"Sette anime" di Gabriele Muccino divide pubblico e critica, scompiglia, ispira o respinge.
A me è piaciuto. Moltissimo.
Peccato che la traduzione italiana non abbia rispettato, tanto per cambiare, il titolo in inglese: "Seven pounds", sette libbre, che richiama il "pound of flesh" shakesperiano, la libbra di carne umana chiesta dal mercante di Venezia per estinguere il suo debito.
Sette libbre, sette pesi, sette debiti.
E’ la storia di un uomo che si finge esattore fiscale per trovare sette persone da salvare per compensare sette vite (fra cui quella della moglie) terminate a causa di un incidente stradale in cui la sua auto uscì fuori strada.
Una lista di Schindler con sette nomi: sette persone da salvare, sette vite da aiutare.
Solo che di una di queste si innamorerà, e questo amore complicherà il suo piano ma non lo fermerà.
Un film drammatico, dolente, intensissimo.
Il peso della colpa e del rimorso pervade ogni scena, e allo stesso tempo accade che la speranza (improvvisa, come ogni speranza) soffi per un istante breve il suo alito caldo d’amore, e riscaldi un cuore nel tempo che concede un fiammifero. Ma la fiamma si accende, divampa, prosegue in un altrove diverso da quello sperato, trasformandosi in brace ardente nella memoria e nel fisico di un dono ricevuto.
Il cuore, non a caso, è l’altro tema centrale del film. Un cuore malato da salvare, un cuore ferito da sanare.
Facilissimo, in casi come questi, cadere nella banalità, nel valzer dei sentimenti strappalacrime, nella formattazione di schemi emotivi banalizzati – come sempre – da enfasi e ridondanze. E invece no. Invece il film è sobrio, elegante, tende un filo e non lo molla. Inizia in punta di piedi e poi il disegno di una danza comincia a svelarsi (ma bisogna attendere almeno il secondo tempo del film) finché all’improvviso esplode come un fuoco d’artificio, i pezzi si compongono rapidamente in una tensione emotiva che punge la pelle, la scopre.
Gran bel film. Grandissima interpretazione di un talento assoluto, Will Smith, scintillante nel suo felice sodalizio con Gabriele Muccino, che come un amante ne esalta le virtù attraverso una regia "fisica" e allo stesso tempo sottile, impalpabile.
La sceneggiatura (stupenda) è di un americano, malgrado le critiche di lentezza (certo, andiamo sempre troppo veloci) ed "ermetismo" (il puzzle che si compone man mano a me è piaciuto moltissimo) io ho trovato sette anime entusiasmante. E lacerante.
Fa riflettere sula nostra umana condizione, sospesa tra colpe e desideri di redenzione. E, soprattutto, pone domande mai risolte: è lecito il suicidio? e se ci uccidiamo per donare i nostri organi ad altre persone saremo davvero "puniti"? non avremo diritto di sepoltura? è un gesto egoista o un gesto d’amore? compensare un errore con un’azione contraria ci rende liberi o ci indebita ancora di più verso il prossimo nostro?
E’ redenzione o scarico della coscienza? salvezza o dannazione?
E poi chi siamo noi per giudicare la vita nostra e degli altri?
"Lei è una brava persona?" domanda il protagonista agli sconosciuti che sta contattando per vedere se "meritano" il dono che cambierà il loro destino.
Già. Una brava persona. Sono io una brava persona? che significa essere "brave persone"? quali sono i parametri per giudicarmi?
forse più che brave persone dovremmo essere persone vere. Vere davanti all’immagine che vogliamo dare, agli altri e a noi stessi.
Non a caso a un certo punto punto del film Will Smith domanda: "Lei è una brava persona? Anche quando gli altri non la vedono?".
Ecco, ecco allora che diventa più difficile. Essere bravi quando gli altri non ci osservano, quando smettiamo le nostre recitazioni, quando ci troviamo nel buio della nostra stanza, davanti alla coscienza.
Non è un film facile, questo. Propone domande, suggerisce risposte per forza solo sfiorate.
Lo scavo vero non sta mai in un film. Sta nella vita.
Di certo, però, sono grata ogni volta che qualcosa o qualcuno mi mette davanti alle domande.