Sono molto stanco, non mi attendere capitano.
Che un altro annodi sul libro di bordo.
Un porto azzurro, le cupole, i platani.
Non mi ci puoi condurre.
(Nazim Hikmet, Poesie)
In una pausa dal mio lavoro, sfogliando le poesie di Hikmet, sublime poeta turco un po’ strapazzato da Costanzo che qualche anno fa ne abusava nel suo salottino un po’ demenziale, mi sono imbattuta in questi versi.
Semplici, composti, tersi.
E tuttavia intrisi di dolore, di malinconia profonda come profondo è ogni abisso che non possiamo evitare.
Vero, a volte la vita ci costa tanta fatica. Vorremmo scendere, e invece, invece dobbiamo fare "un altro giro di giostra", come lo chiamava Terzani.
Certamente Hikmet ha molto sofferto. Ma ha lasciato versi intensissimi.
Di nuovo, la domanda. L’eterna domanda. L’arte deve cibarsi della sofferenza per salire sulle sue vette?
Ne ho scritto spesso, qui e altrove.
Oggi preferisco restare in silenzio.
E respirare Hikmet. Ancora per un po’.