MAL D’IKEA
L’Ikeite – malattia del nostro secolo – sta assumendo una forma particolarmente aggressiva, fatta di ceppi virali in grado di contrastare qualcunque vaccino rendendo vano ogni tentativo di immunizzazione.
Colpisce ovunque, da Helsinki a Città del Capo, da Pechino a Caracas.
C’è poco da fare: dopo la Coca Cola e il Mc Donald, è lei a correre con l’olimpionica fiaccola dell’omologazione incendiando gli animi di interi paesi, conquistando i popoli a uno a uno, infilandoli nel suo gigantesco pallottoliere. Oplà. Un altro adpeto.
Sì perché l’Ikea è una malattia che, nei casi di virulenza allucinatoria, prova visioni mistiche dando vita a una vera religione. La religione Ikea.
Al colosso svedese sono stati dedicati articoli e libri. E tutti hanno dovuto concordare, alla fine, con l’irrevocabilità del fenomeno. Ikea sarà per sempre, nei secoli. Amen.
Qualche dissidente c’è. Io, per esempio.
So di dire qualcosa che va controcorrente ma…l’Ikea non mi piace. Olè.
L’ho detto.
Non mi piace questa grande scatola che agita promesse che sono, di fatto, la versione scandinava del nostro lezioso, stucchevole Mulino Bianco.
Vivi Ikea e sarai felice. Mah.
Certo, si spende poco. Questa è la forza di base di un pensiero economico che conquistato il mondo intero. Il rapporto prezzo-qualità è certamente vantaggioso, tranne qualche eccezione in cui gli oggettini Ikea rivelano la loro fragilità, come nel caso di qualche armadio di segatura che barcolla non appena tenti di aprirne un’anta, o un presunto letto di ferro…il cui ferro pesa meno della piuma di Maat (almeno il letto andrà di filato nell’aldià egizio, scavalcando il coccodrillo. Beh, lo dicevo che l’Ikea è una religione…).
Simbolo della democrazia degli arredi, tutto alla portata di tutti, Ikea è la nuova "rivoluzione francese", anzi svedese, che abbatte i difficili regni dei tavolini luigi XVI o degli armadi impero.
Benissimo, evviva evviva. Ma l’Ikea è anche omologazione, idea progressista che in realtà costruisce un’impero (quello del genio – chapeau – che l’ha inventata).
Un’impero così vasto da far venire i brividi. Oggi, poi, di svedese c’è rimasto poco: la produzione volentieri si sposta anche in Vietnam, in Bulgaria, in India.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le denunce di sfruttamento del lavoro minorile e non.
Insomma, un’immagine diversa dalla gaia naturalezza tutta legno e sorrisi che ci propinano.
E poi si tratta di una moda. Invasiva, come tutte le mode.
Non contenti di fare legni, oggi i signori Ikea propongono anche cibi: pesci e biscotti inscatolati, venduti nei negozi-food all’interno dei grandi capannoni Ikea. C’è anche l’Ikea restaurant, ovviamente. Tutto uguale, in tutto il mondo. Con lo stesso, arcano sapore a New York come a Bruxelles. Un mistero analogo a quello che colpisce gli hamburger dei Mc Donald, che ovunque hanno lo stesso, identico sapore. Non simile, identico. Come se esistesse un enorme manzo Mc Donald, largo quanto il nostro pianeta, i cui pezzi, dopo la macellazione, vengono pazientemente inviati nei vari fast food sparpagliati qua e là sulla terra. Mistero irrisolto, per me. Forse qualche volta il bislacco ideatore di Vojager, Roberto Giacobbo, invece di incaponirsi con ufo e fantasmi potrebbe rivolgere l’attenzione dei suoi preziosi neuroni alla magia alchemica dei manzi Mc Donald. Del resto, capisco, la plastica propinata ai consumatori "non tira", ci pensa solo quella sfigata di Rai 3 a occuparsi di questa fuffa. ..
Comunque, stesse alchimie anche per i cibi Ikea.
Francamente, preferisco una sana trattoria romana.
Ikea prospera sul prezzo, è questa la sua scommessa vincente. Fa benissimo. E chi vuole spendere tanto per fare casa?? Ma Ikea vince perché compete anche con un altro lusso: il tempo.
Sì, il tempo. Il lusso dei lussi. Quello che oggi quasi nessuno può più permettersi, neanche i ricconi intenti a contare le loro ricchezze.
In una società che corre per produrre fino a schiattare, il tempo è ridotto a uno spazio vuoto, pericoloso e non produttivo, da riempire subito con una serie di operosità, siano anch’esse solo divertimento, solo fare per fare….
Ikea vince anche perché il tempo perde. E allora basta una giornatona nel grande magazzino per farsi un’intera casa, a costi decenti.
E tuttavia non è vero che per arredare a prezzi convenienti esistono solo l’Ikea, o Mondocovenienza, il suo antagonista italiano.
Si può fare. Si può mettere su casa a prezzi ragionevoli. Ma per far questo ci occorre il tempo. Cioè quel lusso di cui dicevo, quello spazio per noi che ci ritagliamo epiletticamente fra un impegno forzato e un altro.
Se guardiamo bene, se ci sforziamo di uscire dalle nostre miopie socio-culturali, quelle a cui ci adattiamo per pigrizia e negligenza, ci accorgiamo che in realtà quel tempo a disposizione lo abbiamo. Non tutto, non subito, ma lo abbiamo.
Ecco che allora possiamo curiosare nel meraviglioso mondo dei rigattieri, possiamo dedicarci a incursioni nei mercatini, passare le mattine scovando i luoghi più ameni in cui troveremo senz’altro qualcosa.
Qualcosa che non gode solo di un buon prezzo. Qualcosa che ha un’anima. Qualcosa di non omologato. Un particolare magari appartenuto a chissà chi.
Mi piace sognare sui proprietari di mobili, tavoli e armadi. Fantastico sulle storie che questi oggetti hanno ascoltato, sui visi sui quali si sono attardati.
Un mobile Ikea non ha mai avuto una vita precedente.
Ed è sempre uguale a sè stesso: ordinato, preciso, identico a tutti i suoi simili, come nella miglior catena di montaggio.
Un pezzo ideale per Warhol. Ripetuto all’infinito, come in una galleria di specchi.
A me invece piacciono i "diversi". Le cose che hanno un carattere, una personalità.
Non devono necessariamente costare tanto. Basta girare un po’.
A Roma, per esempio, abbiamo la fortuna di avere il mercato di Porta Portese.
Un vero suk denso di labirinti vocianti e accaldati. Un posto dove chi cerca bene viene sempre premiato.
Personalmente, mi sono comprata lì una bella scrivania di legno, con la parte superiore in pelle verde e le cassettiere laterali. L’ho pagata 300 euro.
Più o meno quanto una delle scrivanie Ikea.
Solo che è "lei", ed è antica, ha un’anima che racconta di cose passate. E l’ho cercata, l’ho scovata perdendomi fra le voci dei rigattieri che ti chiamano da destra a sinistra.
Per carità, a qualcuno possono piacere solo gli oggetti nuovi. Ma, anche qui, Ikea non è l’unica soluzione possibile.
Ma, come dicevo, bisogna cercare, bisogna usare quel tempo così difficile, oggi, da conquistare.
Com’è bello, però, affaticarsi qua e là, andare in giro a cercare mille pezzi diversi, aggirandosi fra mobili antichi e moderni alla ricerca di "quel" carattere, "quella" personalità che risuonerà con la tua. Esattamente con la tua.
Ci sarà voluto più tempo, sarà stato necessario attraversare in lungo e in largo la città per conquistare, ogni volta, un pezzo del nostro arredo.
Ma non è questo il bello, in fondo? Darsi da fare per arrivare.
Il viaggio nell’arredo della nostra casa merita di più di una megavisita Ikea, da cui uscire con le nostre stanzette tutte schedate e pronte per la consegna.
A proposito: chi usa Ikea che sa inferno rappresenti il montaggio dei vari pezzi.
A volte ci vorrebbe davvero un ingegnere. Lo so perché anni fa, con alcune persone, facemmo tutto uno studio con l’arredo Ikea.
Per fortuna ho lasciato lo studio. E ho lasciato l’Ikea, ad eccezione di qualche piccolo pezzo che altrove non sono riuscita a trovare. Come quei deliziosi bonsai a 100 euro…
Casa Ikea o casa mia?
Questo il problema. Ikea è così invadente che la casa finisce per essere…"sua".
A me piace continuare a navigare controcorrente e cercami i singoli pezzi tra rigattieri e mercatini.
Sarò demodè. Poco importa. Se non altro, mi sento più libera dai lacci dell’omologazione.
Oggi tutto deve essere uguale, in serie, facile da trovare, montabile.
Ikea, il regno della casa montabile.
E se invece qualcuno volesse smontare?
Racconti di città
La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene. L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
Ogni città pulsa di vita propria. È storia, racconto di luoghi e persone. Labirinto di voci e di strade che parlano di cose antiche e moderne.
Le città hanno un carattere, una personalità. Ti affascinano o ti respingono. Ricordo ancora – ricorderò per sempre – l’emozione vibrante davanti a una Los Angeles notturna, tanti anni fa, che stendeva il suo tappeto scintillante di luci verso l’aereo che preparava la sua discesa. Ricordo la distesa immensa, il luccichio che già raccontava di spazi enormi, molto diversi da quelli a cui ero abituata in Italia. Fissavo la città degli angeli dal finestrino e anche io mi sentivo un po’ come loro, un po’ come gli angeli che ogni giorno bisbigliano osservando dall’alto la vita delle metropoli, sopra il cielo di tutte le Berlino del mondo.
Da lassù uomini e cose si mescolano e si rincorrono. A volte un po’ senza senso. Come quando ogni mattina all’improvviso le strade diventano ricettacoli di macchine imbottigliate nel traffico, tutti a pigiare a gridare a correre verso gli uffici. Lo stesso rituale inverso la sera, al rientro dalle faccende del giorno, quelle che ti costringono negli uffici o in giro per appuntamenti.
Le città si somigliano molto nelle pause pranzo, con i lavoratori sparpagliati come ragazzini in festa rincorsi dal tempo: i più sfortunati, quelli che il tempo afferrerà per primi scagliandoli di nuovo nelle stanzette dei loro uffici, sbocconcellano in fretta un panino rubando minuti al loro dovere, altri invece, quelli che appartengono alla casta dei privilegiati, si avventurano nei ristoranti, menu fisso 10 euro, per ritagliarsi la loro oretta di chiacchiere e cibo.
Sulle strade delle città gli operai, seduti sugli scalini, consumano il loro pasto di sandwich e birra. I ragazzini invece si danno tutti appuntamento ai Mc Donald, orribile omologazione che lega Barcellona a Hong Kong, Buenos Aires a Dublino. Eccolo, uno dei simboli della globalizzazione che vorrebbe fare di ogni città un omogeneizzato.
E invece l’anima delle città resiste, si nasconde – furtiva – nei vicoli, scende in strada nelle ore deserte per gustarsi i dettagli che altrimenti scompaiono, ingoiati dal traffico.
Nascondono una moltitudine di storie, le città.
Storie che si affacciano alle finestre, brulicano nelle strade, si intersecano e poi tornano a essere parallele, procedono vicine, una accanto all’altra, senza unirsi mai più.
Di queste storie è tessuta ogni geografia urbana. Ognuna con la sua anima particolare, irripetibile.
Quando studiavo a Milano, ricordo che a Piazza Duomo, sulla quale sbucavo ogni giorno dopo i sotterranei della metropolitana, respiravo la fretta, l’urgenza, il procedere alla rinfusa di tutti. Tutti correvano, correvo anch’io. Acceleravo il passo senza un perché.
Il tempo, a Milano, è davvero denaro.
Più tardi conobbi invece i languori di Roma, la città che fermò le mie migrazioni, che mise una frontiera davanti alle inquietudini dei miei spostamenti.
Roma è un suk assolato. È un caos ciarliero – a volte magari un po’ cafone – però ti trascina, ti seduce, ti vince.
E’ meraviglia, è estetica dei luoghi e gaiezza delle persone.
A Roma volentieri rimani. È una città che si dà da fare per adottarti, incantandoti con la sua versatilità che unisce sacro e profano.
Come sono diverse, Roma e Milano.
Due modi di essere, di vivere, di sentire le cose del mondo.
Non è vero che le città sono tutte uguali, malgrado le pretese della globalizzazione.
Per fortuna le città sono tutte diverse. Come le persone che abitano.
Al di là dei facili stereotipi che puzzano di macchietta umoristica, davvero il nord e il sud sono abitati da modi differenti, davvero narrano di diverse interpretazioni del mondo.
Di Napoli, la città che incanta i sensi e li smarrisce in un vortice senza ritorno, magico luogo dove si incrociano l’Acqua e il Fuoco, la liquidità dell’emozione e la fiamma dell’ardore creativo, la Femmina e il Maschio dei nostri archetipi antichi, di Napoli, dicevo, conservo sempre un ricordo speciale che poggia sulla memoria di passeggiate senza meta, di estasi e rapimenti in cui danzavano architetture e persone, di canoni inversi in cui gli orientamenti si scambiano il posto.
E ricordo un pranzo in famiglia, uno di quei pranzi meridionali in cui si sfianca il tempo a forza di restare lì, seduti intorno alla tavola apparecchiata con risate e affetti, circondata da persone che radunano storie, aneddoti, pettegolezzi. Che si scambiano idee. Si parla, si parla sul serio mentre il cibo stordisce i sensi ma alllo stesso tempo ravviva la lingua.
Così diversa, Napoli, da una città come Torino. Una piena di problemi eppure spensierata; l’altra ordinata, pulita, ma un po’ freddina. Un’anima più riservata, quella di Torino, meno propensa alle dispersioni, alle ubriacature dei sensi. Della città piemontese ricordo soprattutto la bellezza dei vecchi palazzi, con i tetti nordici su cui, come tanti occhi, vegliano le finestrelle degli abbaini.
I racconti di città hanno un’anima tutta loro, irripetibile.
“La città vive in me come un poema che non m’è riuscito di fissare in parole”, scrive Borges in una poesia. E altrove aggiunge: “Ormai le strade di Buenos Aires sono le viscere dell’anima mia”.
Perché davvero fra ogni città e i suoi abitanti si stabilisce una muta corrispondenza, un patto speciale.
Il ventre di Roma, Tokyo o Berlino nasconde sempre i segreti della sua gente. Segreti penetrabili solo a investigazioni accorte, lontane dalle pappe precotte per i turisti, lontane da ogni Mc Donald e ogni Coca Cola che solo in apparenza rendono il mondo tutto uguale.
Racconti di città e racconti di paese si differenziano per quantità e qualità.
Io sono nata in provincia, a Senigallia, nelle terre marchigiane che sanno di buona campagna e di mare. Anche Senigallia ha i suoi racconti. A me stavano stretti. Io ero una cacciatrice di storie.
Volevo mescolare il fiato a respiri più grandi, girare in quartieri capaci di annullare l’identità regalando momenti di straordinario anonimato (quell’anonimato che però in altre situazioni diventa pesante, terribilmente pesante), nuotare nelle esperienze di altri, in un confronto dialettico da alternare all’isolamento. Volevo perdere lo sguardo nelle distese di tetti e di antenne, infilarmi in spazi nuovi attraversati da una moltitudine di abitanti.
Di tutte le città visitate e vissute conservo le storie nella mente e nel cuore.
Ma ancora oggi fra tutte brilla il ricordo di quella Los Angeles notturna che mi aspettava con le sue promesse di spazi enormi ed di genti lontane. Avrei vissuto a san Diego, a un’ora da lì, per un anno. Dunque c’era in me anche la trepidazione per una sosta diversa dalle solite gite turistiche.
Quelle luci accese nella notte – lassù, dall’aereo – mi entrarono nella pelle.
Ancora oggi, se chiudo gli occhi, sento di nuovo quella sensazione.
E mi emoziono.
Online il nuovo numero di Silmarillon. Un grazie di cuore ai blogger che hanno partecipato con i loro contributi. Una rivista indipendente e gratuita per sopravvivere ha bisogno di testa e cuore. E, ancora una volta, ce l’abbiamo fatta…
Faccia da avatar
L’avatar è la nostra rappresentazione virtuale, l’immagine che ci scegliamo per "apparire" sul web.
Dando vita a una vera e propria fenomenologia.
C’è chi sceglie immagini umane e chi preferisce invece figure animali. Altri ricorrono invece volentieri ai cartoni animati. E poi c’è chi si appella invece a eroi, a figure che appartengono alla storia del cinema, ad attrici e attori che hanno fatto la nostra storia.
Altri invece scelgono di usare la loro immagine reale, postando una foto in cui a volte si preferisce inserire un dettaglio (un occhio, un sorriso, un tre quarti alla Gruber…) oppure si opta per un mezzobusto.
Dettagli significativi, indizi del nostro modo di rappresentarci.
Ma cosa affidiamo al nostro avatar?
Ho spesso pensato alla scelta bizzarra, ma anche "filosofica", della parola avatar con cui nelle tradizioni spirituali si indicano gli esseri celesti che si incarnano sulla terra, scegliendo la manifestazione per soccorrere gli uomini impigliati nelle loro involuzioni egoiche.
Mmh. Dunque un avatar è un "maestro", un illuminato, un essere speciale che viaggia su questa terra senza appartenergli. Fico. E’ come tutti vorremmo essere.
Io faccio parte di quel manipolo di pazzoidi che pensa che nulla sia a caso, in questo mondo. Che tutto sia simbolo e segno, inserito in una trama che collega linee verticali e orizzontali per raccontarci sempre qualcosa…
E in questo contesto anche la parola avatar ha un significato preciso, in una contestualizzazione non casuale.
Sul web possiamo inventarci la nostra identità, sfuggendo al grigiore di una vita "impiegatizia" in cui a volte ci sentiamo, magari, un po’ Fantozzi.
Una vita lontana dalle sfavillanti ribalte del cinema, dai luccichini di quel reame di vip che si agita tra nord a sud, tra un Lapo e un Briatore, dai modelli "Milano da bere" di moda e pubblicità.
E spesso anche lontana dalle nostre idee e idealizzazioni (vorrei essere come il Budda, oppure come Oriana Fallaci, o come Furio Colombo. Magari perfino come Berlusconi. Beh, facciamo Bondi, aggiustiamo un po’ il tiro…).
I nostri "miti" personali ci danno un’occasione: quella di avvicinarli un po’ attraverso la scelta dell’avatar.
Avatar che non sono sempre rassicuranti (teschi, pistole, manette) o che non alludono sempre a figure "positive" (penso all’Imperatore nero, ad esempio).
In questo caso si vestono i panni del simpatico agit prop, si provoca, si stuzzica, si stimola ammiccando a Pierino la peste.
Comunque sia, la scelta dell’avatar parla di noi. Ma parla di come siamo o di come vorremmo essere?
Già. Bella domanda.
Ch siamo, noi, sul web?
Quanto la realtà virtuale ci permette una "manifestazione" (tanto per rimanere nella terminologia antica legata all’avatar della tradizione) o quanto ci permette di nasconderci, di giocare a rimpiattino, di mandare avanti il personaggio che vorremmo essere ma che non siamo?
Personalmente credo che il mondo delle nuove tecnologie sia in pari modo pieno di possibilità quanto di insidie.
Lo uso, ci lavoro, ne scopro le infinite meraviglie e possibilità. Però mi interrogo, mi chiedo anche quanta finzione consenta.
Come alla maggior parte di noi, mi è capitato di conoscere personalmente i "proprietari" di alcuni avatar, i demiurghi che li mettono in moto facendoli "rotolare" di blog in blog, di sito in sito…
Alcuni corrispondevano all’immagine che avevano dato. C’era una coincidenza fra come si rappresentavano pubblicamente in Rete e come erano.
Un avatar spumeggiante, ironico, era l’estensione di un tizio spiritoso, allegro, estroverso.
Viceversa, dietro un avatar “lunare”, notturno, c’era una persona umbratile, difficile, che viveva piegata in sé stessa, esposta alla luce riflessa degli altri.
Spesso ci sono noti gli avatar di nostri amici e conoscenti, e possiamo ammirarli scorazzare come noi fra siti e blog.
Sicuramente avremo notato quando coincidono e quando invece si scindono, quasi schizofrenicamente. Alcuni sono veri esempi borderline.
Interessante. Ci vorrebbe una vera letteratura da avatar. Uno studio socio-antropologico.
La seconda identità si affianca alla prima secondo un gioco di specchi o differenze.
Sul web si può “barare” bene anche se a volte la scrittura tradisce i vizi caratteristici che ci trasciniamo dietro: spuntano qua e là, come funghetti velenosi.
Vero è, però, che il magico teatro virtuale accoglie e inscena le nostre rappresentazioni. E le nostre finzioni.
A me fa sempre piacere quando l’avatar e il suo proprietario si sovrappongono in modo schietto, verace. C’è un sapore di verità che nel gioco di maya del web risulta raro.
Ma è anche vero che l’occasione di vederci e farci vedere per come vorremmo essere è troppp ghiotta. Va lasciata libera di galoppare. A briglia sciolta.
Del resto, occorre anche pensare a quanto già l’identità reale sia una maschera (a cui richiama l’etimologia del termine “persona”, fra l’altro). Anzi, una, cento, mille maschere.
Maschere con cui ci difendiamo da noi stessi e dal mondo, schierando come su un campo di calcio i nostri giocatori, piazzando attentamente gli attaccanti, i difensori e i portieri.
Figuriamoci cosa appiccichiamo al nostro avatar, del quale addirittura possiamo scegliere l’immagine.
Scateniamo, qui, la nostra fantasia liberando frustrazioni e bisogni, inventandoci, come su Second Life, che di fatto rappresenta solo il culmine del nostro doppio che come un Golem ha già preso da tempo una vita autonoma sul web, una seconda occasione per “essere” e per farci vedere dal mondo.
Se noi siamo i demiurghi dell’avatar, allora ci domandiamo, davanti all’atto della creazione: avatar a nostra immagine e somiglianza o avatar a nostra immagine e differenza? Domandona. E la risposta? Busta A o busta B? Beh, io direi che valgono entrambi, in alcuni casi si ha perfino un mix fascinoso.
Del resto, perché in un mondo reale animato da maschere e personaggi il nostro doppio virtuale dovrebbe essere più veritiero?
Invece dovrebbe, a mio avviso. O almeno potrebbe.
Perché alla fine siamo sempre noi. Con le nostre bellezze e le nostre mondezze.
Provarci anche sul mondo che corre bel web è una bella scommessa.
Al di là della faccia da avatar, quella che conta è la nostra…
La difficile arte dello spossessamento
La civilità ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non v’è libertà né vera vita senza il tirocinio dello spossessamento.
(Cioran, La caduta nel tempo)
Un tirocinio difficile, quello proposto da Cioran (autore che amo irrimediabilmente, malgrado le ferite inferte all’umore ogni volta che lo avvicino. O forse proprio pr quello…).
L’uomo è "ladro", è un "prendi", come dice Anthony Hopkins nel bel film Instinct.
Rubiamo continuamente. Ci impossessiamo di tutto. Nulla sfugge alla nostra vena predatoria, alla rapacità del nostro esistere.
Animali, spazi, oggetti e perfino persone. Tutto, tutto viene preso, conquistato, accaparrato, in un "prendi prendi" epilettico in cui si passa instancabilemente da una conquista a un’altra. Siamo pirati. Rubiamo tesori e assaliamo caravelle, ogni giorno. Ammassati nelle nostre case, i nostri bottini avanzano mentre noi riduciamo il nostro spazio vitale.
Siamo pirati.
Ma dei pirati, ahimé, non abbiamo neppure una vaga ombra del fascino.
Somigliamo piuttosto a dei comuni ladruncoli, anche un po’ vigliacchetti.
Facile, infatti, ammassare. Difficile, invece, operare una redutio.
Perché le cose che ci circondano illudono l’Io con vane promesse, lo seducono, lo invitano in un luna park in cui ogni cosa non può essere goduta per ciò chè ma deve essere posseduta.
Il panorama è bello? Sì, ma è ancora più bello se diventa il mio panorama.
E quel furetto? Lo voglio lo voglio lo voglio, non importa se si tratta di un animale che soffre nell’area claustrofobica di un appartamento: se lo addomestico diventa "mio", se resta libero rimane "suo". Fatto gravissimo.
Stessa cosa per i girasoli ammirati in campagna. Quel girasole lì me lo porto a casa, lo voglio, è il "mio" girasole.
Un po’ come fa il Gollum con il suo anello, il suo tessssooooroooo, e su quella s sibilata striscia il serpente del possesso, scivola e tutto fagocita, senza discriminare la qualità dell’oggetto o dell’esperienza.
Già, perchè ci impossessiamo anche delle esperienze. Tutto ciò che ci circonda deve essere nostro, deve essere ingoiato senza mai essere sputato fuori, rimesso in circolazione (e qui il gioco sapiente delle tre Grazie si inceppa in un "non ritorno" che blocca il restituire rendendoci bulimici e perdenti).
La smania di certi turisti che impazzano nevrastenici con i click clik della macchina fotografica o staccano pezzi di muro (se va bene, altrimenti li imbrattano addirittura per segnare il loro osceno passaggio) scivola sempre su questa sfilza di s. E tutti diventiamo un po’ Gollum.
Il mondo va vissuto, non va "mangiato". Né posseduto.
Tornando alle cose, e al loro magico, perverso potere che le fa diventare la materica estensione di un Io che ci spaventa per la sua evanescenza, è anche importante osservare come perfino i più progressisti di noi sotto molti aspetti sono "conservatori". Sì, conservatori. Conservatori quando non riusciamo a liberarci di nulla, a far spazio al nuovo, tutti attaccati come l’edera i nostri otri vecchi ma pieni.
Gli oggetti ci assediano, ci perseguitano, ci invitano alla schiavitù. maginfica schiavitù. Ripenso alla scena di Matrix in cui un tizio alla solitudine di un’autentica libertà preferisce l’illusoria succulenza di una bella bistecca "plastificata".
Il circo meraviglioso è pieno di luci, di suoni, di odori e di colori. Troppo allettante.
Ma, come dice Cioran, dovremmo imparare l’arte dello spossessamento.
Non a caso nello Zodiaco il segno opposto al Toro, che incarna – fra le altre cose – il principio del possedere – è proprio quello dello Scorpione che simbolicamente con il veleno della sua coda attenta al placido vivere taurino esponendolo alla puntura fatale che spezzerà…l’equilibrio dei falsi possessi.
Non possediamo nulla, noi. Nemmeno la vita. Anche quella, un giorno, dovremo restituire.
Eppure ci ostiniamo a prendere a man bassa tutto ciò che ci circonda, infilandolo nella scatola delle convenienze. Delle sicurezze.
In realtà, più "abbiamo" meno "siamo".
Perché stupirsi, dunque, del fatto che i paesi più ricchi sono anche i paesi più depressi? Quelli più esposti all’infelicità?
Il tanto avere non rende felici. Il tanto "essere", sì. Ma se ci si incammina su quella strada, se si cerca di "essere" bisogna togliersi i veli, un po’ come Salomè nella sua danza. Sul piatto, in questo caso, la testa dell’Io.
Meglio allora coprirsi di tante cose, coprirsi fino a mutilare il respiro. E così, belli immersi nei nostri possessi, speriamo invano di evadere dalla puntura dello scorpione.
Ma quando ci punge, quando questa coda manda all’aria le nostre gozzoviglie fatte di addizioni e affastellamenti, allora sì che dopo il dolore della puntura intravediamo una nuova possibilità.
Del resto lo dicevano anche gli antichi: "trasformare il veleno in medicina".
Non è solo un principio omeopatico. E’ un principio di vita.
Del tempo e di altre questioni meterologiche
Oggi, a pranzo, sentivo alcune persone lamentarsi del vento. Di fatto Roma è “ripulita” da un venticello fresco, che fa fare i capricci ai capelli e pizzica piacevolmente la pelle. E che magari entrando dalle finestre scompiglia – birichino – i fogli radunati sul tavolo del nostro studio. Dopo le torride giornate che squagliavano cemento e pensieri mi sembra un bel regalino, questa frescura in cui il caldo non si gonfia di umidità.
Eppure alcune persone si lamentavano del vento. Ingrate.
Poi ho pensato che, di fronte al tempo, siamo sempre pronti a lamentarci.
Fa caldo.
Fa freddo.
Non si respira, senti che afa!
Accidenti a questo vento.
Uffa, piove.
Non piove mai.
Guarda che tempo grigio.
Ma quand’è che arrivano un po’ di nuvole? Con tutto ‘sto sole…
Già. Non siamo mai soddisfatti del tempo. Vorremmo piegarlo ai nostri desideri, ai nostri bisogni.
E per quanto lui si dia da fare, siamo quasi sempre scontenti.
Ci attardiamo a osservare e giudicare il destino meteorologico delle giornate.
Loro, invece, le giornate, se ne fregano dei nostri commenti.
Le condizioni metereologiche, poi, sono sempre relative. Ciò che male a uno, fa bene all’altro.
Quando piove, per esempio, e corriamo affannati sotto gli ombrelli, incartandoci con le nostre auto nel traffico che all’improvviso si imbizzarrisce, le piante invece si sporgono tutte contente verso quell’acqua provvidenziale.
Pensando alla pioggia, ricordo quella volta in cui decisi di ignorare l’ombrello. Di fatto, a volte sembriamo un po’ isterici davanti a innocenti gocce d’acqua che tutt’al più ci infradiciano qualche vestito. Cominciamo a correre qua e là, impazziti, manco si trattasse dell’uragano Katrina.
Così quel giorno, dicevo, decisi di mollare a casa l’ombrello. E me la godetti tutta, l’acqua che scivolando mi attraversava i capelli impigliandosi in qualche riccio eccessivo, che bagnava i pensieri, inumidiva la pelle. Camminavo così, senza correre, in mezzo a gente frettolosa che galoppava a passo spedito verso la sua abitazione. Sembravo un po’ un’aliena, impegnata in questa buffa moviola prodotta dal mio camminare lento in mezzo a uno scalpiccio epilettico. Un tempo rallentato e un tempo accelerato, uno fatto di testa nuda, l’altro di ombrelli e cappelli, si affrontavano, quel pomeriggio, sul marciapiede.
“Neanche la pioggia ha così piccole mani”, recita una poesia di Tennessee Williams.
Bellissimo verso, mi è sempre piaciuto.
Quel giorno le mani della pioggia mi sfioravano decise e allo stesso tempo delicate.
Fu un momento davvero speciale.
Peccato, però, che lo pagai con un paio di giorni di febbre.
Così "mi imparo" a fare l’eroina dei temporali.
Il fatto è che non siamo più abituati, ci difendiamo in modo forse eccessivo dalla natura, accogliendo invece a braccia aperte quello che ci fa male. Come lo smog delle auto. Come i cellulari. Come il cemento che tutto invade.
Invece ce la prendiamo con il tempo. E con il governo ladro.
Ride, il tempo. Perché in fondo sa che altrove, non esiste neppure. Come noi.
Visioni
Se mai vi siete trovati nel punto migliore da cui avere una vista panoramica a trecentosessanta gradi, sapete che un posto del genere è necessariamente esposto agli elementi naturali. Di là potete vedere tutto, di là però sentirete anche ogni cosa nella maniera più vivida: il vento, il sole e la pioggia.
(Donna Fahri, Lo yoga nella vita)
Per gli strani percorsi compiuti a volte dalle associazioni mentali, leggendo questo brano ho pensato allo Zodiaco. O meglio, al tema natale di ogni persona.
Del resto, la mia vita “gollumiana” passa anche attraverso questo. L’amore per la letteratura contemporanea e il giornalismo, per le forme moderne, metropolitane, di romanzi e racconti…e la passione per il mondo degli antichi, per le loro scienze sacre degli orientamenti.
E’ da questa “seconda vita” che nasce la riflessione su questo brano.
Quando, affascinata dall’alchimia, ho inciampato nei simboli astrologici di cui è intessuta, mi sono innamorata di questo arcano, sapiente specchio dell’anima, oggi bistrattato dalla ridicolizzazione economico-commerciale proposta dai vari Branko e Fox, delinquenti a piede libero.
“L’astrologia è un’antica signora oggi ridotta al rango di prostituta”, scriveva André Breton.
Povera astrologia, svenduta per una manciata di euro, smantellata dei suoi contenuti più profondi, svuotata della sua profondità filosofica, geometrica e matematica…
Eppure è possibile, se la si studia in un certo modo, comprenderne ancora le valenze più nascoste, lontane dai palcoscenici idioti dei vari “Salve, fratellini della Vergine. Oggi vi attende un incontro magico. Attenti al capo in ufficio, però”. Pirlate a uso e consumo dell’ingnoranza.
Ecco, tornando all’astrologia, la riflessione della Fahri mi chiama in mente l’ampiezza dello Zodiaco, con i suoi 360 gradi e i dodici segni che, nel tema natale di ogni individuo, i pianeti in base al momento della sua nascita, ospitano la posizione dei vari pianeti.
Nel cielo natale di alcuni uomini questi pianeti si trovano tutti radunati in uno stellium, una configurazione particolare che li raggruppa. In quello di altri uomini, invece, i pianeti sono distribuiti all’interno del cerchio.
Dato che i pianeti simboleggiano “fuochi di attività”, qualità particolari – e archetipiche – che vivono in ognuno di noi, è chiaro che chi ha i pianeti distribuiti in modo circolare da un lato ha una visione completa delle cose e del mondo, dall’altra è messo in croce, vive cioè di conflitti e di opposizioni (nel cerchio del tema natale è inscritta, guarda caso, una croce con i quattro angoli del cielo).
Ora, non posso addentrarmi in discorsi troppo “tecnici”. Mi interessa solo osservare come la conoscenza, la consapevolezza, sia frutto di una tensione, di un dolore. In fondo è da un attrito che nasce ogni scintilla. Ed è da una sofferenza che si genera volentieri la spinta creativa. Come nel mondo della letteratura e della scrittura, che spesso viaggiano sul pungolìo di un dolore, su un tarlo che morsica l’anima.
Il tema natale parla per simboli, e quei simboli sono ottimi stimoli per penetrare le cose.
Di certo non smetto mai di meravigliarmi davanti a questa architettura particolare.
Davanti alla sua profondità filosofica, oggi ormai sconosciuta.
Il cielo natale, con la sua croce e il suo cerchio, raccontano di una disposizione interiore. E di come più un uomo è sottoposto a spinte e pressioni – simboleggiate dai pianeti distribuiti lungo gli assi della sua croce zodiacale – maggiore è il suo potenziale. E la sua visione panoramica dello Zodiaco-mondo.
Vedere “tutto” fa anche male, ci espone al vento e alla pioggia, come dice la Fahri.
Non ci troviamo su una radura ma siamo in collina, o magari addirittura in alta montagna, privi di protezioni.
Ognuno di noi ha la sua cuccia, la sua copertina di Linus, ognuno di noi cerca di ridurre le pressioni dei quattro angoli cardinali che rischiano di inchiodarlo (ma anche di liberarlo) perché più cose sentiamo, e conosciamo, più conflitti – certamente – vivremo.
Ma è il mondo degli opposti che dobbiamo attraversare. Una navigazione a vista, una navigazione fatta di contraddizioni e conflitti. Necessari, però, alla comprensione. Fa male, certo. Fa malissimo.
Ma quel panorama esteso che riusciamo a guardare, dal luogo in cui, esposti, subiamo anche la neve, la pioggia e il vento, è anche lo stesso che ci concede la magia dei tramonti, annuncio della notte con la sua danza di stelle. Lo stesso da cui guardiamo passare le nuvole, con le loro forme mutevoli che ci rammentano la magnifica – e terribile – provvisorietà della nostra esistenza.
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