L’altro giorno – di pomeriggio presto – mi aggiravo in libreria, con la stessa aria furbacchiona di un bimbo che ha rubato la Nutella. In effetti nella "controra" o si riposa o si è già nuovamente al lavoro, dopo la pausa pranzo.
Io invece vagabondavo nella libreria Mondadori, ciondolando senza fretta davanti alle pile di libri. Avedo deciso di regalarmi tutto il tempo che volevo, senza fretta e senza meta letteraria. Infatti non sapevo cosa comprare…
I miei occhi hanno frugato fra le novità, accarezzando i dorsi freschi di stampa, poi hanno frugato nella saggistica, sezione psicologia. Tornata ai romanzi, mi trovavo nei pressi dei classici quando mi sento chiamare per nome e cognome. Mi giro e riconosco nell’addetto Mondadori il mio ex allievo P., che non vedevo da sei anni, da quando ero stata la sua insegnante al corso di tecniche di redazione che all’epoca dirigevo per un’agenzia letteraria.
Lo riconosco subito, P. Non è cambiato. Tutto contento, mi dice di lavorare in questa libreria e di trovarsi bene. Conversazione piacevolissima, breve ma intensa coagulazione di ricordi dolci di tempi che non sono più.
Poi lui torna al suo lavoro, io ai miei scaffali. Ma all’improvviso mi rendo conto di non essere più anonima, lì dentro. Non sono più una donna qualunque che cerca libri qualunque in mezzo a una folla di sconosciuti. Sono Francesca Pacini, la ex insegnante di P.
Questo dettaglio – mi rendo conto – ha come stretto un poco, solo un poco, con un laccio la mia libertà di movimento e di scelta. Già, il discorso delle aspettative. Lui si aspettava che comprassi un libro intelligente, profondo, come quelli che suggerivo in classe quando conversavo di letteratura con i miei allievi. E se invece avessi comprato "I love shopping" della Kinsella? Oppure l’ultimo libro di Paolo Crepet? O magari il Manuale per sconfiggere il principe azzurro? (giuro che esiste…)
Di fatto l’anonimato ci rende più liberi. Che ne siamo consapevoli o meno, siamo sempre soggetti alle pressione delle nostre e delle altrui aspettative. Ci aspettiamo sempre qualcosa, da chi conosciamo. E da noi stessi, quando siamo conosciuti.
Possiamo riconoscerlo o meno. E tuttavia questa piccola pressione invisibile crea legami, condizioni, intenzioni.
Io mi sono sentita un po’ meno libera, in quel momento. Mi sono ricordata del ruolo di "prof." che ho abitato in quel periodo. C’era la Francesca presente ma anche quella passata, quella ri-conosciuta da P. La Francesca che parlava di libri e di come fosse importante l’impegno intellettuale. Quella che aveva tanto ardore ma probabilmente qualche ingenuità in più, all’epoca di quei corsi. Non c’era più, ora, eppure la sua sagoma era tornata per ricomporsi fugacemente sotto gli occhi di P. che ogni tanto incontravano il mio vagabondare.
Poi me ne sono fregata, e ho guardato di tutto, liberamente. Senza essere Francesca. Nè Pacini. Nè ex insegnante. Solo una donna qualunque in una libreria qualunque.
Ma ho comunque riflettuto molto suoi nostri ruoli, sulle azioni delle nostre scene che con il tempo cambiano o che rimangono immutate malgrado le variazioni, ho pensato all’irrevocabile peso di un’identità che non sfiora l’essenza, soprattutto se siamo esseri complessi, se siamo quell’"Uno, nessuno centomila" di pirandelliana memoria.
Quando nessuno ci conosce, ci sentiamo meno aderenti ai personaggi che, come tutti, abitiamo. Non importa quanto siano aderenti a questi personaggi, ci sarà sempre uno scarto, un orlo, un crinale fra l’Io pubblico che rappresentiamo e il nostro Sé.
E’ una questione di identità.
Di aspettativa.
Per questo il viaggio in luoghi stranieri è anche una liberazione. Smettiamo i nostri vestiti sociali, culturali, affettivi, professionali per misurarci con un ignoto che non ci chiede la carta d’identità se non siamo noi a presentargliela. Dono e occasione per sperimentare la possibilità di far vivere altro, di aprire le sbarre interiori nelle quali confiniamo ciò che non osiamo o non vogliamo conoscere, ciò che non è conforme a ciò che rappresentiamo agli occhi nostri e di chi ci conosce.
Lo sconosciuto è immersione alla ricerca di altri nuclei, altre essenze.
Ci dicono chi siamo da piccoli. Decidono come dobbiamo vestirci, cosa è bene per noi. E poi ci insegnano l’importanza di un’appartenenza. Guai essere "lupi della steppa", dobbiamo prosperare nelle giardini fioriti della nostra società che ha pronti tanti ruoli, di ogni tipo. Professioni, amori, carriere, famiglie…tanti quadretti, come quelli che sul muro espongono la laurea (magari il talento si misurasse su carta), ordinati, puliti, riconoscibili.
Ecco, quel giorno ero stata riconosciuta, appunto, e questa cosa, malgrado il piacere di un vecchio incontro, in quel momento mi aveva un po’ infastidita. Perchè ero malinconica e avevo bisogno di uno spazio intimo tutto per me, uno spazio bianco, senza segni nè tacche. Senza identità o memoria.
Poi, dicevo, me ne sono fregata anche se sentivo il "Francesca Pacini dei corsi" penzolarmi sulla testa, oscillando come un pendolo.
Comunque è andata bene. Quando sono andata alla cassa P. è arrivato per sincerarsi che mi facessero lo sconto. I suoi occhi sono caduto sul mio libro:"La storia di un matrimonio" di Andrew Sean Greer.
Lo sguardo di P. si è illuminato. "Pensa! Sto leggendo anche io quel libro! E’ molto bello, una scrittura e un testo particolarissimi…".
Meno male.