L’ATTIMO CHE CAMBIO’ IL NOSTRO DESTINO
C’è un attimo che cambia il nostro destino per sempre. Si gioca sul filo di un sussurro di vento, oppure arriva come un terremoto imprevisto. A volte ha la forma di un’ala di colomba che si trasforma in falco non appena la preda, fiduciosa, abbandona le sue zampette a terra; altre volte si mostra da subito come una tentazione luciferina alla quale non ci si può sottrarre, alla quale si deve necessariamente soccombere.
Arriva d’inverno, con la sciarpa e i guantoni di lana, oppure d’estate, a bordo di una barchetta a vela che si ciondola sulla brezza marina.
Ma quando arriva, la nostra vita cambia per sempre. Da quel momento, da quell’esatto momento, ci saranno un prima e un dopo. La vita si spacca in due parti, come una mela tagliata, e una parte resta lì, avvolta nella formaldeide della memoria, ora esaltata ora rimpianta ora maledetta; l’altra parte invece avanza traballante in cerca di una nuova forma che lentamente troverà. Ma quella zona di confine, quella lama di coltello su cui si è diviso il nostro destino, resterà sempre come l’incisione fatale che ci portò via la quiete del tempo che libero fluisce, introducendo invece l’amaro spazio dello ieri e dell’oggi.
Ognuno di noi ha un prima e un dopo. Due vite, due vite che si sfiorano a volte, ma senza mai toccarsi più davvero, come accade a Lady Falco e al capitano Navarre in LadyHawke (film romantico senza molte pretese, ma suggestivo). Come nella scena del ghiaccio, quando Navarre-lupo sta per affogare e Isabeau non si è ancora trasformata in un falco. Ma ecco che arriva il mattino, l’attimo, l’unico, in cui i due amanti possono vedersi per un istante nelle loro vesti umane; un istante per ricordare ciò che era e non sarà più. Il sole avanza, Navarre tende la mano verso Isabeau che però vola via, di nuovo falco per tutto un nuovo, lungo giorno.
Un po’ come per questi due amanti, le nostre vite spezzate da quell’istante in cui il demiurgo girò un’altra ruota rotoleranno altrove, e solo nella memoria, solo nella ferita del sole che si introduce nella notte, sapranno ricordare chi erano.
Ma se per Isabeau e Navarre si tratta di un incantesimo d’amore che sarà sciolto alla fine, per l’uomo, solitamente, l’essere separato da ciò che era (ciò che amava, che credeva) introduce una nuova vita le cui possibilità conducono a varianti imponderabili che dovrà imparare a conoscere.
E anche un domani lontano, quando saremo di nuovo felici (o infelici, perché se la mano del destino traduce la nostra nuova vita in gioia non è per forza detto che questa debba permanere: l’inganno della Ruota procede), ricorderemo sempre l’attimo fatale in cui qualcosa di noi si spezzò dentro, e morì.
Morì come un uccellino in un parco invernale: sotto i fiocchi di neve, ai piedi di un albero. Tremando, senza fare rumore.
Chi lo ha sperimentato sa cosa significhi parlare di una vita precedente, e non semplicemente di “noi nel passato”.
Significa morire e rinascere. A volte fa male. Ma non c’è altra strada possibile. E un giorno, un giorno ci renderemo conto che ne è valsa la pena.
LA MADRE E LO SPECCHIO
Ogni bambino ha il legittimo bisogno di essere guardato, capito, preeso sul serio e rispettato dalla propria madre. Deve poter disporre della madre nelle prime settimane e nei primi mesi di vita, usarla, rispecchiarsi in lei. Un’immagine di Winnicott illustra benissimo la situazione: la madre guarda il bambino che tiene in braccio, il piccolo guarda la madre in volto e vi si ritrova…a patto che la madre guardi davvero quell’esserino indifeso nella sua unicità, e non osservi invece le proprie paure e attese, i progetti che imbastice per il figlio, che proietta su di lui. In questo caso nel volto della madre il bambino non troverà sè stesso, ma le esigtenze della amdre. Rimarrà allora senza specchio e per tutta la vita continuerà invano a cercarlo.
(Alice Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé)
Il saggio di Alice Miller è spietato. Davvero. Racconta di tutti i bambini che mulinano al vento talenti precoci per compensare la dilaniante ferita dell’anima rimasta sospesa - e priva di suture - negli occhi fuggiaschi di una mamma troppo occupata.
Di fatto, quante volte siamo presenti mentre parliamo con qualcuno? I nostri occhi fissano quelli dell’interlocutore mentre in realtà vediamo sfilare davanti a noi la lista delle nostre quotidiane costernazioni, o gli appuntamenti mancati, o quelli da fare. O pensiamo, semplicemente, al colore del rossetto che indosseremo stasera (meglio il 43 di Dior oppure il 17 di Lancome?).
Continuamente non siamo dove dovremmo essere. Ma in quei mesi, in quegli istanti, la nostra assenza di madre diverrà vuoto, abisso, voragine.
Il bambino che rimane da solo, con il suo specchio rotto, ne cercherà sempre un altro. Ma non c’è specchio adulto che possa rimandare la sicurezza e l’amore trepidante di quella primavera interrotta.
Il ramo si spezza, il bocciolo precipita, l’autunno affretta i suoi passi.
L’OSCAR DELLA MORTE
Quando la morte si avvicina qualcuno riesce a captarla.
Accade a Oscar, un gatto che vive nella Steere House di Providence, negli Stati Uniti. Nella clinica, medici e infermieri vivono questa straordinaria avventura.
Oscar è un micio tranquillo, discreto. Ma ha un talento particolare: sente l’arrivo della morte. Così salta sul letto di un malato, si accuccia accanto e comincia a fare le fusa. Dopo poco, il malato cessa di vivere.
Il caso ha ovviamente destato clamore ed è finito sul New England journal of medicine.
Ma perché stupirsi tanto? In fondo, i gatti sono sempre stati usati dai maghi e dalle streghe per le loro capacità percettive raffinatissime. Sembrerebbero capaci di vedere e sentire cose che a noi non sono concesse (avete mai visto un gatto fissare insistentemente il muro, a vuoto, per ore e con l’aria allerta? a me è capitato, e ho avuto la netta sensazione che…non fossimo soli).
Di sicuro Oscar è un sensitivo, al di là della folla di ipotesi e spiegazioni scientifiche (c’è chi sostiene che percepisca la variazione sottile del respiro che diventa diverso man mano che la morte si avvicina).
Il dato rimane: questo gatto sente in anticipo quando una vita sta per spegnersi, e diventa una sorta di bizzarro psicopompo che traghetta l’anima nell’aldilà, festeggiandone la dipartita. Sarebbe piaciuta, questa storia, agli Egizi, che seppellivano i loro gatti e ornavano le tombe con statue feline.
Comunque sia, Oscar è un gatto speciale. Certo, c’è da temere per il malato nel cui letto lui salta, ma in fondo non è poi male morire accompagnati da due occhi silenziosi e un delizioso ronfare.
Chissà che Oscar non veda il distacco dal corpo e, sornione, non visto, faccia "ciao ciao" con la sua zampetta.
Con buona pace di chi pensa che gli animali non abbiano un’anima…
C’ERA UNA VOLTA L’INFANZIA
Qualche tempo fa mi è capitato di rivedere, di nuovo, C’era una volta in America, il capolavoro di Sergio Leone.
Un film miliare, poggiato su sapienti e raffinati flasback, sull’esitare della macchina da presa che incornicia i volti. Un film costruito con maestria narrativa di rara bellezza. Malinconico, struggente, violento e allo stesso tempo poetico.
E, di nuovo, sono rimasta incantata dalla scena in cui la baby gag di Noodles incrocia Bugsy, con il quale si contende il territorio.
La fuga disperata del gruppo che si precipita dietro le auto parcheggiate, la caduta di Dominic, il più piccolo che, colpito dallo sparo mortale, si accascia a terra.
Mentre Noodles, corso in suo aiuto, lo tiene fra le braccia, prima di morire Dominic sussurra "sono inciampato".
Sono inciampato.
Semplicemente.
Avrebbe potuto dire mille cose (imprecare, raccomandarsi, esprimere la paura della morte) ma sceglie quell’infantile, laconico, drammaticamente tenero sono inciampato.
Una scena bellissima, sostenuta dalle suggestioni musicali di Ennio Morricone.
C’è un’altra scena, nel film, che racconta l’infanzia che permane dietro gli atteggiamenti adulti dei piccoli gangster.
E’ quella in cui uno di loro porta un dolce a Peggy, la prostituta adolescente. Con quel dolce si pagherà la sua "prima volta". Ma è obbligato ad attenderla fuori dalla porta. Gli occhi e le mani, furtivi, si posano timidamente sull’involucro di carta che custodisce la delizia di crema e panna. Lo spiano, lo aprono come se si trattasse di togliere il sigillo di un sacro tesoro, lo richiudono. Ma la panna è una tentazione troppo grande, più gustosa perfino delle morbide dolcezze di Peggy. E così si decide, e l’incontro d’amore viene barattato con un dolce nel quale si condensa il sapore della giovinezza che gode, golosa, della festa dei sensi più adatta alla sua acerba età.
Per qualche misteriosa associazione della memoria mi viene in mente il bellissimo "Ai giochi addio", scritto da Elsa Morante e musicato da Nino Rota, colonna sonora dell’incontro fra Romeo e Giulietta nel film di Zeffirelli (potete ascoltarlo qui >> )
Ai giochi addio per sempre, dì,
non sono più cose per te,
ai giochi addio.
Chissà perchè nemmeno tu
ancora spiegartelo non puoi.
Tu attendi un ospite
favoloso e incognito,
non sai che nome ha.
Forse il suo nome è dolcezza,
ma forse invece è amaro.
Forse il suo nome è splendore,
ma forse invece è oscuro.
Tu vuoi scoprire i suoi misteri
e al suo confronto tutto ti annoia.
I suoi regali fantastici attendi
come le notti dell’Epifania
Rimani sveglio pensando chissà
che mai ti porterà.
Sarà perchè il momento della crescita comporta sempre quella malinconia sommessa ma persistente.
Sarà, forse, perchè l’addio ai giochi è a volte promessa a volte incubo…
IL POPOLO DELLA PARTITA IVA
E succede che un post diventi meno "poetico" degli altri. Già, perchè la vita non è fatta solo di letteratura, scrittura, lirismo.
La vita è spigolosa. C’è un quotidiano fatto di battaglie. Come quelle che infiammano un libero mercato sempre meno…libero, e sempre più condizionato da una crescente barbarie.
In questa bella torta, la ciliegina sono le tasse – sempre più alte – e i cambiamenti che hanno reso il precariato più precario che mai.
C’è un popolo, oggi, che fa molta fatica. E’ quello della famosa partita iva, l’incubo di molti, la scrivente compresa. Ma è l’unico modo che consente al libero professionista di lavorare.
In più, se il professionista in questione gestisce un progetto imprenditoriale, si trova davanti a un esercito di persone che rifiutano di aprire la loro partita iva, e vorrebbero il nero. Bellissimo, fantastico. Tu paghi le tasse, loro no.
Certo, la cosa più triste è non poter fare la cosa giusta: pagare meno, pagare tutti.
E così, come sempre, ogni giorno davanti a te sfila il felice popolo degli evasori. Nell’ordine (sparso):
idraulici
psicologi
dentisti
pittori e imbianchini
medici vari
eccetera eccetera eccetera
Del resto, il cittadino che deve fare quando si trova davanti, nel caso di una visita medica come privato, la segretaria che ti domanda furbetta
"Vuole la ricevuta oppure no??".
"ma no, si figuri"
e scuci di meno.
E così si avanti, con un popolo diviso, come le acque del Mar Morto durante il passaggio di Mosè, fra chi paga e chi evade.
Il bello è che lo Stato rovista nei posti sbagliati. Chi lavora da libero professionista con altri professionisti e strutture fattura le entrate e le uscite, di solito. Chi invece lavora con i cittadini privati se la spassa evadendo allegramente le tasse ( e ti domandi perchè lo Stato non fruga lì, nelle categorie che tutti, dico tutti, sappiamo).
Insomma, la situazione non è bella per niente.
Ma, come diceva Nanni Moretti, "andiamo avanti così, facciamoci del male"…
MERCA(N)TI IN FIERA
Alla fiera di Sant’Agostino lo zucchero filato è scomparso.
Ogni anno, nel mio borgo natio, la fiera modella gli ultimi giorni della mia estate.
Ha un sapore antico.
Sarà perché ha la forma di una incantevole bambola, bianca, con la cuffietta e gli occhi veri che si aprono e si chiudono.
Avrò avuto sette anni, la mia manina stringeva quella del mio papà mentre misuravo i contorni di quella bambola meravigliosa, troppo bella per essere mia.
La conservo ancora.
Ogni anno, alla fiera arrivava qualche regalino.
E poi c’era lo zucchero filato, con il suo bastoncino su cui galleggiavano nuvole bianche, deliziosa promessa per i sensi che si arrampicavano tutti sulla punta del naso per inseguire quell’odore inconfondibile, dolcissimo eppure mai stomachevole.
Quest’anno lo zucchero filato è scomparso.
E’ scomparso insieme a molte altre magie della fiera.
Negli anni dell’adolescenza, lo sguardo migrava dalle bambole agli hippies che tornavano dai loro viaggi portando oggetti strani che mi seducevano: incensi, tamburi, vestiti colorati, pietre e collane particolari.
All’epoca il vintage e il neohippy non erano di moda, per fortuna.
L’odore dell’incenso, danza inebriante di ambra e patchouli, accompagnava le mie perlustrazioni.
Quei ragazzi avevano addosso il mistero di lunghi viaggi sui quali appoggiavo i miei sogni.
Oggi, purtroppo, anche loro sono scomparsi. Al loro posto, una muta di ragazzi e ragazze che comprano oggetti dagli importatori e poi li rivendono a tutte le fiere, da nord a sud.
La fiera ha perso il suo fascino, la ricchezza dei suoi dettagli particolari. Non a caso scompaiono le bancarelle più bizzarre, come quelle che radunano pezzi vecchi e curiosità, per far posto ai vestiti.
Vestiti, vestiti, vestiti. Tutti uguali.
Del resto, questo è il frutto dell’omologazione.
La Coca Cola e l’hamburger di Mac Donald sono sempre gli stessi, da Città del Messico a Hong Kong.
E così sono scomparsi anche gli oli essenziali (ne cercavo, invano, uno d’ambra) sostituiti da boccette prefabbricate che hanno tutte lo stesso odore di fondo, quello delle schifezze con cui “tagliano” le essenze. Fino a qualche anno fa si trovavano oli diversi, era ancora possibile intercettare il profumo perfetto.
Oggi, invece, la massificazione ha fatto scomparire dalla fiera anche questi venditori di oli particolari (c’èra un tizio indiano, qualche anno fa, con un baracchino nel quale mi persi, mi persi sul serio, ubriaca di profumi incredibili che investivano i sensi).
Insomma, la fiera è diventata un mercato qualunque. E ha perso la sua magìa.
Ieri pomeriggio, dalla finestra della casa di mia sorella che si affaccia sul corso, la strada principale della città, ho spiato un pagliaccetto che gonfiava palloncini di plastica combinandoli in varie forme e colori. Una rosa, un cane, una spada. Sorrideva, si inchinava, faceva le faccine buffe. Aveva un cappello coloratissimo e degli scarponi rotondi. In quel piccolo angolo che sembrava fuori dallo spazio e dal tempo, fatto di gesti antichi su cui soffiava lo spirito delle cose che non sono più, ho ritrovato parte dello smarrito stupore.
La gente continuava a correre infilata l’una sull’altra, piena di buste piene di vestiti, ma il pagliaccetto stava lì, imperterrito. Ogni tanto qualche bambino si fermava e anche l’adulto, allora, riscopriva un arcaico incanto.
Più tardi, quando la notte dava il cambio alla sera, prima di andare a dormire ho guardato di nuovo.
Lui si stava cambiando, aveva tolto gli abiti colorati e si era infilato un paio di pantaloni larghi, gli infradito e un gilet. Il cappello aveva liberato la massa di capelli rasta che venivano custoditi in uno chignon (conosco quel tizio, è un ragazzo che sta insieme ad altri artisti di strada, seduto su un gradino poco più avanti nella stessa via). Ha messo via le sue cose insieme alla manciata di spiccioli.
A un certo punto si è girato verso una bellissima bicicletta elettrica color rosso fuoco, ha tolto il lucchetto, ci è salito sopra e si è allontanato.
Ho sorriso.
In fondo, è questo il nostro tempo.
Pagina 56 di 83