Io non c’ero, quei giorni. Non ero lì. Non ho visto la scuola Diaz ridotta come un "mattatoio messicano", come l’ha definita Fournier questi giorni.
Non c’ero ma ho rivisto, di nuovo, le immagini di quei giorni di guerra.
Mi ha fatto male. Il cuore si è stretto, rimpicciolito fino a diventare un granello di sabbia.
Perché fa sempre male osservare come in fondo nulla cambi mai sul serio.
La violenza, il sangue, le botte. La polizia e gli studenti. Sembrava di essere indietro, nel tempo, in quel tempo non vissuto ma respirato nella pancia di mamma, quando lei distribuiva i volantini all’università finché un giorno non ha smesso per diventare una brava mamma borghese. E poi i libri, le immagini, l’atmosfera delle lotte di classe che accompagnavano i primi passi innocenti di bimba. Perché la televisione c’era. E in casa si parlava. In giro si intercettavano gli umori di piombo.
Da adulta scoprii i libri, i racconti, i documentari. E sperai che qualcosa sarebbe cambiato. Ma le cose non cambiano. Non cambiano mai.
Oggi come allora, abbiamo sempre bisogno di un "buono" e un "cattivo", di un "chiaro" e di uno "scuro". Di una polizia e di un gruppo di manifestanti. E di tanto odio che scorre in mezzo, come uno Stige fuligginoso.
Quei giorni di sole e sangue, nel 2001, c’erano di nuovo tanti ragazzi in guerra.
Vestiti in modo diverso, schierati, come in una partita di scacchi, dalla parte dei jeans e degli zainetti o da quella degli scudi e dei manganelli.
Mi ha fatto male vedere quelle sfilate di sangue rappreso, di occhi pesti, di anime tumefatte in quella bolgia infernale in cui all’improvviso la difesa è diventata aggressione, violenza, stupro collettivo. E’ inutile tentare la via della latitanza, dell’incertezza, della menzogna di corporazione: la polizia ha massacrato un sacco di ragazzi. I nervi sono saltati, si sono sciolti insieme all’asfalto squagliato dal sole. La polizia si è scatenata colpendo alla cieca stuoli di ragazzi e ragazze in cui si mescolava l’anima purulenta, piena di livore di alcuni a quella più ingenua, volenterosa di altri (sebbene io creda che la pace non sia un arcobaleno disegnato su una bandiera ma un non colore appoggiato sulla coscienza). Nessuna sentenza postuma potrà risarcire del tutto quei danni.
Alcuni danni, poi, sono irreparabili. Come il buco nel cuore del signor Giuliani, che ha lo stesso diametro della pallottola che ha ucciso suo figlio.
Altri danni, invece, sono quelli che si misurano lentamente, nella storia, attraverso l’assenza di una redenzione reale malgrado tutti i delitti e castighi di cui siamo colmi dall’antichità.
Non impareremo mai.
Del resto, mentre le immagini scorrono vedo anche, all’improvviso, gli occhi atterriti di tre giovani poliziotti con la maschera antigas sollevata. Uno di loro ha le labbra che tremano, gli occhi sollevati in alto quasi a cercare una fuga in quel cielo così remoto e sereno, il volto di un biancore lunare.
Impossibile non ripensare alle frasi di Pasolini su Valle Giulia, alla sua strenua, appassionata difesa di quei poliziotti figli di povera gente, spinti a fare la parte dei cattivi per svoltare il lunario mentre loro, i "borghesi" figli di papà, fanno le loro rivoluzioni che segnano le distanze dall’ombra dei genitori.
Io non so se quei poliziotti, a Genova, erano figli di povera gente. E non so se quei ragazzi distribuiti nei cortei lungo le strade erano ragazzini ribelli che giocavano a Robespierre. Forse era anche così.
Ma so che Pasolini, quella volta, ha comunque scavato una fossa nella superficie intatta dei luoghi comuni. Peccato, ci è finito lui, in una fossa, in un tempo precoce. Ma le sue parole sono rimaste e allora come oggi indicano comunque una via, quella del dubbio, quella di una complessità del reale che sfida le pantofole delle certezze che ci fanno da cuccia.
Questo non solleva il sangue dal mattatoio di Genova, nè attenua l’orribile peso di una polizia che si è comportata come un branco attraversato dal pulsare della follia, proprio come accade ai leoni quando cominciano a vedere il sangue della gazzella, e allora si riuniscono eccitandosi e scavalcandosi per strappare i brandelli di carne. Ma i ragazzi non erano gazzelle. Eppure la carne gliel’hanno strappata. A volte in modo così violento da lasciar scoperte le ossa. Alcuni erano davvero ragazzini, avevano le loro buone idee e però avevano avuto la pessima idea di manifestarle quel giorno.
Purtroppo accade anche, ogni volta, che un luogo pubblico diventi l’arena di proiezioni personali e private, in cui il nemico, l’altro, è per forza il cattivo, l’elemento sbagliato.
Così è stato anche a Genova.
E così, se l’evidenza dei fatti fa orrore (e di questa evidenza la polizia, mi auguro, dovrà rendere conto fino alla fine), è anche vero che pure fra i poliziotti ci saranno stati ragazzi con la stessa faccia brufolosa e spaurita, da passero spennato, di quel giovane inquadrato dal primo piano.
C’è una mattanza peggiore di quel mattatoio messicano di cui ha parlato (finalmente) Fournier. E’ quella che riguarda il non voler imparare. Quella che fa del passato solo strumento per le retoriche del ricordo. A che serve la memoria se non a salvare un presente? E invece ci sono, di nuovo, solo i sommersi. I salvati stanno altrove, nei nostri sogni. Il mondo continua così, con il suo schifo e la sua ignoranza.
Ma non riesco più a dividerlo sempre in buoni e cattivi. Non più. Non come prima. Perchè il dubbio, questo tarlo aspro che rosicchia le sicurezze, mi impone sempre, alla fine, un pensiero costante. Penoso da sostenere perché fa vacillare ogni bagliore di quell’assoluto che ovunque andiamo cercando (è rassicurante, l’assoluto).
E allora che paura che fa, giudicare qualcosa. Perché ciò che vedi è forse solo un pezzetto di una realtà complicata, difficile come il labirinto in cui senza il filo di Arianna tutti ci perderemmo. E se il filo fosse rappresentato dal dubbio?
Non so, non ho risposte. La realtà delle cose è così facile e allo stesso tempo così difficile da decifrare.
Forse aveva ragione Socrate. Forse bisogna sapere di non sapere per conoscere davvero qualcosa…