I nomi della rosa
L’amore fa paura. Perché enormemente sopravvalutato come soluzione alla solitudine, perché implica mettersi in gioco, perché si pensa che si potrebbe soffrire troppo se l’altro ci lasciasse (spesso le immagini che vi si associano sono di tessuti lacerati e sanguinanti). Paura è il nome che diamo alle nostre incertezze, alla nostra sicurezza che proiettiamo sull’altro, che facciamo diventare un nemico pericoloso. Allora sogniamo amori idealizzati e perfetti, fuori dal reale; oppure scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
(Umberta Telfener)
Di tutti gli amori conosciuti, solo alcuni sopravvivono consegnandoci il sigillo di un mutamento irrevocabile, una trasformazione indelebile malgrado la danza dei mutamenti li abbia poi allontanati fisicamente.
Sono gli amori “veri”, quelli che ci fanno capire quante balle spesso ci raccontiamo quando diciamo, o crediamo, di amare.
Questi amori spesso sono così potenti da essere fragili, precari, esposti alle tempeste quotidiane di eventi fatali che sembrano accanirsi contro il profumo speciale di quel prato fiorito.
Vivono sul brivido di un soffio, sulla carezza rubata all’alba, sul colore vermiglio di un tramonto che estingue il sole invitando alla contemplazione notturna.
E sono disperati. Della disperazione attonita, lacerata, incapace di compimento. Struggono l’anima, come canta Jacques Brél nel suo bellissimo Ne me quitte pas, ascoltatelo qui>> con i suoi versi intrisi di una poesia dolente che si fa scavo, lama, coltello.
Sono amori che non muoiono mai, anche se “formalmente” archiviati, seppelliti, messi in un angoletto a favore di altre destinazioni.
Chi ha vissuto questo tipo di amore ne conosce l’odore che appartiene a un luogo lontano, iperuranio, sospeso nelle curve degli universi. E allora capita a volte che altre carezze che vorremmo fare per rassicurare chi ci sta accanto si arrestano sulla superficie, rotolando giù solitarie, confuse, consapevoli di una soglia che non possono superare. Hanno anche loro un profumo, ma non ha la stessa qualità. Fortunato è chi l’ha conosciuta, questa qualità, anche solo per brevi momenti.
Questi amori speciali sono specchi, compimenti del cuore e dell’anima. E sono rari, rarissimi. Accade quando due persone combaciano, quando ogni interstizio penetra in quello dell’altro, quando gli occhi aprono porte in cui brilla l’eternità di un momento.
Purtroppo la profondità di una bellezza che procede a doppio passo di danza a volte comporta instabilità, smottamento, perdita di tranquillità fisica e mentale. Del resto, ogni gioiello interiore si raggiunge pagando un prezzo. A volte, se è troppo alto, si fugge, si migra. Ma non si dimentica.
Questo è l’amore che sazia l’anima, che le offre le ali anche se poi, come Icaro, si può cadere per sempre. Senza rialzarsi più.
Poi ci sono gli amori “ordinari”, quelli che non nascono dalla magia del complemento, dall’arcana specularità in cui rimandi e fusioni permettono l’attraversamento dell’altro e di sé.
Ma a modo loro sono belli anche questi. Scaldano, permettono soste o accelerano dissensi, invitano comunque alla scoperta della diversità. Ci insegnano a misurarci. Importanti, anche loro. Ma di una qualità differente. Certamente più vivibili nell’estensione ordinaria del tempo.
E poi, invece, quanti calessi scambiati per amori. Una moltitudine.
Ognuno di noi è pronto a fare di un rapporto il castello di Camelot, trasformando il suo amante nel Graal.
Paure, desideri, bisogni, proiezioni.
Amori idealizzati, perfetti, mai scalfibili (perché scalfirli significherebbe aprire gli occhi sull’imperfezione di questi amori, sul loro far parte delle cose del mondo, appunto imperfette). Icone sacre su cui installiamo la nostra religione amorosa, la liturgia della coppia, recitata ogni giorno con santa devozione. Amen.
Ma se siamo fortunati, allora un giorno uno tsunami ci colpirà facendoci aprire quegli occhietti strizzati che non vogliono vedere la verità delle cose, li sbarrerà fissando le palpebre con due stecchini finché non lacrimeranno, costretti alle forme reali, quelle che restano dopo la fuga di ogni immaginazione, di ogni consistenza proiettata e dunque effimera nella sua natura.
Ma c’è un’altra via di fuga dal contatto reale, profondo, con l’amore: “ scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
Idea magnifica, eccelsa. Strategia sublime e, temo, molto diffusa. Le nebbie emotive che sembrano catturarci nella nostra Avalon sentimentale in realtà sono gioco, inganno, finzione che permette di vivere la passione senza bruciarsi. Ma non c’è nessun fuoco che non brucia, qui sulla terra. Il “Fuoco che non brucia”, l’unico capace di farlo, appartiene alla verticalità degli spazi spirituali.
Dunque far finta di giocare agli amanti appassionati senza bruciarsi, senza mettere in gioco se stessi, funziona pure fino a un certo punto, fino a quando si sente il desiderio di uscire – anche solo per un istante – dai confini della propria pelle per un fugace incontro con l’altro. Ma lì, in quel crinale che separa due mondi, lì si deve perdere l’autonomia, abbandonando la magnifica corazza che blinda ogni nostro poro e che, invisibilmente, mette muri e distanze nel momento dell’inabissamento nell’altro, nel momento di un incontro reale che è per forza annullamento di sé e di ogni autonomia. Fa paura. Ma è l’unico modo per conoscere davvero qualcosa dell’altro. E di noi.
Ci sono coppie felicemente cementate da abitudini condivise, da sodalizi sereni, da giochi delle parti in cui ognuno assolve alla sua funzione nei confronti dell’altro e del mondo. Coppie abilitate a resistere al mondo facendosi forza a vicenda. Ma l’amore come conoscenza profonda di sé è forse un’altra cosa. Di amori ne esistono tanti. La qualità del rapporto tra due individui poggia su una vasta gamma di opzioni, tutte più o meno piacevoli e tutte comunque importanti, anche se in misura diversa, funzionali nel traghettarci alla scoperta di noi.
Il rapporto fra un uomo e una donna è qualcosa di misterioso, ineffabile. Perfino nelle sue varianti più superficiali, carnali. Perché è l’incastro che del due torna a fare l’Uno.
Quell’Uno che per la paura ti fa fare la cacca addosso nei pantaloni, se lo sperimenti non nella sua idea, nella sua elaborazione mentale ma nella sua esperienza vitale, vibrante, priva di appigli intellettuali.
Sconfinare nell’altro è il sogno di tutti. Riuscirci, privilegio di pochi.
Ma è solo continuando a cercare – attraverso ogni forma, ogni rapporto, ogni amore – che avanziamo nella conoscenza profonda di noi.
Perché, come diceva Jung, nulla ci tira fuori chi siamo realmente come l’amore. Nulla fa emergere ogni ombra inconscia come l’amore.
Perché ci tira giù le brache delle nostre difese, perché fa affiorrare le nostre ombre e le visite dei nostri fantasmi, perché chiama a raccolta il bambino che tutti siamo stati. Quel bambino che magari non ci piace e che scansiamo abilmente alla luce del giorno.
Com’è facile avere una buona immagine di noi stessi quando svolgiamo bene i nostri mestieri. Quando facciamo un lavoro che ci piace, ci gratifica, ci fa sentire sicuri e “bravi”, stimati e applauditi dagli altri, la nostra autostima attraversa mari e montagne. Lì siamo lucidi, lì viene fuori il meglio del nostro essere (così pensiamo) perché quel confine strano, così sottile e rarefatto, quella pelle che ci divide dal mondo in realtà non è mai nuda, mai esposta al brivido che scuote i nostri abissi interiori.
Siamo più “mentali”, organizzati, capaci di decidere dinamiche e strategie.
Il nostro Io professionale è un bel personaggio, ben piantato a terra; non rischia di essere stregato dalle notti lunari e dai giorni solari di un amore “vero” che porta con sé anche le eclissi. I personaggi che abitiamo hanno maschere coi fiocchi, tutte personalità forti, tutte immagini vincenti, luminose.
Ma è solo dall’incontro con i vortici delle emozioni, con l’irrazionalità dei sentimenti, con la precarietà di una relazione fatta di scoperte e confronti (e se siamo molto molto fortunati, con quell’amore vero, autentico, speculare) è solo – dicevo – da questo incontro (nelle sue varianti di gradi differenti che però tutte spingono a una maggior conoscenza di sé) che emerge la natura profonda, spirituale, delle nostre radici. Che deve però passare attraverso le forze ctonie, conoscerne la potenza. E’ lì, in questo incontro d’amore che siamo scossi, che i personaggi abilitati ad agire felicemente per noi crollano tutti come birilli, rivelando le nostre follie, le nostre contraddizioni, i nostri infantili capricci e le nostre fobie.
Forse è per questo che oggi schiere di uomini e donne di successo quando, la sera, si tolgono cravatte e tacchi a spilli insieme alle loro certezze avvertono un buco allo stomaco, un pungolio che è “fame” di quel qualcosa che toglierebbe loro tante sicurezze in cambio di un po’ di verità.
All’uomo si ricopre di strati con cui affrontare una vita fatta necessariamente di ipocrisie e compromessi solo un’incontro d’amore reale regala la possibilità di smettere qualche strato per cercare l’essenza. Che è sempre piccina e allo stesso tempo grandissima, immensa. Fragile e potente. Vulnerabile e forte.
Palpita dentro e sotto la pelle. Aspetta, trepidante, di essere ri-conosciuta.
Chiesa da spiaggia
Terribilis est locus iste: hic domus Dei est, et porta caeli.
"Tutti al mare, tutti al mare a mostrare le chiappe chiareee", cantava una celebre canzone.
Oggi, al mare, con le chiappe chiare o scure, non si va solo a fare i vitelloni da spiaggia, a sdraiarsi per catturare il sole incremandosi fino al lobo delle orecchie oppure a tuffarsi in acqua, fra una mucillagine e un’invasione di meduse.
Oggi in spiaggia si va pure in chiesa. Succede a Cagliari, dove viene allestita, appunto, una chiesa gonfiabile. La notizia appare su Repubblica.
Purtroppo l’orribile esperimento è solo il primo di una lunga serie, che minaccia un’invasione di proporzioni – manco a dirlo apposta – bibliche: non sarà usata solo in Sardegna: dopo Cagliari, Campomarino di Tremoli, Bibione, Ravenna. E poi ancora altrove.
L’idea è di Don Andrea Brugnoli, parroco attistiva che da anni cerca di evangelizzare i giovani allestendo luoghi di conversione fuori dalle discoteche, dagli autogrill, dagli stadi.
La movida "divina", dunque, si contrappone a quella profana.
Non c’è nulla di male nel voler portare la parola di Dio ai giovani. Ma esiste un problema…di modi.
E la Chiesa gonfiabile a mio avviso è un modo sbagliato.
"Lunga trenta metri, larga quindici, colori nero e fucsia che non ricordano certo le cattedrali romaniche. È completa di altare, abside, confessionali. Cinque compressori, in cinque minuti, permetteranno di "costruire" una chiesa che nei secoli passati richiedeva decenni, se non secoli, di lavoro".
Addio arcani orientamenti all’interno di spazi concepiti da antiche sapienze, addio meravigliosi elementi essenziali delle chiese romaniche, addio verticali stupori del gotico…
"A maggior gloria di Dio", si costruiva un tempo. Un tempo in cui ogni colore, ogni geometria, ogni architettura nasceva dall’omologia Cielo-Terra in cui la Chiesa – nave su cui i fedeli viaggiavano in direzione della volta celeste – incarnava la rappresentazione del sacro, con cui scambiava alchemiche corrispondenze.
E oggi?
Ma davvero un pezzo di gomma può sostuire il marmo, quel marmo "parlante" da cui il genio di Michelangelo estraeva le sue opere più belle? Il marmo, come l’oro, come ogni altro elemento, è simbolo e segno dell’universo fatto di magiche corrispondenze di cui parlavo poc’anzi.
Un gioco di analogie, specchi e richiami che nelle antiche Chiese orientava il fedele in cerca di Dio.
Già nei tempi moderni le antiche sapienze che riguardavano la costruzione delle chiese si sono perse, si sono sfilacciate a favore di altri modelli. Ma la chiesa gonfiabile rappresenta davvero una tentazione "luciferina", un’oscenità a uso e consumo di preti moderni che si credono dei ficaccioni.
Del resto viviamo in un mondo che ha perso il senso del contatto con la sacralità.
Eppure ci vuol tanto a capire come una chiesa gonfiabile rappresenti un insulto, tanto per il laico quanto per il credente?
Nella mia vita ho attraversato molte fasi, sono stata anarchica, agnostica, gnostica, poi soltanto dubbiosa, e poi, ancora, vicina alle filosofie orientali per poi un giorno inciampare nelle ricchezze della nostra antica tradizione, quella protocristiana.
Io non sono una di quelle che vanno a Messa, lo dico subito. Non sono… cattolica, apostolica e romana. Ma tento di essere cristiana (a me più che il Cristo delle chiese interessa il Cristo interiore, quella fiamma vivente avventura e scommessa di ogni cuore). Dunque in Chiesa non vado, dicevo. Si tratta di un mio personale problema con le umane organizzazioni delle religioni (un po’ anarchica sono rimasta, confesso…). Ma studio le antiche tradizioni e nel tempo ho imparato ad apprezzare alcune straordinarie valenze del cattolicesimo, anche se affrontate più dal punto di vista ermetico-alchemico. Ma insomma, andremmo lontano, troppo lontano.
Rimando comunque a un testo a me molto caro: Ritmi e riti.
Voglio dire, non sono comunque una di quei fedeli fedelissimi pronta a gridare allo scandalo perchè la sua madre chiesa viene traslocata su un pezzo di gomma in mezzo a una spiaggia.
Dico però che quando ho bisogno di un particolare raccoglimento interiore, cerco sempre due posti: o una spiaggia o un bosco isolato, oppure una chiesa. Ma una chiesa antica, una chiesa costruita secondo la scienza sacra degli orientamenti.
Ecco allora che lì, in queste chiese, se si fa un poco di silenzio nel frastuono mentale è possibile fare un respiro più grande. E’ possibile annusare il profumo del sacro, di quel luogo dentro e fuori di noi che la chiesa, come uno specchio, riflette. Lei invita, suggerisce. Devi essere tu, poi, a danzare.
Ricordo ancora gli occhioni sgranati davanti agli angeli di Santa Prassede, a Roma, oppure il calore dell’abbraccio invisibile di Santa Sabina, in un giorno funestato da personali tormenti.
Ecco, in questi luoghi ogni disegno, ogni colore, ogni dettaglio "raccontano" un sacro talmente potente da ammutolire perfino il laico viandante. L’ho visto con i miei occhi.
Dunque come è possibile accettare l’idea di una Chiesa gonfiabile?
Magari lo diciamo all’Ikea, che ci propone magari i modelli Ekklesia 24 in cento pezzi montabili, con laccatura in legno da scegliere?
Io non ci sto. La chiesa è comunque uno spazio sacro. Anche un non credente ne riconosce potenza e bellezza, da sempre. Basta guardare le file indiane di turisti col naso all’insù che nelle nostre grandi città click click fotografano rapiti chiese e monumenti.
Tra l’altro, anche il senso estetico, se vogliamo, può essere considerato "sacro". La Bellezza è un diritto di tutti, e abbiamo il dovere di preservarla.
Chiesa gonfiabile? Roba da condono edilizio…
C’è un’idea che mi turba alquanto, ed è quella del proselitismo a tutti costi (mi ha sempre turbato, ieri come oggi). Perché bisogna andare dai bagnanti o dai ragazzini in discoteca con una chiesa di plastica? Se hanno voglia di sacro, saranno loro a spostarsi, magari vestendosi in modo più adeguato. Sarò tacciata di bieco tradizionalismo, ma chissenfrega. Io parlo di senso del pudore, un senso bellissimo, oggi strozzato dai culetti e dalle tettone di veline e starlette televisive. Non crediamo in Dio? Perbacco, benissimo. Ma almeno nel valore estetico di una costruzione vogliamo pure crederci, o no? E nel pudore, ci crediamo? In quel pudore che ci risparmia di vedere una vecchia carampana aggirarsi in città con un tanga marittimo che scompare negli oceani di grasso mentre lei, cetaceo urbano, avanza seminuda deturpando il paesaggio.
Il pudore, la bellezza, il senso estetico non hanno religione. Non hanno "colore".
Sono un patrimonio di tutti. Perché allora darci alle chiese gonfiabili? Mostruose dal punto di vista "architettonico" oltre che abominio spirituale.
Se le mettessimo all’AcquaFan di Riccione sapremmo davvero riconoscere la chiesa dalle gozzoviglie volanti, da quegli insiemi di plastiche scivolose su cui zompare dentro e fuori dall’acqua?
Io non ci sto. Non le voglio. Al mare devo già sciropparmi l’avanzata di personal trainers che aizzano signore ululanti infilate in tute anti-traspirazione che pedalano come forsennate per ore sotto il BOOM BOOOM!! delle casse che rimbombano musica, insieme ai gruppi acquatici che cantano e ballano dietro l’istruttore di turno e i mercatini per signore che affollano il litorale…
Dobbiamo infilarci proprio anche la chiesa gonfiabile, in questo "troiaio" estivo?
La smania tutta moderna di arrivare dal "cliente", la fissazione del porta a porta, delle chiavi in mano, della pronta consegna investe anche il sacro. Che senso ha?
Insomma, se uno a un certo punto ha una folgorazione mistica si infila un paio di pantaloni e se ne va in cerca di una chiesa. Giuro che ce ne sono tante in giro, tutte facilmente raggiungibili.
Un tempo, l’uomo che cercava Dio…lo cercava davvero. Nel senso che era lui ad andare, lui a camminare, lui a cercare e trovare, come testimoniano anche i pellegrinaggi di tutti i tempi. In ogni antico percorso inziatico era previsto un viaggio, un percorso, appunto, un itinerario in cui l’anima man mano si avvicinava e faceva scoperte.
Ma non è più il tempo della Cerca, non è il tempo della coppa del Graal. Semmai è il tempo della coppetta di Tiramisu, preso al bar con gli amici, a un tiro di schioppo dall’ombrellone.
Ed è il tempo delle chiese gonfiabili.
Che poi, di fatto, a me fanno venire in mente un altro…oggetto gonfiabile.
A dire il vero, tutt’altro che sacro.
MAL D’IKEA
L’Ikeite – malattia del nostro secolo – sta assumendo una forma particolarmente aggressiva, fatta di ceppi virali in grado di contrastare qualcunque vaccino rendendo vano ogni tentativo di immunizzazione.
Colpisce ovunque, da Helsinki a Città del Capo, da Pechino a Caracas.
C’è poco da fare: dopo la Coca Cola e il Mc Donald, è lei a correre con l’olimpionica fiaccola dell’omologazione incendiando gli animi di interi paesi, conquistando i popoli a uno a uno, infilandoli nel suo gigantesco pallottoliere. Oplà. Un altro adpeto.
Sì perché l’Ikea è una malattia che, nei casi di virulenza allucinatoria, prova visioni mistiche dando vita a una vera religione. La religione Ikea.
Al colosso svedese sono stati dedicati articoli e libri. E tutti hanno dovuto concordare, alla fine, con l’irrevocabilità del fenomeno. Ikea sarà per sempre, nei secoli. Amen.
Qualche dissidente c’è. Io, per esempio.
So di dire qualcosa che va controcorrente ma…l’Ikea non mi piace. Olè.
L’ho detto.
Non mi piace questa grande scatola che agita promesse che sono, di fatto, la versione scandinava del nostro lezioso, stucchevole Mulino Bianco.
Vivi Ikea e sarai felice. Mah.
Certo, si spende poco. Questa è la forza di base di un pensiero economico che conquistato il mondo intero. Il rapporto prezzo-qualità è certamente vantaggioso, tranne qualche eccezione in cui gli oggettini Ikea rivelano la loro fragilità, come nel caso di qualche armadio di segatura che barcolla non appena tenti di aprirne un’anta, o un presunto letto di ferro…il cui ferro pesa meno della piuma di Maat (almeno il letto andrà di filato nell’aldià egizio, scavalcando il coccodrillo. Beh, lo dicevo che l’Ikea è una religione…).
Simbolo della democrazia degli arredi, tutto alla portata di tutti, Ikea è la nuova "rivoluzione francese", anzi svedese, che abbatte i difficili regni dei tavolini luigi XVI o degli armadi impero.
Benissimo, evviva evviva. Ma l’Ikea è anche omologazione, idea progressista che in realtà costruisce un’impero (quello del genio – chapeau – che l’ha inventata).
Un’impero così vasto da far venire i brividi. Oggi, poi, di svedese c’è rimasto poco: la produzione volentieri si sposta anche in Vietnam, in Bulgaria, in India.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le denunce di sfruttamento del lavoro minorile e non.
Insomma, un’immagine diversa dalla gaia naturalezza tutta legno e sorrisi che ci propinano.
E poi si tratta di una moda. Invasiva, come tutte le mode.
Non contenti di fare legni, oggi i signori Ikea propongono anche cibi: pesci e biscotti inscatolati, venduti nei negozi-food all’interno dei grandi capannoni Ikea. C’è anche l’Ikea restaurant, ovviamente. Tutto uguale, in tutto il mondo. Con lo stesso, arcano sapore a New York come a Bruxelles. Un mistero analogo a quello che colpisce gli hamburger dei Mc Donald, che ovunque hanno lo stesso, identico sapore. Non simile, identico. Come se esistesse un enorme manzo Mc Donald, largo quanto il nostro pianeta, i cui pezzi, dopo la macellazione, vengono pazientemente inviati nei vari fast food sparpagliati qua e là sulla terra. Mistero irrisolto, per me. Forse qualche volta il bislacco ideatore di Vojager, Roberto Giacobbo, invece di incaponirsi con ufo e fantasmi potrebbe rivolgere l’attenzione dei suoi preziosi neuroni alla magia alchemica dei manzi Mc Donald. Del resto, capisco, la plastica propinata ai consumatori "non tira", ci pensa solo quella sfigata di Rai 3 a occuparsi di questa fuffa. ..
Comunque, stesse alchimie anche per i cibi Ikea.
Francamente, preferisco una sana trattoria romana.
Ikea prospera sul prezzo, è questa la sua scommessa vincente. Fa benissimo. E chi vuole spendere tanto per fare casa?? Ma Ikea vince perché compete anche con un altro lusso: il tempo.
Sì, il tempo. Il lusso dei lussi. Quello che oggi quasi nessuno può più permettersi, neanche i ricconi intenti a contare le loro ricchezze.
In una società che corre per produrre fino a schiattare, il tempo è ridotto a uno spazio vuoto, pericoloso e non produttivo, da riempire subito con una serie di operosità, siano anch’esse solo divertimento, solo fare per fare….
Ikea vince anche perché il tempo perde. E allora basta una giornatona nel grande magazzino per farsi un’intera casa, a costi decenti.
E tuttavia non è vero che per arredare a prezzi convenienti esistono solo l’Ikea, o Mondocovenienza, il suo antagonista italiano.
Si può fare. Si può mettere su casa a prezzi ragionevoli. Ma per far questo ci occorre il tempo. Cioè quel lusso di cui dicevo, quello spazio per noi che ci ritagliamo epiletticamente fra un impegno forzato e un altro.
Se guardiamo bene, se ci sforziamo di uscire dalle nostre miopie socio-culturali, quelle a cui ci adattiamo per pigrizia e negligenza, ci accorgiamo che in realtà quel tempo a disposizione lo abbiamo. Non tutto, non subito, ma lo abbiamo.
Ecco che allora possiamo curiosare nel meraviglioso mondo dei rigattieri, possiamo dedicarci a incursioni nei mercatini, passare le mattine scovando i luoghi più ameni in cui troveremo senz’altro qualcosa.
Qualcosa che non gode solo di un buon prezzo. Qualcosa che ha un’anima. Qualcosa di non omologato. Un particolare magari appartenuto a chissà chi.
Mi piace sognare sui proprietari di mobili, tavoli e armadi. Fantastico sulle storie che questi oggetti hanno ascoltato, sui visi sui quali si sono attardati.
Un mobile Ikea non ha mai avuto una vita precedente.
Ed è sempre uguale a sè stesso: ordinato, preciso, identico a tutti i suoi simili, come nella miglior catena di montaggio.
Un pezzo ideale per Warhol. Ripetuto all’infinito, come in una galleria di specchi.
A me invece piacciono i "diversi". Le cose che hanno un carattere, una personalità.
Non devono necessariamente costare tanto. Basta girare un po’.
A Roma, per esempio, abbiamo la fortuna di avere il mercato di Porta Portese.
Un vero suk denso di labirinti vocianti e accaldati. Un posto dove chi cerca bene viene sempre premiato.
Personalmente, mi sono comprata lì una bella scrivania di legno, con la parte superiore in pelle verde e le cassettiere laterali. L’ho pagata 300 euro.
Più o meno quanto una delle scrivanie Ikea.
Solo che è "lei", ed è antica, ha un’anima che racconta di cose passate. E l’ho cercata, l’ho scovata perdendomi fra le voci dei rigattieri che ti chiamano da destra a sinistra.
Per carità, a qualcuno possono piacere solo gli oggetti nuovi. Ma, anche qui, Ikea non è l’unica soluzione possibile.
Ma, come dicevo, bisogna cercare, bisogna usare quel tempo così difficile, oggi, da conquistare.
Com’è bello, però, affaticarsi qua e là, andare in giro a cercare mille pezzi diversi, aggirandosi fra mobili antichi e moderni alla ricerca di "quel" carattere, "quella" personalità che risuonerà con la tua. Esattamente con la tua.
Ci sarà voluto più tempo, sarà stato necessario attraversare in lungo e in largo la città per conquistare, ogni volta, un pezzo del nostro arredo.
Ma non è questo il bello, in fondo? Darsi da fare per arrivare.
Il viaggio nell’arredo della nostra casa merita di più di una megavisita Ikea, da cui uscire con le nostre stanzette tutte schedate e pronte per la consegna.
A proposito: chi usa Ikea che sa inferno rappresenti il montaggio dei vari pezzi.
A volte ci vorrebbe davvero un ingegnere. Lo so perché anni fa, con alcune persone, facemmo tutto uno studio con l’arredo Ikea.
Per fortuna ho lasciato lo studio. E ho lasciato l’Ikea, ad eccezione di qualche piccolo pezzo che altrove non sono riuscita a trovare. Come quei deliziosi bonsai a 100 euro…
Casa Ikea o casa mia?
Questo il problema. Ikea è così invadente che la casa finisce per essere…"sua".
A me piace continuare a navigare controcorrente e cercami i singoli pezzi tra rigattieri e mercatini.
Sarò demodè. Poco importa. Se non altro, mi sento più libera dai lacci dell’omologazione.
Oggi tutto deve essere uguale, in serie, facile da trovare, montabile.
Ikea, il regno della casa montabile.
E se invece qualcuno volesse smontare?
Racconti di città
La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene. L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
Ogni città pulsa di vita propria. È storia, racconto di luoghi e persone. Labirinto di voci e di strade che parlano di cose antiche e moderne.
Le città hanno un carattere, una personalità. Ti affascinano o ti respingono. Ricordo ancora – ricorderò per sempre – l’emozione vibrante davanti a una Los Angeles notturna, tanti anni fa, che stendeva il suo tappeto scintillante di luci verso l’aereo che preparava la sua discesa. Ricordo la distesa immensa, il luccichio che già raccontava di spazi enormi, molto diversi da quelli a cui ero abituata in Italia. Fissavo la città degli angeli dal finestrino e anche io mi sentivo un po’ come loro, un po’ come gli angeli che ogni giorno bisbigliano osservando dall’alto la vita delle metropoli, sopra il cielo di tutte le Berlino del mondo.
Da lassù uomini e cose si mescolano e si rincorrono. A volte un po’ senza senso. Come quando ogni mattina all’improvviso le strade diventano ricettacoli di macchine imbottigliate nel traffico, tutti a pigiare a gridare a correre verso gli uffici. Lo stesso rituale inverso la sera, al rientro dalle faccende del giorno, quelle che ti costringono negli uffici o in giro per appuntamenti.
Le città si somigliano molto nelle pause pranzo, con i lavoratori sparpagliati come ragazzini in festa rincorsi dal tempo: i più sfortunati, quelli che il tempo afferrerà per primi scagliandoli di nuovo nelle stanzette dei loro uffici, sbocconcellano in fretta un panino rubando minuti al loro dovere, altri invece, quelli che appartengono alla casta dei privilegiati, si avventurano nei ristoranti, menu fisso 10 euro, per ritagliarsi la loro oretta di chiacchiere e cibo.
Sulle strade delle città gli operai, seduti sugli scalini, consumano il loro pasto di sandwich e birra. I ragazzini invece si danno tutti appuntamento ai Mc Donald, orribile omologazione che lega Barcellona a Hong Kong, Buenos Aires a Dublino. Eccolo, uno dei simboli della globalizzazione che vorrebbe fare di ogni città un omogeneizzato.
E invece l’anima delle città resiste, si nasconde – furtiva – nei vicoli, scende in strada nelle ore deserte per gustarsi i dettagli che altrimenti scompaiono, ingoiati dal traffico.
Nascondono una moltitudine di storie, le città.
Storie che si affacciano alle finestre, brulicano nelle strade, si intersecano e poi tornano a essere parallele, procedono vicine, una accanto all’altra, senza unirsi mai più.
Di queste storie è tessuta ogni geografia urbana. Ognuna con la sua anima particolare, irripetibile.
Quando studiavo a Milano, ricordo che a Piazza Duomo, sulla quale sbucavo ogni giorno dopo i sotterranei della metropolitana, respiravo la fretta, l’urgenza, il procedere alla rinfusa di tutti. Tutti correvano, correvo anch’io. Acceleravo il passo senza un perché.
Il tempo, a Milano, è davvero denaro.
Più tardi conobbi invece i languori di Roma, la città che fermò le mie migrazioni, che mise una frontiera davanti alle inquietudini dei miei spostamenti.
Roma è un suk assolato. È un caos ciarliero – a volte magari un po’ cafone – però ti trascina, ti seduce, ti vince.
E’ meraviglia, è estetica dei luoghi e gaiezza delle persone.
A Roma volentieri rimani. È una città che si dà da fare per adottarti, incantandoti con la sua versatilità che unisce sacro e profano.
Come sono diverse, Roma e Milano.
Due modi di essere, di vivere, di sentire le cose del mondo.
Non è vero che le città sono tutte uguali, malgrado le pretese della globalizzazione.
Per fortuna le città sono tutte diverse. Come le persone che abitano.
Al di là dei facili stereotipi che puzzano di macchietta umoristica, davvero il nord e il sud sono abitati da modi differenti, davvero narrano di diverse interpretazioni del mondo.
Di Napoli, la città che incanta i sensi e li smarrisce in un vortice senza ritorno, magico luogo dove si incrociano l’Acqua e il Fuoco, la liquidità dell’emozione e la fiamma dell’ardore creativo, la Femmina e il Maschio dei nostri archetipi antichi, di Napoli, dicevo, conservo sempre un ricordo speciale che poggia sulla memoria di passeggiate senza meta, di estasi e rapimenti in cui danzavano architetture e persone, di canoni inversi in cui gli orientamenti si scambiano il posto.
E ricordo un pranzo in famiglia, uno di quei pranzi meridionali in cui si sfianca il tempo a forza di restare lì, seduti intorno alla tavola apparecchiata con risate e affetti, circondata da persone che radunano storie, aneddoti, pettegolezzi. Che si scambiano idee. Si parla, si parla sul serio mentre il cibo stordisce i sensi ma alllo stesso tempo ravviva la lingua.
Così diversa, Napoli, da una città come Torino. Una piena di problemi eppure spensierata; l’altra ordinata, pulita, ma un po’ freddina. Un’anima più riservata, quella di Torino, meno propensa alle dispersioni, alle ubriacature dei sensi. Della città piemontese ricordo soprattutto la bellezza dei vecchi palazzi, con i tetti nordici su cui, come tanti occhi, vegliano le finestrelle degli abbaini.
I racconti di città hanno un’anima tutta loro, irripetibile.
“La città vive in me come un poema che non m’è riuscito di fissare in parole”, scrive Borges in una poesia. E altrove aggiunge: “Ormai le strade di Buenos Aires sono le viscere dell’anima mia”.
Perché davvero fra ogni città e i suoi abitanti si stabilisce una muta corrispondenza, un patto speciale.
Il ventre di Roma, Tokyo o Berlino nasconde sempre i segreti della sua gente. Segreti penetrabili solo a investigazioni accorte, lontane dalle pappe precotte per i turisti, lontane da ogni Mc Donald e ogni Coca Cola che solo in apparenza rendono il mondo tutto uguale.
Racconti di città e racconti di paese si differenziano per quantità e qualità.
Io sono nata in provincia, a Senigallia, nelle terre marchigiane che sanno di buona campagna e di mare. Anche Senigallia ha i suoi racconti. A me stavano stretti. Io ero una cacciatrice di storie.
Volevo mescolare il fiato a respiri più grandi, girare in quartieri capaci di annullare l’identità regalando momenti di straordinario anonimato (quell’anonimato che però in altre situazioni diventa pesante, terribilmente pesante), nuotare nelle esperienze di altri, in un confronto dialettico da alternare all’isolamento. Volevo perdere lo sguardo nelle distese di tetti e di antenne, infilarmi in spazi nuovi attraversati da una moltitudine di abitanti.
Di tutte le città visitate e vissute conservo le storie nella mente e nel cuore.
Ma ancora oggi fra tutte brilla il ricordo di quella Los Angeles notturna che mi aspettava con le sue promesse di spazi enormi ed di genti lontane. Avrei vissuto a san Diego, a un’ora da lì, per un anno. Dunque c’era in me anche la trepidazione per una sosta diversa dalle solite gite turistiche.
Quelle luci accese nella notte – lassù, dall’aereo – mi entrarono nella pelle.
Ancora oggi, se chiudo gli occhi, sento di nuovo quella sensazione.
E mi emoziono.
Online il nuovo numero di Silmarillon. Un grazie di cuore ai blogger che hanno partecipato con i loro contributi. Una rivista indipendente e gratuita per sopravvivere ha bisogno di testa e cuore. E, ancora una volta, ce l’abbiamo fatta…
Faccia da avatar
L’avatar è la nostra rappresentazione virtuale, l’immagine che ci scegliamo per "apparire" sul web.
Dando vita a una vera e propria fenomenologia.
C’è chi sceglie immagini umane e chi preferisce invece figure animali. Altri ricorrono invece volentieri ai cartoni animati. E poi c’è chi si appella invece a eroi, a figure che appartengono alla storia del cinema, ad attrici e attori che hanno fatto la nostra storia.
Altri invece scelgono di usare la loro immagine reale, postando una foto in cui a volte si preferisce inserire un dettaglio (un occhio, un sorriso, un tre quarti alla Gruber…) oppure si opta per un mezzobusto.
Dettagli significativi, indizi del nostro modo di rappresentarci.
Ma cosa affidiamo al nostro avatar?
Ho spesso pensato alla scelta bizzarra, ma anche "filosofica", della parola avatar con cui nelle tradizioni spirituali si indicano gli esseri celesti che si incarnano sulla terra, scegliendo la manifestazione per soccorrere gli uomini impigliati nelle loro involuzioni egoiche.
Mmh. Dunque un avatar è un "maestro", un illuminato, un essere speciale che viaggia su questa terra senza appartenergli. Fico. E’ come tutti vorremmo essere.
Io faccio parte di quel manipolo di pazzoidi che pensa che nulla sia a caso, in questo mondo. Che tutto sia simbolo e segno, inserito in una trama che collega linee verticali e orizzontali per raccontarci sempre qualcosa…
E in questo contesto anche la parola avatar ha un significato preciso, in una contestualizzazione non casuale.
Sul web possiamo inventarci la nostra identità, sfuggendo al grigiore di una vita "impiegatizia" in cui a volte ci sentiamo, magari, un po’ Fantozzi.
Una vita lontana dalle sfavillanti ribalte del cinema, dai luccichini di quel reame di vip che si agita tra nord a sud, tra un Lapo e un Briatore, dai modelli "Milano da bere" di moda e pubblicità.
E spesso anche lontana dalle nostre idee e idealizzazioni (vorrei essere come il Budda, oppure come Oriana Fallaci, o come Furio Colombo. Magari perfino come Berlusconi. Beh, facciamo Bondi, aggiustiamo un po’ il tiro…).
I nostri "miti" personali ci danno un’occasione: quella di avvicinarli un po’ attraverso la scelta dell’avatar.
Avatar che non sono sempre rassicuranti (teschi, pistole, manette) o che non alludono sempre a figure "positive" (penso all’Imperatore nero, ad esempio).
In questo caso si vestono i panni del simpatico agit prop, si provoca, si stuzzica, si stimola ammiccando a Pierino la peste.
Comunque sia, la scelta dell’avatar parla di noi. Ma parla di come siamo o di come vorremmo essere?
Già. Bella domanda.
Ch siamo, noi, sul web?
Quanto la realtà virtuale ci permette una "manifestazione" (tanto per rimanere nella terminologia antica legata all’avatar della tradizione) o quanto ci permette di nasconderci, di giocare a rimpiattino, di mandare avanti il personaggio che vorremmo essere ma che non siamo?
Personalmente credo che il mondo delle nuove tecnologie sia in pari modo pieno di possibilità quanto di insidie.
Lo uso, ci lavoro, ne scopro le infinite meraviglie e possibilità. Però mi interrogo, mi chiedo anche quanta finzione consenta.
Come alla maggior parte di noi, mi è capitato di conoscere personalmente i "proprietari" di alcuni avatar, i demiurghi che li mettono in moto facendoli "rotolare" di blog in blog, di sito in sito…
Alcuni corrispondevano all’immagine che avevano dato. C’era una coincidenza fra come si rappresentavano pubblicamente in Rete e come erano.
Un avatar spumeggiante, ironico, era l’estensione di un tizio spiritoso, allegro, estroverso.
Viceversa, dietro un avatar “lunare”, notturno, c’era una persona umbratile, difficile, che viveva piegata in sé stessa, esposta alla luce riflessa degli altri.
Spesso ci sono noti gli avatar di nostri amici e conoscenti, e possiamo ammirarli scorazzare come noi fra siti e blog.
Sicuramente avremo notato quando coincidono e quando invece si scindono, quasi schizofrenicamente. Alcuni sono veri esempi borderline.
Interessante. Ci vorrebbe una vera letteratura da avatar. Uno studio socio-antropologico.
La seconda identità si affianca alla prima secondo un gioco di specchi o differenze.
Sul web si può “barare” bene anche se a volte la scrittura tradisce i vizi caratteristici che ci trasciniamo dietro: spuntano qua e là, come funghetti velenosi.
Vero è, però, che il magico teatro virtuale accoglie e inscena le nostre rappresentazioni. E le nostre finzioni.
A me fa sempre piacere quando l’avatar e il suo proprietario si sovrappongono in modo schietto, verace. C’è un sapore di verità che nel gioco di maya del web risulta raro.
Ma è anche vero che l’occasione di vederci e farci vedere per come vorremmo essere è troppp ghiotta. Va lasciata libera di galoppare. A briglia sciolta.
Del resto, occorre anche pensare a quanto già l’identità reale sia una maschera (a cui richiama l’etimologia del termine “persona”, fra l’altro). Anzi, una, cento, mille maschere.
Maschere con cui ci difendiamo da noi stessi e dal mondo, schierando come su un campo di calcio i nostri giocatori, piazzando attentamente gli attaccanti, i difensori e i portieri.
Figuriamoci cosa appiccichiamo al nostro avatar, del quale addirittura possiamo scegliere l’immagine.
Scateniamo, qui, la nostra fantasia liberando frustrazioni e bisogni, inventandoci, come su Second Life, che di fatto rappresenta solo il culmine del nostro doppio che come un Golem ha già preso da tempo una vita autonoma sul web, una seconda occasione per “essere” e per farci vedere dal mondo.
Se noi siamo i demiurghi dell’avatar, allora ci domandiamo, davanti all’atto della creazione: avatar a nostra immagine e somiglianza o avatar a nostra immagine e differenza? Domandona. E la risposta? Busta A o busta B? Beh, io direi che valgono entrambi, in alcuni casi si ha perfino un mix fascinoso.
Del resto, perché in un mondo reale animato da maschere e personaggi il nostro doppio virtuale dovrebbe essere più veritiero?
Invece dovrebbe, a mio avviso. O almeno potrebbe.
Perché alla fine siamo sempre noi. Con le nostre bellezze e le nostre mondezze.
Provarci anche sul mondo che corre bel web è una bella scommessa.
Al di là della faccia da avatar, quella che conta è la nostra…
La difficile arte dello spossessamento
La civilità ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non v’è libertà né vera vita senza il tirocinio dello spossessamento.
(Cioran, La caduta nel tempo)
Un tirocinio difficile, quello proposto da Cioran (autore che amo irrimediabilmente, malgrado le ferite inferte all’umore ogni volta che lo avvicino. O forse proprio pr quello…).
L’uomo è "ladro", è un "prendi", come dice Anthony Hopkins nel bel film Instinct.
Rubiamo continuamente. Ci impossessiamo di tutto. Nulla sfugge alla nostra vena predatoria, alla rapacità del nostro esistere.
Animali, spazi, oggetti e perfino persone. Tutto, tutto viene preso, conquistato, accaparrato, in un "prendi prendi" epilettico in cui si passa instancabilemente da una conquista a un’altra. Siamo pirati. Rubiamo tesori e assaliamo caravelle, ogni giorno. Ammassati nelle nostre case, i nostri bottini avanzano mentre noi riduciamo il nostro spazio vitale.
Siamo pirati.
Ma dei pirati, ahimé, non abbiamo neppure una vaga ombra del fascino.
Somigliamo piuttosto a dei comuni ladruncoli, anche un po’ vigliacchetti.
Facile, infatti, ammassare. Difficile, invece, operare una redutio.
Perché le cose che ci circondano illudono l’Io con vane promesse, lo seducono, lo invitano in un luna park in cui ogni cosa non può essere goduta per ciò chè ma deve essere posseduta.
Il panorama è bello? Sì, ma è ancora più bello se diventa il mio panorama.
E quel furetto? Lo voglio lo voglio lo voglio, non importa se si tratta di un animale che soffre nell’area claustrofobica di un appartamento: se lo addomestico diventa "mio", se resta libero rimane "suo". Fatto gravissimo.
Stessa cosa per i girasoli ammirati in campagna. Quel girasole lì me lo porto a casa, lo voglio, è il "mio" girasole.
Un po’ come fa il Gollum con il suo anello, il suo tessssooooroooo, e su quella s sibilata striscia il serpente del possesso, scivola e tutto fagocita, senza discriminare la qualità dell’oggetto o dell’esperienza.
Già, perchè ci impossessiamo anche delle esperienze. Tutto ciò che ci circonda deve essere nostro, deve essere ingoiato senza mai essere sputato fuori, rimesso in circolazione (e qui il gioco sapiente delle tre Grazie si inceppa in un "non ritorno" che blocca il restituire rendendoci bulimici e perdenti).
La smania di certi turisti che impazzano nevrastenici con i click clik della macchina fotografica o staccano pezzi di muro (se va bene, altrimenti li imbrattano addirittura per segnare il loro osceno passaggio) scivola sempre su questa sfilza di s. E tutti diventiamo un po’ Gollum.
Il mondo va vissuto, non va "mangiato". Né posseduto.
Tornando alle cose, e al loro magico, perverso potere che le fa diventare la materica estensione di un Io che ci spaventa per la sua evanescenza, è anche importante osservare come perfino i più progressisti di noi sotto molti aspetti sono "conservatori". Sì, conservatori. Conservatori quando non riusciamo a liberarci di nulla, a far spazio al nuovo, tutti attaccati come l’edera i nostri otri vecchi ma pieni.
Gli oggetti ci assediano, ci perseguitano, ci invitano alla schiavitù. maginfica schiavitù. Ripenso alla scena di Matrix in cui un tizio alla solitudine di un’autentica libertà preferisce l’illusoria succulenza di una bella bistecca "plastificata".
Il circo meraviglioso è pieno di luci, di suoni, di odori e di colori. Troppo allettante.
Ma, come dice Cioran, dovremmo imparare l’arte dello spossessamento.
Non a caso nello Zodiaco il segno opposto al Toro, che incarna – fra le altre cose – il principio del possedere – è proprio quello dello Scorpione che simbolicamente con il veleno della sua coda attenta al placido vivere taurino esponendolo alla puntura fatale che spezzerà…l’equilibrio dei falsi possessi.
Non possediamo nulla, noi. Nemmeno la vita. Anche quella, un giorno, dovremo restituire.
Eppure ci ostiniamo a prendere a man bassa tutto ciò che ci circonda, infilandolo nella scatola delle convenienze. Delle sicurezze.
In realtà, più "abbiamo" meno "siamo".
Perché stupirsi, dunque, del fatto che i paesi più ricchi sono anche i paesi più depressi? Quelli più esposti all’infelicità?
Il tanto avere non rende felici. Il tanto "essere", sì. Ma se ci si incammina su quella strada, se si cerca di "essere" bisogna togliersi i veli, un po’ come Salomè nella sua danza. Sul piatto, in questo caso, la testa dell’Io.
Meglio allora coprirsi di tante cose, coprirsi fino a mutilare il respiro. E così, belli immersi nei nostri possessi, speriamo invano di evadere dalla puntura dello scorpione.
Ma quando ci punge, quando questa coda manda all’aria le nostre gozzoviglie fatte di addizioni e affastellamenti, allora sì che dopo il dolore della puntura intravediamo una nuova possibilità.
Del resto lo dicevano anche gli antichi: "trasformare il veleno in medicina".
Non è solo un principio omeopatico. E’ un principio di vita.
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