Rebus di limiti illimitati, l’infanzia. Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le magiche parole, compilate a rilento nel libro delle fiabe). Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre i quali doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda. Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l’acqua nascosta. Era la fin du parc.
(Cristina Campo, Gli imperdonabili).
Lettura travolgente, questa. Cristina Campo ti seduce, ti fa girare la testa con la sua tensione verso l’estremo dell’universo, ti copre di stelle cadenti che, come la polverina magica di Peter Pan, alleggeriscono il peso di ogni metallo. E all’improvviso ti ritrovi nei magici regni della fiaba e dello spirito, incantata dalla danza delle metafore che suonano i loro campanellini d’argento. Tintinna anche la testa, al loro suono si apre il varco della percezione profonda, quella che viaggia sopra e sotto ogni emozione, tappeto volante tessuto di ricami arcani.
La fiaba insegna. “Il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino”.
Ritrovare quei giardini in cui, liberi dalla nostra consueta prigionia, danziamo la danza del derviscio significa tornare nei meravigliosi, aurei regni infantili, quando ognuno di noi aveva la sua fiaba speciale, il suo archetipo particolare che sempre tornava a sussurrare al cuore.
“Racconta, nonna, Raccontami ancora quella storia”.
E così la donna anziana, la saggia che nelle mani e nella bocca teneva la misura del tempo senza tempo, misteriosa conservatrice dei segreti di ogni àugure, trasferiva le indicazioni verso i sentieri di conoscenza che un giorno, da adulti, avremmo cercato ancora.
Oggi purtroppo questa sapienza e questi segreti sono destinati al declino. L’antico cantastorie non trova più spazio nel regno della materia, della linea retta, della ragione priva di cuore.
L’esile filo di Arianna che ci collega alle stelle, e del quale la fiaba è un segno e un richiamo, resiste agli urti ma diventa fragile, evanescente, cadaverico, esposto a una luce lunare non più magica ma ingannevole, come mostra la carta dei Tarocchi.
Quando eravamo bambini davanti alle fiabe avevamo occhioni ardenti, e bocche dischiuse come un bocciolo a primavera. Avidi, ascoltavamo quelle letture così particolari in cui gli eroi si perdevano, compivano percorsi circolari incontrando travagli di ogni tipo per poi tornare a casa, una casa dalla quale l’anima non si era mai allontanata, inviando l’Io alla ricerca della sua origine.
Tempo meraviglioso, tempo di dame, di draghi, di eroi e cavalieri.
Il libro della Campo mi riporta, con una vertigine, a quell’alba dorata, mistero e origine di ogni fiaba.
La tristezza si inclina senza speranza, va giù, scivola verso il basso pensando ai bambini di oggi,esposti al rapimento di quei mondi fatati legati a un filo di Arianna sempre più occulto.
Senza il recupero di quello stupore non conosceremo mai il nostro regno interiore.
E mentre guardo mio nipote negli occhi penso che oggi gli parlerò ancora delle fate (lui le adora, ne sente il richiamo sottile e penetrante) e di come, in silenziosi boschi lontani, se l’uomo tace, il vento racconta.
Il suo sguardo mi guida con mano sicura verso i segreti della mia infanzia. Luoghi che ho solo dimenticato, come tutti. Ma che tuttavia, tuttavia stanno sempre lì, pazienti. Pronti a ricordarci i nostri stupori.