stessa aria furbacchiona di un bimbo che ha rubato la Nutella. In effetti nella "controra" o si riposa o si è già nuovamente al lavoro, dopo la pausa pranzo.
Io invece vagabondavo nella libreria Mondadori, ciondolando senza fretta davanti alle pile di libri. Avedo deciso di regalarmi tutto il tempo che volevo, senza fretta e senza meta letteraria. Infatti non sapevo cosa comprare…
I miei occhi hanno frugato fra le novità, accarezzando i dorsi freschi di stampa, poi hanno frugato nella saggistica, sezione psicologia. Tornata ai romanzi, mi trovavo nei pressi dei classici quando mi sento chiamare per nome e cognome. Mi giro e riconosco nell’addetto Mondadori il mio ex allievo P., che non vedevo da sei anni, da quando ero stata la sua insegnante al corso di tecniche di redazione che all’epoca dirigevo per un’agenzia letteraria.
Lo riconosco subito, P. Non è cambiato. Tutto contento, mi dice di lavorare in questa libreria e di trovarsi bene. Conversazione piacevolissima, breve ma intensa coagulazione di ricordi dolci di tempi che non sono più.
Poi lui torna al suo lavoro, io ai miei scaffali. Ma all’improvviso mi rendo conto di non essere più anonima, lì dentro. Non sono più una donna qualunque che cerca libri qualunque in mezzo a una folla di sconosciuti. Sono Francesca Pacini, la ex insegnante di P.
Questo dettaglio – mi rendo conto – ha come stretto un poco, solo un poco, con un laccio la mia libertà di movimento e di scelta. Già, il discorso delle aspettative. Lui si aspettava che comprassi un libro intelligente, profondo, come quelli che suggerivo in classe quando conversavo di letteratura con i miei allievi. E se invece avessi comprato "I love shopping" della Kinsella? Oppure l’ultimo libro di Paolo Crepet? O magari il Manuale per sconfiggere il principe azzurro? (giuro che esiste…)
Di fatto l’anonimato ci rende più liberi. Che ne siamo consapevoli o meno, siamo sempre soggetti alle pressione delle nostre e delle altrui aspettative. Ci aspettiamo sempre qualcosa, da chi conosciamo. E da noi stessi, quando siamo conosciuti.
Possiamo riconoscerlo o meno. E tuttavia questa piccola pressione invisibile crea legami, condizioni, intenzioni.
Io mi sono sentita un po’ meno libera, in quel momento. Mi sono ricordata del ruolo di "prof." che ho abitato in quel periodo. C’era la Francesca presente ma anche quella passata, quella ri-conosciuta da P. La Francesca che parlava di libri e di come fosse importante l’impegno intellettuale. Quella che aveva tanto ardore ma probabilmente qualche ingenuità in più, all’epoca di quei corsi. Non c’era più, ora, eppure la sua sagoma era tornata per ricomporsi fugacemente sotto gli occhi di P. che ogni tanto incontravano il mio vagabondare.
Poi me ne sono fregata, e ho guardato di tutto, liberamente. Senza essere Francesca. Nè Pacini. Nè ex insegnante. Solo una donna qualunque in una libreria qualunque.
Ma ho comunque riflettuto molto suoi nostri ruoli, sulle azioni delle nostre scene che con il tempo cambiano o che rimangono immutate malgrado le variazioni, ho pensato all’irrevocabile peso di un’identità che non sfiora l’essenza, soprattutto se siamo esseri complessi, se siamo quell’"Uno, nessuno centomila" di pirandelliana memoria.
Quando nessuno ci conosce, ci sentiamo meno aderenti ai personaggi che, come tutti, abitiamo. Non importa quanto siano aderenti a questi personaggi, ci sarà sempre uno scarto, un orlo, un crinale fra l’Io pubblico che rappresentiamo e il nostro Sé.
E’ una questione di identità.
Di aspettativa.
Per questo il viaggio in luoghi stranieri è anche una liberazione. Smettiamo i nostri vestiti sociali, culturali, affettivi, professionali per misurarci con un ignoto che non ci chiede la carta d’identità se non siamo noi a presentargliela. Dono e occasione per sperimentare la possibilità di far vivere altro, di aprire le sbarre interiori nelle quali confiniamo ciò che non osiamo o non vogliamo conoscere, ciò che non è conforme a ciò che rappresentiamo agli occhi nostri e di chi ci conosce.
Lo sconosciuto è immersione alla ricerca di altri nuclei, altre essenze.
Ci dicono chi siamo da piccoli. Decidono come dobbiamo vestirci, cosa è bene per noi. E poi ci insegnano l’importanza di un’appartenenza. Guai essere "lupi della steppa", dobbiamo prosperare nelle giardini fioriti della nostra società che ha pronti tanti ruoli, di ogni tipo. Professioni, amori, carriere, famiglie…tanti quadretti, come quelli che sul muro espongono la laurea (magari il talento si misurasse su carta), ordinati, puliti, riconoscibili.
Ecco, quel giorno ero stata riconosciuta, appunto, e questa cosa, malgrado il piacere di un vecchio incontro, in quel momento mi aveva un po’ infastidita. Perchè ero malinconica e avevo bisogno di uno spazio intimo tutto per me, uno spazio bianco, senza segni nè tacche. Senza identità o memoria.
Poi, dicevo, me ne sono fregata anche se sentivo il "Francesca Pacini dei corsi" penzolarmi sulla testa, oscillando come un pendolo.
Comunque è andata bene. Quando sono andata alla cassa P. è arrivato per sincerarsi che mi facessero lo sconto. I suoi occhi sono caduto sul mio libro:"La storia di un matrimonio" di Andrew Sean Greer.
Lo sguardo di P. si è illuminato. "Pensa! Sto leggendo anche io quel libro! E’ molto bello, una scrittura e un testo particolarissimi…".
Meno male.
Pagina 36 di 83