RIFLESSIONE
L’aria fresca pizzica sulla pelle. Finalmente. Non ne potevo più di quell’umidità che rende tumefatto il cervello.
Mi piace il sole. E a chi non piace? Ma non mi piacciono più queste estati più vicine ai Tropici che al Mediterraneo.
Anzi, le detesto. Il caldo troppo aggressivo, l’aria densa, che pesa come un mattone sulle teste di tutti, mi fanno sognare il passaggio di nuvole e pioggia.
E penso all’improvviso al mio omeopata.
Quando vai dall’omeopata, lui cerca di capire che tipo sei, a quale "rimedio" appartieni. Una delle domande classiche è questa: "Preferisce il mare o la montagna?".
Beh, preferisco il mare ma solo la mattina presto e la sera tardi, quando il sole è lieve e ha addosso l’odore della notte. Quando ci sono solo i vecchi e i bambini, sulla spiaggia.
Sono i più furbi, loro.
"Prendono" il sole migliore.
A proposito, una curiosità. Chissà perché diciamo "prendere". Prendere il sole. Mica è nostro, il sole.
La nostra solita smania di possesso…
ARDORE DI POETA
Con usura nessuno ha una solida casa
di pietra squadrata e liscia
per istoriarne la facciata,
con usura
non v’è chiesa con affreschi di paradiso
harpes et luz
e l’Annunciazione dell’Angelo
con le aureole sbalzate,
con usura
nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine
non si dipinge per tenersi arte
in casa ma per vendere e vendere
presto e con profitto, peccato contro natura,
il tuo pane sarà staccio vieto
arido come carta,
senza segala né farina di grano duro,
usura appesantisce il tratto,
falsa i confini, con usura
nessuno trova residenza amena.
Si priva lo scalpellino della pietra,
il tessitore del telaio
CON USURA
la lana non giunge al mercato
e le pecore non rendono
peggio della peste è l’usura, spunta
l’ago in mano alle fanciulle
e confonde chi fila. Pietro Lombardo
non si fe’ con usura
Duccio non si fe’ con usura
nè Piero della Francesca o Zuan Bellini
nè fu "La Calunnia" dipinta con usura.
L’Angelico non si fe’ con usura, nè Ambrogio de Praedis,
nessuna chiesa di pietra viva firmata :"Adamo me fecit".
Con usura non sorsero
Saint Trophine e Saint Hilaire,
usura arrugginisce il cesello
arrugginisce arte ed artigiano
tarla la tela nel telaio, nessuno
apprende l ‘arte d’intessere oro nell’ordito;
l’azzurro s’incancrena con usura; non si ricama
in cremisi, smeraldo non trova il suo Memling
usura soffoca il figlio nel ventre
arresta il giovane amante
cede il letto a vecchi decrepiti,
si frappone tra giovani sposi
CONTRO NATURA
Ad Eleusi han portato puttane
carogne crapulano
ospiti d’usura.
(Ezra Pound)
Non mi interessa se Pound sia di destra o di sinistra. Non mi interessano – davanti all’arte – i colori politici, spesso appiccicati dopo che si è detto, scritto, fatto.
Nel post mortem a ogni artista viene regalata un’aderenza. Vecchia faccenda, quella dell’arte e della politica.
Di Pound ammiro il pensiero lucido, profetico, quel suo frugare nella civiltà moderna per estrarre con malinconica inclinazione i demoni che si agitano nei sotterranei.
L’economia come male moderno, il sistema bancario come luogo di indebitamento che consente il progresso di una società (progresso che, mentre lei progredisce, al rende più schiava, più indebitata, in un gioco perverso su cui si fonda il monderno benessere, il consumo che chiama consumo), il recupero della natura come luogo arcaico, spirituale che conserva le radici dell’essere. Questo, io amo in Pound.
Non mi stupisce dunque rivedere in televisione un estratto del famoso incontro con Pasolini. Due uomini uniti dal potere del mito, Pound innamorato dall’America dei pionieri, dei padri fondatori, dell’avventura libera; Pasolini sedotto dall’Italia contadina, ancora vergine, mai deflorata dalla corruzione delle grandi città.
Due uomini che la storia mette agli antipodi per le convinzioni politiche, ma che l’arte lega nella sensibilità che sente l’odore eterno di bellezza e armonia, quello dei primordi, prima che la storia fosse.
Pound e Pasolini si annusano, si riconoscono, si corteggiano. Si incontrano nei luoghi in cui il verso si fa coltello e squarcia le nubi del comune pensare, delle negligenze quotidiane, dei torpori in cui l’uomo si perde.
Sia Pasolini che Pound vivevano sulla pelle quello che Freud chiama "il disagio della civilità", ma soprattutto andavano un po’ più in là, esplorando quei confini da cui lo sguardo si perde nella lontananza in cui rimbalza il presente, e guardavano con gli occhi pazzi del profeta il mondo che sarebbe stato un domani. Domani che è oggi.
E oggi, oggi sento l’assenza delle loro voci.
Stanchezze
Sono molto stanco, non mi attendere capitano.
Che un altro annodi sul libro di bordo.
Un porto azzurro, le cupole, i platani.
Non mi ci puoi condurre.
(Nazim Hikmet, Poesie)
In una pausa dal mio lavoro, sfogliando le poesie di Hikmet, sublime poeta turco un po’ strapazzato da Costanzo che qualche anno fa ne abusava nel suo salottino un po’ demenziale, mi sono imbattuta in questi versi.
Semplici, composti, tersi.
E tuttavia intrisi di dolore, di malinconia profonda come profondo è ogni abisso che non possiamo evitare.
Vero, a volte la vita ci costa tanta fatica. Vorremmo scendere, e invece, invece dobbiamo fare "un altro giro di giostra", come lo chiamava Terzani.
Certamente Hikmet ha molto sofferto. Ma ha lasciato versi intensissimi.
Di nuovo, la domanda. L’eterna domanda. L’arte deve cibarsi della sofferenza per salire sulle sue vette?
Ne ho scritto spesso, qui e altrove.
Oggi preferisco restare in silenzio.
E respirare Hikmet. Ancora per un po’.
IL ROVESCIO DEL TAPPETO
Molto ho veduto, ma ancor piu’ ho riflettuto: il mondo si svela sempre più, e anche quello che sapevo da tempo, soltanto adesso diviene realmente mio. Quale creatura è l’uomo! Impara presto a sapere, ma tardi a mettere in pratica.
(J.W.Goethe, Viaggio in Italia)
Ho sempre pensato che l’universo tesse per noi un disegno speciale. Unico, irripetibile. Ma spesso non ne intuiamo la trama che dopo, quando è troppo tardi. Troppo tardi per rimediare, per cucire gli strappi, per sanare le bruciature dell’anima.
E vorremmo averlo girato prima, questo tappeto che invece è rimasto sempre a rovescio, mostrando un’accozzaglia di fili avvolti fra loro, apparentemente senza senso né direzione. E invece c’è sempre un orientamento, un percorso preciso. Ma noi procediamo a tentoni, come quando giocavamo, da piccoli, inventandoci la caccia al tesoro.
Esploriamo qua e là, scambiando ombre fugaci per orme, dettagli per indizi sapienti, e perfino amori per calessi, come direbbe Troisi.
Brancoliamo nella convinzione di aver catturato il disegno. Lo incorniciamo, lo appendiamo sulla nostra parete preferita, accendiamo una candelina immaginaria per scongiurare sciagure che ne rovinino linee e colori.
Salvo poi all’improvviso notare che stringevamo solo una macchia, non un disegno.
Oppure a volte siamo convinti di non seguire nessun percorso, nessun tracciato. E invece il disegno c’è, per ognuno di noi. Sta lì, con la sua trama arcana che solo il cuore può indovinare.
La vita è disseminata di indizi. Sono come cartelli stradali che ci invitano a svoltare a destra oppure a sinistra. Il problema è che i” segni” sono birichini: ciò che ci sembra giusto oggi si rivela domani sbagliato, ciò che ci rende felici ci farà soffrire, ciò che crediamo nero è invece bianco…
Insomma, il rovescio del tappeto non aiuta certo a vedere la trama. Ma lei esiste, al di là delle nostre miopie, dei nostri quotidiani guazzabugli, delle nostre inversioni di marcia.
E noi scivoliamo, pesanti o leggeri, su quella trama, spesso inconsapevoli degli eventi.
Eppure più avanti, guardando indietro, troviamo i pezzi. Sono come i tasselli di un mosaico che all’improvviso smettono di rappresentare dettagli incomprensibili e magicamente ricompongono una forma e un significato. Forma e significato della nostra vita.
Fortunato chi riconosce il pezzo che ha in mano mentre lo sta combinando con gli altri. Il saggio riesce a girare in tempo il tappeto per scrutare il disegno.
Ma quanto è difficile. Perché lui è un po’ come i mondi invisibili, sta “al di là” delle nostre rappresentazioni logico-razionali, delle nostre pretese di trovare assetti e giustificazioni per disegnare ciò che ci piace e non ciò che realmente qualcosa è.
E così facciamo pastrocchi. Ma per quanto pasticciamo il disegno non ci molla mai.
Solo, ci metteremo più tempo a capire. E a soffrire.
Perché nulla è più crudele del rimorso, nulla taglia le ali della speranza come il rimpianto.
E allora sarebbe meglio prendere il nostro tappeto per cercarne il disegno. E alla fine volare.
DI CANI E DI GATTI
Scrivere di cani e di gatti vuol dire ficcare il naso, anzi la penna, in un regno che ci è precluso a meno di non optare per un approccio diretto fatto di pelle, di odori, di fiuto.
“Loro” sentono, sentono tutto. Odorano la nostra paura (chissà che odore ha la paura? Me lo sono chiesta spesso. Può essere acre ma accompagnato da una sottilissima striscia dolciastra, quasi nauseabonda. Ha odore, la paura. E consistenza), ascoltano il ritmo del nostro respiro, captano le ondate emotive che continuamente ci attraversano, avanti e indietro, come maree. Stanno lì e ci conoscono, ci conoscono a volte meglio di noi.
Nella mia vita ho convissuto sia con i cani che con i gatti. E sono approdata a una convinzione: il cane è un essere “exoterico”, il gatto, invece, è “esoterico” (per esoterismo non intendo occultismi d’accatto ma mi rifaccio alla radice etimologica e simbolica della parola).
Mi spiego meglio.
Il cane sta lì, in religiosa adorazione, sempre munito di atteggiamenti liturgici, devozionali. Tu diventi il centro, il sole, il perno su cui ruota il suo satellite, sempre attratto dalla tua forza magnetica, qualunque cosa tu faccia. Anche se lo maltrattati, il cane continua ad adorarti con “fede cristiana” nello scioglimento del debito, nell’elargizione dell’altra…zampa.. Con il padrone il cane intrattiene un rapporto “di pancia”, scandito da emozione guaiti, ululati di disperazione davanti agli abbandoni e pisciatine di felicità quando, tutto tremante, ti accoglie dopo un lungo viaggio. E’ il tuo Argo, il compagno che sempre ti riconosce, anche quando le distanze si allungano. Il cane è semplice da leggere. L’unica cosa che chiede è un po’ d’attenzione (provo sempre una pena infinita davanti a quei cagnolini disperati parcheggiati fuori dai supermercati, pieni di tremori e paure, intenti a fissare angosciati la soglia magica sulla quale ricomparirà il loro smarrito padrone). In cambio ti dona tonnellate di affetto.
Ho avuto la fortuna di godere della compagnia di un pastore tedesco. Avevo vent’anni e lei mi guardava attraverso una rete, all’interno di un allevamento di cani. Ci siamo piaciuti. Anzi, piaciute. L’ho chiamata Brahma ( lo so, un nome un tantino impegnativo) ma il suo libretto, a causa del pedigree (o “pitigrill”, come dice un mio parente) imponeva che il nome iniziasse con la M. Dunque abbiamo scritto Mbrahma. Originale, no? Tanto poi è sempre stata solo Brahma. Se ne è andata dieci anni fa, il giorno di San Valentino. Io non c’ero, vivevo a Roma da anni. Il tumore se la mangiava, i miei non mi hanno avvisato e solo dopo, solo quando il medico l’aveva “addormentata”, come si dice (abbiamo sempre paura di chiamare le cose col loro nome, ed ecco che il cancro diventa “un brutto male”, la morte un “sonno eterno”…). Ricordo la rabbia, il dolore. Un cane ti entra dentro, scava, si fa una cuccia in qualche angolo del tuo cuore e resta lì, per sempre. Anche quando se ne è andato.
Il cane, dicevo, è “exoterico”. Con le sue liturgie, le sue maniere manifeste, chiare, aperte a tutte. E’ un vero devoto, un ortodosso degli affetti.
Il gatto, invece, è esoterico. Vive dentro e dietro le cose, in un mondo arcano vietato al suo padrone. Anzi, al suo convivente. Per un gatto, di fatto, siamo un felino più grande, un’appendice vivente del “suo” territorio (la nostra casa che diventa subito sua). Lui non ci adora come fa il cane. Con lui il rapporto va costruito giorno per giorno, senza nulla di garantito. Ci fa entrare nei suoi misteri solo se sappiamo pronunciare con “giusta vice” le parole di passo.
Vive in una sorta di terra di mezzo fra due mondi (non caso è l’animale di maghi e streghe), sospeso fra voci invisibili e invisibili creature a mezz’aria fra il cielo e la terra. Se il cane è “pancia”, lui è “testa”. Abile stratega, finissimo indagatore della nostra psiche, ci fissa imperturbabile come una sfinge mentre ci agitiamo davanti alle urgenze del giorno. Conosce segreti per noi impenetrabili, sembra avere confidenza con simboli e segni arcani, perduti nelle prime stelle del mondo. Adorato dagli Egizi, conserva la familiarità con mondi magici, remoti, fatti di notti piene di luna e di sussurri.
Con il gatto nulla è mai scontato. Devi conquistarlo, ogni giorno, come si fa con un amante esigente.
Ecco perché mi affascina, mi seduce, mi avvolge.
Vivo con due gatti, Anakin e Leila. Lui è un filosofo immerso nella contemplazione del mondo, lei una nevrastenica un po’ dissociata (l’altro giorno si è arrampicata sulla caldaia e si è messa a fissare il muro, con il naso a una distanza di un centimetro, per almeno mezz’ora) ma tanto, tanto adorabile. Forse proprio perché non ti dà nessuna soddisfazione, mai. I gatti fanno così. Fanno, semplicemente quello che vogliono. Quando vogliono.
I gatti comandano. Loro sono i padroni, tu l’ospite. Ma ti insegnano tante cose. Lo fanno in modo diverso dai cani. Il loro approccio è più intellettuale. O, se vogliamo, è metafisico-filosofico e non religioso.
Il gatto è un segreto, un buco nella serratura, un soffio di vento. E’ la tana del Bianconiglio, il bosco incantato, il labirinto. E’ l’occhio che guarda altrove, che cancella la linea di confine di ogni orizzonte.
Il cane invece è oceano pieno di onde, sole sui campi di grano, campana che suona sulla folla festosa.
E’ scintillio di luci e festa dei sensi.
Così diversi, i cani e i gatti. Eppure così uguali nel loro insegnamento. Ci aiutano a uscire fuori dai nostri confini, sempre troppo piccoli per il giardino sconfinato dell’esistenza. Ecco, con loro si esce fuori dal recinto, ci si avvicina alle radure dei nostri amori, dei sentimenti sublimi che loro, che ci sono così spesso maestri, riescono sempre a far fiorire. Ed è scoperta, gioia, stupore.
MAGIA DELLA NEVE
L’altra sera ho visto un documentario sulla storia dei musher, gli uomini che guidano le slitte trainate dai cani. Il termine risale, secondo la tradizione, all’epoca dei primi cacciatori di pellicce francesi nelle foreste del Canada settentrionale, i famosi trappeurs, che incitavano i cani alla partenza gridando: “March!”. Gli inglesi, dopo aver imposto la loro dominazione sul Canada nel 1763, storpiarono questo comando in “mush”, da cui deriva musher.
Un musher raccontava la storia del suo rapporto con i cani, del legame speciale, arcaico, magico, sottile, che collega insieme questi destini fatti di neve e di sguardi.
L’uomo e l’animale collaborano, si scambiano informazioni, suggerimenti, preoccupazioni, entusiasmi.
I cani non vanno lasciati soli, mai. Non appena il musher smette di partecipare attivamente al traino della slitta (deve sempre aiutare spingendo avanti la slitta con una gamba) o si ferma senza ragione ecco che loro, preoccupati, girano indietro la testa e formano un punto interrogativo muto, inquieto, sollecito. "Dai, allora! Che fai? Che succede?" sembrano dire con i loro occhioni di ghiaccio e di muschio.
L’uomo e il cane, insieme nella solitudine di una natura straordinaria ma anche aspra, indomita, pericolosa.
Ripenso alle storie meravigliose di Jack London, a quelle pagine indimeticate sul rapporto tra l’uomo e quella Natura a volte ostile a volte amica, compagna di sentieri selvaggi e solitari in cui l’anima si distende sulla neve mentre l’Ego resta imprigionato sul perimetro di un’orma fragile, sottoposta a una piccola, rapidissima esistenza cancellata dai primi fiocchi di neve.
I cani. I cani compagni, i cani amici, fratelli, confidenti.
Quel rapporto antico, poggiato sulle albe remote di una storia d’amicizia e di solidarietà, qui vive la sfida di traversate scandite da albe e tramonti, da notti fredde in cui il battito di un cuore di cane cade dolcemente, come una foglia in autunno, sul respiro dell’uomo, così come il battito di un cuore d’uomo soffia calore sui sensi festosi del cane che lo accoglie.
E insieme, in silenzio, si sta nudi davanti a una natura fatta di stelle e di nevi.
Quando la slitta sta per partire i cani si lanciano in ululati gioiosi, frementi per l’imminente partenza. Andare, andare. Per loro si tratta di andare, avanti, sempre avanti, in un tragitto che è meta.
Dovremmo imparare da questo andare in cui viaggio e meta coincidono.
Senza attaccamenti, godendosi il paesaggio che man mano si incrocia.
Mi ha ricordato, il documentario, il mio smisurato amore per Zanna Bianca e per quei richiami della foresta, richiami selvaggi, potenti, che nella mia infanzia spostavano la soglia della mia immaginazione portandomi in quelle terre lontane, fra quegli uomini capaci di empietà ma anche di compassione, così bestie e così angeli, così divisi tra l’inferno e il cielo.
E loro, gli animali. Sfruttati o amati.
E lui, il cane. Il cane delle nevi, dei ghiacci, delle lande deserte.
Il cane che aspetta l’uomo, aspetta sempre che torni anche quando se ne va lasciando da parte ogni speranza.
C’è da fare, in quei posti.
C’è da essere insieme per vivere la solidarietà che schiude le porte della dolcezza sciogliendo la neve interiore.
Solo una fiamma d’amore squaglia la neve e dissolve ogni freddo.
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