IDENTITA’ E LEGGEREZZA
La parte più gravosa della nostra identità coincide con ciò che gli altri pensano o sanno di noi. Ci guardano e sappiamo che sanno, e con il loro silenzio ci costringono a essere ciò che si aspettano da noi, a comportarci in accordo con le nostre azioni precedenti o con sospetti che abbiamo destato senza esserne consapevoli. Ci guardano e non sappiamo chi vedano, cosa inventino o cosa decidano per noi. Per chi ti incontra sul treno di un paese straniero sei uno sconosciuto che non esiste al di fuori del presente.
(Antonio Munoz Molina, Sefarad)
Sono cresciuta in una cittadina di mare che contava poco più di cinquantamila anime. Ricordo i pomeriggi tersi della mia adolescenza, quando le nuovole dell’età adulta non ombravano ancora gli alberi del destino. Però ci conoscevamo tutti, e a ogni saluto corrispondeva un "ciao", come in un passo doppio di danza.
Tutti conoscevano tutti, ognuno avvistava l’altro nell’intercettazione continua che avveniva ogni giorno nelle strade del centro. Così, il "peso del nome" mi sottraeva aria e leggerezza. Invece all’estero, nei miei viaggi continui, scoprivo la meraviglia dell’anonimato, quella sensazione di fresca trasparenza che ti fa galleggiare sopra e oltre la folla. Ecco perché il viaggio è per molti liberatorio. Ci libera "dal male" del nome nostro.
Non essere più nessuno. Accade nelle grandi città, e tuttavia ogni quartiere ripropone la confidenziale convivenza del paese, dove ci si scambia saluti e ognuno sa chi sei, dove vai, cosa fai. Anzi, più che sapere, sospetta. E proietta. E giudica. E mormora.
Senza quasi saperlo, accendiamo dinamiche continue nelle nostre interazioni con chi ci conosce. La moltitudine delle nostre immagini chiede udienza, e la chiede a seconda dell’interlocutore di turno. In questo condominio affollato, noi dove siamo?
In realtà siamo oltre quel nome. Siamo là dove chi ci "ci conosce" non arriva più. Lì si estende la verità dell’anima nostra, il fiore del nostro giardino, in cui vivono le piante più belle. Quelle che nessuno ha mai nominato. Quelle il cui nome è rimasto segreto.
IL MATTATOIO DELLA COSCIENZA
Io non c’ero, quei giorni. Non ero lì. Non ho visto la scuola Diaz ridotta come un "mattatoio messicano", come l’ha definita Fournier questi giorni.
Non c’ero ma ho rivisto, di nuovo, le immagini di quei giorni di guerra.
Mi ha fatto male. Il cuore si è stretto, rimpicciolito fino a diventare un granello di sabbia.
Perché fa sempre male osservare come in fondo nulla cambi mai sul serio.
La violenza, il sangue, le botte. La polizia e gli studenti. Sembrava di essere indietro, nel tempo, in quel tempo non vissuto ma respirato nella pancia di mamma, quando lei distribuiva i volantini all’università finché un giorno non ha smesso per diventare una brava mamma borghese. E poi i libri, le immagini, l’atmosfera delle lotte di classe che accompagnavano i primi passi innocenti di bimba. Perché la televisione c’era. E in casa si parlava. In giro si intercettavano gli umori di piombo.
Da adulta scoprii i libri, i racconti, i documentari. E sperai che qualcosa sarebbe cambiato. Ma le cose non cambiano. Non cambiano mai.
Oggi come allora, abbiamo sempre bisogno di un "buono" e un "cattivo", di un "chiaro" e di uno "scuro". Di una polizia e di un gruppo di manifestanti. E di tanto odio che scorre in mezzo, come uno Stige fuligginoso.
Quei giorni di sole e sangue, nel 2001, c’erano di nuovo tanti ragazzi in guerra.
Vestiti in modo diverso, schierati, come in una partita di scacchi, dalla parte dei jeans e degli zainetti o da quella degli scudi e dei manganelli.
Mi ha fatto male vedere quelle sfilate di sangue rappreso, di occhi pesti, di anime tumefatte in quella bolgia infernale in cui all’improvviso la difesa è diventata aggressione, violenza, stupro collettivo. E’ inutile tentare la via della latitanza, dell’incertezza, della menzogna di corporazione: la polizia ha massacrato un sacco di ragazzi. I nervi sono saltati, si sono sciolti insieme all’asfalto squagliato dal sole. La polizia si è scatenata colpendo alla cieca stuoli di ragazzi e ragazze in cui si mescolava l’anima purulenta, piena di livore di alcuni a quella più ingenua, volenterosa di altri (sebbene io creda che la pace non sia un arcobaleno disegnato su una bandiera ma un non colore appoggiato sulla coscienza). Nessuna sentenza postuma potrà risarcire del tutto quei danni.
Alcuni danni, poi, sono irreparabili. Come il buco nel cuore del signor Giuliani, che ha lo stesso diametro della pallottola che ha ucciso suo figlio.
Altri danni, invece, sono quelli che si misurano lentamente, nella storia, attraverso l’assenza di una redenzione reale malgrado tutti i delitti e castighi di cui siamo colmi dall’antichità.
Non impareremo mai.
Del resto, mentre le immagini scorrono vedo anche, all’improvviso, gli occhi atterriti di tre giovani poliziotti con la maschera antigas sollevata. Uno di loro ha le labbra che tremano, gli occhi sollevati in alto quasi a cercare una fuga in quel cielo così remoto e sereno, il volto di un biancore lunare.
Impossibile non ripensare alle frasi di Pasolini su Valle Giulia, alla sua strenua, appassionata difesa di quei poliziotti figli di povera gente, spinti a fare la parte dei cattivi per svoltare il lunario mentre loro, i "borghesi" figli di papà, fanno le loro rivoluzioni che segnano le distanze dall’ombra dei genitori.
Io non so se quei poliziotti, a Genova, erano figli di povera gente. E non so se quei ragazzi distribuiti nei cortei lungo le strade erano ragazzini ribelli che giocavano a Robespierre. Forse era anche così.
Ma so che Pasolini, quella volta, ha comunque scavato una fossa nella superficie intatta dei luoghi comuni. Peccato, ci è finito lui, in una fossa, in un tempo precoce. Ma le sue parole sono rimaste e allora come oggi indicano comunque una via, quella del dubbio, quella di una complessità del reale che sfida le pantofole delle certezze che ci fanno da cuccia.
Questo non solleva il sangue dal mattatoio di Genova, nè attenua l’orribile peso di una polizia che si è comportata come un branco attraversato dal pulsare della follia, proprio come accade ai leoni quando cominciano a vedere il sangue della gazzella, e allora si riuniscono eccitandosi e scavalcandosi per strappare i brandelli di carne. Ma i ragazzi non erano gazzelle. Eppure la carne gliel’hanno strappata. A volte in modo così violento da lasciar scoperte le ossa. Alcuni erano davvero ragazzini, avevano le loro buone idee e però avevano avuto la pessima idea di manifestarle quel giorno.
Purtroppo accade anche, ogni volta, che un luogo pubblico diventi l’arena di proiezioni personali e private, in cui il nemico, l’altro, è per forza il cattivo, l’elemento sbagliato.
Così è stato anche a Genova.
E così, se l’evidenza dei fatti fa orrore (e di questa evidenza la polizia, mi auguro, dovrà rendere conto fino alla fine), è anche vero che pure fra i poliziotti ci saranno stati ragazzi con la stessa faccia brufolosa e spaurita, da passero spennato, di quel giovane inquadrato dal primo piano.
C’è una mattanza peggiore di quel mattatoio messicano di cui ha parlato (finalmente) Fournier. E’ quella che riguarda il non voler imparare. Quella che fa del passato solo strumento per le retoriche del ricordo. A che serve la memoria se non a salvare un presente? E invece ci sono, di nuovo, solo i sommersi. I salvati stanno altrove, nei nostri sogni. Il mondo continua così, con il suo schifo e la sua ignoranza.
Ma non riesco più a dividerlo sempre in buoni e cattivi. Non più. Non come prima. Perchè il dubbio, questo tarlo aspro che rosicchia le sicurezze, mi impone sempre, alla fine, un pensiero costante. Penoso da sostenere perché fa vacillare ogni bagliore di quell’assoluto che ovunque andiamo cercando (è rassicurante, l’assoluto).
E allora che paura che fa, giudicare qualcosa. Perché ciò che vedi è forse solo un pezzetto di una realtà complicata, difficile come il labirinto in cui senza il filo di Arianna tutti ci perderemmo. E se il filo fosse rappresentato dal dubbio?
Non so, non ho risposte. La realtà delle cose è così facile e allo stesso tempo così difficile da decifrare.
Forse aveva ragione Socrate. Forse bisogna sapere di non sapere per conoscere davvero qualcosa…
IL TEMPO DELLE PAROLE
In una video intervista a Simone Barillari (che uscirà con il prossimo numero di Silmarillon) si parla di letteratura e giornalismo.
Simone sostiene che la differenza fondamentale stia nel concetto di tempo: il giornalismo esiste sul tempo, la letteratura, invece, contro il tempo.
Ha ragione, Simone. Ha ispirato alcune riflessioni che avevo sempre inseguito in modo frastagliato, senza l’unificazione di un gesto del pensiero che pur brevemente donasse loro una forma in qualche modo compiuta.
Le parole del giornalismo frugano i fatti, la contingenza, usano la velocità mercuriale per raggiungere la resa delle storie in tempo reale. Fanno del tempo la loro guida e il mezzo stesso del loro esistere. Sia la cronaca che il commento (editoriali, fondi, ecc.) si basano infatti proprio sul concetto di tempo. Tempo storico, tempo quotidiano della cronaca, tempo dell’esistenza che si concentra in quell’orologio che scandisce i nostri giorni.
La velocità, elemento essenziale del giornalismo, deve essere per forza la stessa di quelle lancette inesorabili, di quel tempo meccanico, arbitrario su cui abbiamo fondato l’esistenza che si stende sui luoghi dell’alba e del tramonto, estremi del ponte sul quale passa la vita, quel tempo sempre in corsa, che comprime l’anima e al tempo stesso la dota di adrenalina.
Penso sempre ai surfisti che ammiravo in California, tanti anni fa. Erano lì, a cavalcare le onde giganti dell’oceano Pacifico. Senza riposo, tutto il giorno, incalzati dal tramonto in cui si concevano invece, tutti insieme, il riposo dolce sulla tavola finalmente immobile (stavano tutti lì, come macchie nere sull’acqua disegnate dalla luce fiamminga di quella sfera rotonda, misteriosa, su cui annegava il giorno).
Il giornalista è un po’ come un surfista. Ed è un po’ come i ladri e i cacciatori. Il giornalista è infatti sia ladro che cacciatore. Ladro perché ruba a chiunque, con i suoi occhi sgranati sul mondo, le orecchie abili a cogliere il più sommesso ronzio. Cacciatore perché esplora ogni riserva, pronto a raccogliere storie, notizie.
Le sue parole sono nel tempo. Raccontano il tempo. Tempo degli uomini, dei fatti, delle piccole storie di cui è tessuta la grande Storia. Lavora, il giornalista, sul rettilineo del tempo, sempre cosciente di un "prima" e di un "dopo", di un passato e di un futuro. E di un presente nel quale si snodano, ogni giorno, gli eventi. Il tempo lo governa, lo orienta. Lo stimola e lo stressa, ne è cuore e motore.
La letteratura invece rifiuta il tempo. La letteratura aspira all’eternità. Se la il giornale si esaurisce quando la luna spinge via il sole, la letteratura non si interessa invece dei moti alterni che segnano il giorno e la notte. La sua altitudine siderale vuole abbattere il Tempo per congiungersi all’eternità. Il suo è il Tempo circolare, quello delle assenze e degli eterni ritorni, quello in cui il raziocinio cede il posto alla danza della Musa, che sussurra i suoi segreti notturni. Ma è la notte dell’anima, la notte degli dèi, la notte in cui è possibile veder sorgere comunque il Sole.
La parola dello scrittore pascola sui prati dell’anima, tenta disperatamente (e a volte ci riesce) di innalzarsi sulle altezze siderali di un’amosfera iperurania che cerca di evadere il tempo dell’uomo. E’ lotta contro la prigione fisica, è grimaldello per aprire le porte del tempo che scorre entrando nel Tempo immobile, per sempre cristallizzato dalla stessa parola che ne fissa la qualità.
Lo scrittore cerca gli spazi solitari che lo allontanano dal brusio del mondo, con quelle ciarle e quei moti continui che potrebbero sconfiggere l’ambita meta, quella della scrittura trans-temporale che unisce l’uomo agli spazi infiniti sui qwuali converge il suo desiderio di immortalità.
Per questo i giornali si buttano e i libri vivono per sempre.
E tuttavia, tuttavia le parole del tempo, quelle del giornalismo, sono altrettantro rare e preziose. Diffiderei, anzi, di chi tende a snobbarle ripiegando solo sui libri. Perché finché siamo qui, sulla terra, abbiamo anche bisogno del tempo. E quei surfisti, scultorei sfidanti delle onde che non a caso divengono in continuazione, come la nostra stessa esistenza, sono la perfetta metafora dell’uomo che impara a cavalcare l’esistenza (che come un’onda ci sbatte qua e là) e che si nutre anche delle parole che lo raccontano. Ogni giorno.
Imparando a lavorare sul limite si impara a superarlo. E non a caso qualche scrittore si è trovato con le ali bruciate, impavido Icaro che ha osato le eterne parole prima che fosse pronto a tuffarsi fuori dal tempo.
Insomma, la qualità delle parole, nel tempo e oltre il tempo, è necessaria nella sua doppia funzione.
Io le amo entrambe. Le parole del giornalismo aiutano a comprendere la vita nella materia di cui è tessuto il quotidiano, fatto anche della sua fuligginosa ambivalenza, con le cronache terribili che ci ricordano quanto siamo lontani da quel paradiso perduto; le parole della lettratura consolano, invece, i giorni fuggitivi portando il respiro sopra ogni il limitare di quella materia, sul bilico dell’eternità.
Amo i diversi sentieri del tempo delle parole nel cui giardino, come nel racconto di Borges, le biforcazioni diventano intersezione, coincidenza, inversione.
STREGHE DI IERI E DI OGGI
Se una volta, in passato, la donna era braccata dai suoi persecutori, nei secoli il femminile si è ripreso ciò che gli era stato tolto.
Ho sempre pensato che l’uomo, in fondo, ha avuto paura del potere della donna. La donna possiede una caverna cosmica che genera la Vita. Ogni mese il suo sangue racconta di questo potere, e con lui, ciclicamente, si rinnovano i misteri della creazione.
Se le antiche società erano spesso ginocratiche, in seguito l’uomo, creando la società patriarcale, ha in qualche modo temuto il potere lunare, magico, con i suoi enigmi.
Così la donna ha occupato altri spazi, altri luoghi. Quelli a lei consentiti.
E’ rimasta sempre un po’ strega. Ma la strega non è quella temuta dagli inquisitori. La strega vive al fianco di ogni donna che conserva coscienza del suo mistero.
Non si sono solo le streghe cattive che ci perseguitano nell’infanzia, quelle che ci fanno paura con le loro mele avvelenate.
Ci sono anche le streghe buone.
Strega è la donna vicina alla notte, alla magia della Luna e di ogni ciclico mutamento. E’ specchio e rimando, gioco e rimbalzo.
Oggi forse la strega, questa strega, fa ancora più paura. La società delle donne lavoratrici in competizione con l’uomo, in perenne sfida con lui, teme la strega che le vive dentro. Ne teme le abitudini irrazionali, la predilezione per il ventre della natura, per le stelle che accendono il cielo di notte.
Il contatto con le regioni meno solari della mente, quelle in cui la donna si muove con la sicurezza di chi conosce bene i territori nascosti, rischia di diventare più difficile.
C’è chi stato felice del tramonto della strega. E invece, forse, non è proprio così.
Quando Merlino, nel bellissimo film Excalibur, parla della fine del tempo magico, di quel tempo dell’uomo a contatto con gli elementi della natura, avvisa anche della perdita preziosa di un certo tipo di esperienza.
Ma le streghe e i maghi, quelli veri, non i giullari cercati da tutti per sanare le ansie sentimentali, continuano a sopravvivere nell’inconscio di tutti noi.
Il problema è solo scovarli, ascoltarli.
La strega sapiente è stata sostituita, oggi, dalla pletora di nipotine di Vanna Marchi, purtroppo.
Se la cerchiamo ancora, è perché intimamente sappiamo che "lei sa". Ma forse sa qualcosa diverso da ciò che ci aspettiamo con i nostri bisogni di risposte e certezze.
Le streghe moderne sono purtroppo quelle televisive dei filmetti americani, quelle dei negozietti di ciarpame para-esoterico, quelle delle piramidi in miniatura e delle formulette magiche del "wicca per tutti" (basta pagare bene).
La strega vera continua a vivere sotto il manto stellato, nei boschi e nelle grotte fuori mano.
Un giorno ne ho incontrata una. Vive a Firenze, è un’artista che, guarda caso, costruisce bellissime fate che vende ai mercatini. Ha una gallina, Nerina (giuro) che vive con lei. Ha occhi verdi profondi, capelli nerissimi e lo sguardo un po’ folle.
Ogni anno la incrocio nella fiera locale della mia cittadina natale. Un saluto, uno sguardo incantato alle sue creazioni meravigliose.
Un giorno, qualche anno fa, le regalai un mio libro in cambio di uno sconto su una fata meravigliosa che aveva attirato la mia attenzione, e che volevo regalarmi in quella bellissima serata estiva. Poi mi dimenticai la faccenda. Nel libro c’era anche il mio numero di telefono. Tempo fa, in un momento per me molto difficile, in cui mi interrogavo sul senso del mio destino, lei mi chiamò sul cellulare perché aveva casualmente (nulla è casuale) trovato il biglietto con il mio telefono all’interno di quel libro, finito in uno scatolone. Non sapeva perché, ma aveva voluto telefonare. E mi diede, senza che io avessi chiesto alcunché, proprio la risposta che stavo cercando.
Magia della vita? Chissà.
LA MALA EDUCAZIONE IN RETE
Diciamolo subito: in Rete si incrocia di tutto. È un po’ come muoversi in un mercato cinese, con il pigia-pigia delle persone, i sorrisi di alcuni, gli sputi di altri, il caos del caso (caos e caso, toh, non ci avevo mai riflettuto).
Però cambiamo metafora, i cinesi mi fanno pensare a qui cagnolini sbattuti nelle gabbiette. Da sentirsi male (a tal proposito, la mia amica giapponese mi recita spesso il loro detto: "Il tavolo è l’unica cosa a quattro zampe che i cinesi non mangiano).
Pensiamo magari a New York. O, se vogliamo restare in ambiente esotico, a Calcutta e Bombay (sì, sì, proprio loro, leggetevi Shantaram, che racconta della incredibile marea umana capace di stiparsi e sorridersi).
Insomma, immaginiamo un luogo pieno di gente. Sì, a volte basta la linea A della metro di Roma, non c’è bisogno di volare così lontano…
Insomma, dicevo, viaggiare in Rete è una vera e propria navigazione. Ognuno con i suoi strumenti, la sua bussola, la sua mappa.
All’interno di questo oceano, ci sono tante casette sull’acqua, che si chiamano blog.
Il proprietario apre le porte, invita gli ospiti, li fa sedere sul divanetto. Alcuni entrano nella conversazione, altri se ne vanno.
Bene. Ma ci sono un paio di regolette da rispettare.
Il blog NON SI USA per scopi promozionali. Farlo è da cretini.
Promozione del neofita:
Succede così: chi apre un blog va a caccia (dico davvero, a caccia) dei suoi futuri lettori, comincia a smanettare (o a spippolare, come dice Lorenzo in redazione) in giro e che fa? (il cretino, intendo).
Comincia a farsi pubblicità usando frasi tipo: "Ciao, sono passato sul tuo blog. Passi da me?".
Ma neanche Mara Venier con il suo "Ciao, da dove chiami?" suona così posticcia.
Sì, passo da te. In un’altra vita.
Capita, nei blog, di imbattersi in questa fauna batterica che infesta le sane conversazioni.
Passa da me, passo da te, passo non posso, sono ripassato in padella…
La Rete può essere usata in modo intelligente, e se uno vuol farsi notare, può dire…cose intelligenti, appunto.
Promozione sfacciata:
Caso numero due. Frasi del tipo: Passate tutti sul mio blog.
Un po’ alla Internazionale bloggerista. Blogger di tutto il mondo, unitevi e marciate da me.
Anche se l’invito non usasse l’imperativo categorico, sarebbe comunque fuori luogo.
In Rete passa chi passa. Si naviga così, ci si riunisce e ci si lascia un po’ per caso. per affinità, per combinazioni…
Mica bisogna fare gli Apostoli e andare a pescare tutte le anime che ci stanno in giro. Le cose in Rete accadono da sé, secondo forme di aggregazione spontanea. Ed è bello così.
Qualcuno addirittura scrive privatamente ai blogger (be’, almeno un po’ di pudore) invitandoli direttamente a vedere il suo nuovo post. Uno per uno, li invita. Mah…
Promozione professionale
La peggiore. Il contrario dell’anima della Rete. I commenti in questo caso vengono usati per promuovere l’afflusso a ricevimenti, mostre, conferenze, ecc.
Lunedì alle 18.00 lettura del mio libro presso il circolo De Amicis
Venghino signori venghino.
Però, questo il bello, la Rete a volte è davvero…magica. Cioè si auto-regola e, guarda caso, questi episodi non hanno successo, non ottengono il riscontro auspicato.
E per fortuna.
Imparare l’educazione è la prima cosa quando si entra a casa di qualcun altro.
Dovremmo ricordarcelo sempre.
UN CUORE IN INVERNO
Un cuore in inverno è uno dei più bei film di Claude Sautet.
Un film aspro, dolente, ingombro di malinconia e privazione.
Racconta dell’incapacità di amare di un uomo che preferisce la fuga all’ammissione dell’amore per la compagna del suo amico (sebbene in realtà sia privo di qualunque declinazione dei sentimenti) che ne minaccia la stabilità costruita in modo meccanico, con la perizia di uno stratega impegnato in un gioco di scacchi.
Mossa dopo mossa, pedina dopo pedina, si difende da ogni incrinatura emotiva costruendo una prigione di ghiaccio intorno al suo cuore.
Non c’è nessuno spazio per i giardini della poesia, nella sua sterile vita.
A chi gli domanda perché abbia smesso di suonare il violino accontentandosi di aggiustare gli strumenti degli altri risponde secco: "perché non mi piacevano i suoni che producevo".
Negli anni ho spesso ripensato a quella scena, a quelle parole. In fondo, la vita è tutta una questione di suoni.
Interiore, esterno, il suono ci accompagna sempre.
Rifiutare di ascoltarne l’armonia, la vibrazione sottile su cui si distende l’anima, è un po’ come negare l’amore.
Aggiustare i violini rotti è mestiere, tecnica, misura razionale.
Suonarli richiede invece anche l’abbandono, la partecipazione emotiva, la possibilità di sbagliare.
Eppure non è certo una stecca a fermarci. Si rischia. Quando si suona. Quando si ama.
Il cuore in inverno del protagonista è prigioniero di un sistema razionale, di un gelo dell’anima in cui la speranza chiude le ali.
Ce ne sono tanti, di cuori in inverno. Oggi più che mai, forse.
Persone solitarie che agli uomini, così mutevoli, capricciosi, passibili di delusioni, preferiscono la mortifera immobilità degli oggetti, fatta di materia pesante che scongiura qualunque scricchiolìo della coscienza.
Spesso sono persone molto intelligenti e colte, come il protagonista del film. Ma a che serve tanta intelligenza se non è accompagnata dalla primavera del cuore?
Fa freddo, dentro. Ogni cuore in inverno lo sa. Amare, però, comporterebbe dei rischi, proprio come accade a quei boccioli precoci che, sfrontati e ignari come solo i fanciulli sanno essere, spuntano all’alba della primavera per poi morire durante una gelata improvvisa.
Sì, l’inverno iberna, congela, mantiene. Ma dovremmo avere la forza di gettare via la conservazione delle nostre persunte certezze per tuffarci nel mare caldo dei sentimenti, con le onde scaldate dal sole che vanno e vengono, vanno e vengono, e non tornano mai indietro, come cantavano i Genesis in una canzone, tanto tempo fa.
A proposito di canzoni, ecco che affiora alla mente un pezzo dei Pink Floyd che potrebbe accompagnare in modo perfetto la vita del cuore in inverno. Si tratta di Comfortably numb, canzone struggente in cui il diventare "piacevolmente insensibile" appare come l’unica soluzione alla sofferenza. E’ di una bellezza triste ma dolce, dolce perché quella nave lontana che appare all’orizzonte, nel mare in cui il protagonista diviene insieme alle onde, evoca il guizzo che comunque persiste, malgrado gli inverni.
Piacevolmente insensibile, comfortably numb. Perché tutti siamo feriti. Ognuno ha i suoi doloril, i suoi pesi, le sue sconfitte.
Piacevolmente insensibili.
E invece no. Invece bisogna avere il coraggio di essere "dolorosamente sensibili" e uscire dal letargo dei sentimenti.
La vita chiede coraggio, quello stesso coraggio che ci fa aprire le porte del nostro segreto a un estraneo, con il quale entriamo progressivamente in contatto, come due amanti che si esplorano nell’incertezza dell’alba per poi trovarsi allacciati, confidenti e sicuri al tramonto. Il giorno seguente potrebbe non mantenere la stessa promessa. E il cuore in inverno è atterrito da questa ipotesi, da questa esposizione tremante alla propria vulnerabilità. Meglio difendersi, fuggire, costruite tanti muri di Berlino per sfuggire alla minaccia dei sentimenti.
Eppure qualcuno, tempo fa, disse che l’amore, qualunque forma di amore, è l’unica in grado di traghettarci altrove. In quello spazio siderale, infinito, nel quale forse un giorno cesseranno anche le nostre paure.
Nel frattempo la vita pulsa, ci passa avanti mentre siamo impegnati con i nsotri terrori, le nostre proiezioni, le nostre paure.
E dopo, dopo sarà tardi. Tardi per scommettere. Per amare. Per sfidarsi.
Ho sempre temuto, nella vita, una sola cosa: rimpiangere le cose che non ho fatto.
Perché ogni errore è comunque esperienza, tragitto, mentre la neve sul cuore impedisce ogni battito.
E in questo modo si muore, lentamente, ogni giorno.
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