BLOOMSBURY ADDIO
La vita è un nastro rosa lanciato su un abisso
(Virginia Woolf, Diari)
Nel giorno delle manifestazioni per la famiglia, nel giorno degli orgogli laici, preferisco restarmene a casa a rileggere qualche pagina incendiata da un coraggio vero.
Sì. Perchè è facile manifestare e contromanifestare sventolando come santini al vento i propri colori di appartenenza,
Più difficile restare a casa a meditare su quanto accade: al di là delle smanie presenzialiste chi ha ragione davvero? Tutti. Nessuno.
In fondo, da ogni idea bisogna risalire alla realtà che si fa voce nel quotidiano, in ogni singolo evento sganciato dal pre-giudizio.
E tuttavia oggi la massa mi suggerisce un’assenza.
Dove sono, oggi, i fermenti vitali di Bloomsbury? Nel nostro tempo presente tutti manifestano come pecore dietro un pastore. Poco importa che questo pastore vesta la tunica bianca del padre o si annodi la cravatta politica.
L’importante è "esserci".
E il pensiero? Quello individuale, quello che si fa poi coro in una sperimentazione reale, al di là dei confini usuali?
Già, il pensiero. Quello che dissente. Che crea. Che osa.
Come sono tisici i nostri intellettuali di oggi rispetto ai bagliori fiamminghi del gruppo di Bloomsbury.
Tutti lì, i nostri, ognuno a tifare per la sua brava corrente ideologica, seduto sul divanetto di Mentana oppure di Vespa, la bocca piena di ciance masticate in continuazione (come fanno le pecore, appunto), la testa invasa da pensieri sommari.
Oggi non manca nessuno. Ci sono la gente comune, le autorità, i gruppi, i distintivi.
E mentre ripenso a Virginia Woolf, al suo gruppo che di ogni cosa faceva domanda che richiede scavo, rileggo questa frase bellissima e allo stesso tempo spigolosa come uno schiaffo.
La vita è un nastro rosa teso su un abisso.
Eccolo, il benvenuto silenzio mobile, in cui la mente guizza sulla sua transitorietà in cerca di immutabile sponda, e fa da contraltare a questa giornata paralizzata da troppe parole.
Siamo così fragili, tutti. Siamo nastri gettati su questa esistenza, che procedono guidati dai movimenti dell’aria, basculando pensieri, agitando desideri e proiezioni destinate comunque a sfracellarsi su un suolo che non si raggiunge mai ma che alita, minaccioso, soffiando sul vento delle nostre paure.
Miserabili, piccoli uomini, stiamo appesi alle nostre idee facendo della massa la resistenza da opporre a questo abisso.
Ma tanti piccoli fiocchi rosa scivolano comunque verso il loro destino. Che sia individuale o collettivo, il fiocco trema e oscilla davanti alla finitezza della sua condizione.
Uniti nei cortei, i piccoli fiocchi si illudono di essere "grandi", facendosi forza l’un l’altro.
Bene. Così sia. Ma quanta forza, invece, nel coraggio di accettare l’abisso di questa esistenza. Che contiene tutti quanti. Ogni corteo, ogni papa, ogni laico. Ogni idea e ogni giudizio.
Se penso al nastro rosa di Virginia, tutto il resto mi sembra così transitorio e ridicolo. E allo stesso tempo importante in quanto guado da attraversare.
E mentre avanza verso l’abisso, l’uomo può solo cercare sé stesso.
La forza di quelli di Bloomsbury stava in una ricerca di superamento del fiocco che però sbarrava l’accesso alle strutture mentali pantofolaie, cercando inconsapevolemente nel fuoco sacro della creazione un altro fuoco che solo l’anima, libera, può toccare senza bruciarsi.
E anche loro si sgretolarono sulla pelle di passero delle loro esistenze. Toccò a tutti. perlomeno, però, cercarono una voce fuori da coro.
Oggi, a Roma, ci sono invece troppi cori. E nessun solista.
QUEL CHE RESTA DEL GIORN-ALE
Il mondo sta cambiando molto in fretta, Chi è grande non sconfiggerà più chi è piccolo, ma chi è veloce batterà quelli che sono lenti
Rupert Murdoch
Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il mondo sta cambiando, e il giornalismo tradizionale è in crisi. Non basta fare i gadget (l’edicola è ormai un bazar dove trovi di tutto, dallo scialle al rossetto, dal libro al dvd): i quotidiani sono attaccati al respiratore e se si stacca quel respiratore (i gadget, appunto) si collassa imemdiatamente. Decresce la pubblicità sulla carta stampata a favore della migrazione su internet, diminuisce il numero dei redattori (tagli drastici in Europa e in America, negli ultimi anni), aumenta la free press.
Vittorio Sabadin ha scritto un libro prezioso, L’ultima copia del New York Times, in cui racconta i cambiamenti drastici che la stampa sta attraversando. E racconta le crisi, le resistenze.
Ma non si può fermare il cambiamento. Dunque è meglio adeguarsi.
Ho vissuto per quindici anni in mezzo alle riviste cartacee. Le ho costruite, insieme ad altri, numero su numero, timone su timone, pezzo su pezzo. Fino a pochissimi anni fa non riuscivo neanche a concepire l’idea che questo mezzo non fosse l’unica soluzione possibile per il giornalismo scritto. E invece oggi dirigo una rivista online, mi diverto a progettare inserti multimediali e soprattutto cerco di integrare gli aspetti tradizionali con quelli più moderni, attuali.
Ho dovuto vincere le mie resistenze. Ma l’ho fatto. E ho capito che la carta stampata non sarà il futuro del giornalismo. Non sarà l’unico futuro, almeno.
Certo, è bellissimo trovare conforto nella solidità della carta, nel suo odore, in quelle distese di parole che si possono toccare, sniffare, accartocciare. Eppure è anche necessario capire che il web potrà affiancargli un giornalismo efficace, magari diverso, sì, ma efficace.
Specie se i quotidiani tradizionali continueranno a chiudere gli occhi, a voler proseguire una linea di fatto già sconfitta.
Aprire il Corriere della Sera in metropolitana è come stendere un lenzuolo matrimoniale sul letto di una formica.
Gli articoli culturali di Repubblica a volte fanno svenire anche il più erudito dei lettori.
E poi la lontananza dalla gente. Tanta. Troppa. Mentre il giornalismo dovrebbe per sua natura essere vicino alle storie fatte di carne, di sangue, di sudore.
Invece continua a ossequiare i padroni, cioè i gruppi politici ed economici che influenzano le linee editoriali con le loro brave pressioni.
Ed ecco che nasce il citizen journalism, ecco che i blogger americani battono i giornalisti nel dare la notizia in tempo reale o nello scovare dettagli sconosciuti (spesso scomodi).
Ci eravamo innamorati, tutti, di tutti gli uomini del Presidente. Ma dobbiamo anche vedere cosa succede davvero, oggi. Dobbiamo vedere la debolezza delle redazioni, i bavagli e le parole schierate.
Forse internet non è il nemico ma è invece carburante per un risveglio, una reazione.
Di certo, così non si va avanti. Un po’ di pepe nel deretano certamente non guasta.
Non bastano, però, le letteronze di Maria Latella che risponde ai lettori nella sua mezza paginetta, quando poi le cronache locali romane sono infestate da settagli su Provincie, regioni, imprenditorie e costruzioni. E la gente? Che succede davvero in città, oltre alle solite, drammatiche notizie di cronaca nera?
Come respira la città? (O come soffoca, dati i livelli di inquinamento). Che si dice? Come si conciliano tutti i colori del mondo in una metropoli che continua a essere così provinciale?
Quanti articoli si potrebbero fare. Ma non vanno bene. Non fanno gli interessi dei politici e degli imprenditori. Quelli della gente, oggi, sono minoritari.
Il giornale è un luogo di potere i cui spazi sono contesi come jene con una carcassa.
Dio mio, e se la carcassa fosse proprio quella del giornalismo?
O meglio, di un certo tipo di giornalismo?
Perché comunque la voglia di raccontare, l’urgenza della notizia, la voglia di dire e di scrivere cosa succede non moriranno. Ma cambieranno forma, probabilmente. Questo sì. E per fortuna
IL DONO DELLE LACRIME
Mi ritrovai così, nella stanza, a inseguire la corsa folle di quel ricordo che si perdeva nelle giornate imprecise della mia infanzia. Stavo lì, rannicchiata sulla bambina che un tempo ero stata. Ma le mie mani non sfioravano le sue piccole mani. Rischiavo solo di schiacciarla sotto il mio peso mentre la stanza diventava una traiettoria che terminava sulla soglia di un dolore mai dimenticato. Ma qual era quel dolore? Non lo ricordavo eppure ne sentivo l’odore. Dolce. Un ricordo di talco e di avena, di pelle di bimbo profumata dagli angeli. «Che strano – pensai – come può una sofferenza trattenere un sapore dolce?». Eppure era proprio così. E all’improvviso capii. Capii che le sofferenze di un bimbo conservano sempre l’odore del cielo dal quale proviene. E’ questa la profanazione più grande, questa sofferenza che entrando nel tempio immacolato dell’infanzia la stupra, la rivolta, ne fa incubo e nebbia ma non riesce ad allontanare il ricordo del cielo. Si vive così sull’orlo di due mondi, cuciti intorno a parole che ancora non sappiamo dire, con la testolina all’insù a cercare quelle galassie in cui galleggiavamo. Anch’io avevo vissuto la mia infanzia così. I giorni prematuri di quel dolore non avevano neanche un anno di vita. Mia madre, il porto di ogni sicurezza, la radice delle necessità, si curvava posando le mani su quel ventre improvvisamente rigonfio di nuova vita mentre io mi disidratavo, assetata di lei, di quella fonte che all’improvviso versava l’acqua della preziosa attenzione sul nuovo seme depositato nel suo vaso di carne e di terra umida.
Sentii di nuovo quel dolore acuto, seppellito da anni di sgargianti impalcature mentali, di corazze intellettive a proteggere quell’antico dolore.
E invece era lì, intatto. Fragile come un uccellino caduto dal nido. In tutti quegli anni non ero mai riuscita a scaldarlo fra le mie mani, a rimetterlo nel nido dal quale era stato gettato. Madre albero di vita e di morte. I giorni dell’assenza erano i giorni dell’attesa di un nuovo figlio imprevisto, erano i giorni delle angosce per un marito latitante che si consumava fra il bar e le donne. E io stavo lì, piccolo uccellino tremante, caduta per sempre da nido.
Quel dolore antico tornava squarciando l’illusione del tempo, gettandomi trent’anni indietro. La tenda si era ormai sollevata, le lacrime premevano sulla superficie. Mi sorprese la diversità di quel pianto che sembrava arrivare dal primo giorno del tempo, del mio tempo, per radicarsi nelle viscere, nel cuore, nella testa. Nella pelle, sotto la pelle. Oltre la pelle. Piangevo tutto il mio dolore di bambina muta finalmente libera di gridare. Piangevo così forte che temevo mi si spezzassero le ossa, frantumando l’unico appiglio stabile con la materia nel bel mezzo di quella tempesta senza tempo, fatta di una storia emotiva, di una storia che fu prima ancora che le parole fossero.
(Aurora Semente – Dove tace il tempo)
Ci sono diversi tipi di pianto. C’è il pianto isterico, nevrotico, fatto di tumulti e scossoni. C’è il pianto stizzito, legato a un problema che si fa nodo da sciogliere, da lavare via con le lacrime. C’è il pianto in punta di ciglia, che accompagna emozioni che non abbiamo il coraggio di trascinare fuori. E poi c’è il pianto terribile che tutti dobbiamo sperimentare, quello del lutto. E c’è il pianto amoroso dell’amante tradito, pianto febbricitante, arso, privo di attesa e di speranza.
Ci sono tante lacrime, e tanti pianti. Ma c’è un pianto particolare, antico, che irrompe improvviso e spezza i confini, lapidando ogni resistenza possibile. In quel pianto – che accade raramente e che per questo diventa momento prezioso, reliquia di un contatto particolare da conservare con amore nella memoria – il nostro Sè preme sui confini dell’Io appiccando l’incendio delle lacrime. Incendio doloso. Incendio doloroso. Incendio necessario.
Queste lacrime sono più copiose delle altre perchè hanno bussato a lungo sulla prota della coscienza. Nascono dalla profondità del ventre e a lei ritornano, come fa l’acqua tra la terra e il cielo. Ma in mezzo si innalza l’arcobaleno di una speranza. Perché non c’è conoscenza senza dolore. Mai.
I GIORNI DEL FERRO
Il padre non sarà simile ai figli, nè a lui i figli; nè l’ospite all’ospite nè il compagno al compagno nè il fratello sarà caro così come prima lo era. Non verranno onorati i genitori appena invecchiati che saranno, al contrario, rimproverati con dure parole.
Sciagurati! chè degli dèi non hanno timore. Questa stirpe non vorrà ricambiare gli alimenti ai vecchi genitori; il diritto per loro sarà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda le città. Non onoreranno più il giusto, l’uomo leale e neppure il buono, ma daranno maggior onore all’apportatore di male e al violento; la giustizia risiederà nella forza delle mani; non vi sarà più pudore: il malvagio, con perfidi detti, danneggerà l’uomo migliore e v’aggiungerà il giuramento.
(Esiodo, Le opere e i giorni)
Be’, la descrizione di Esiodo è straordinariamente moderna. L’età del ferro, che continua anche ai giorni nostri (quella che gli indiani chiamano kaliyuga) corrisponde esattamente a queste parole. Inquietante, no? All’età dell’oro, governata da Saturno, sarebbe infatti succeduta l’età del ferro, che sarebbe durata molto tempo infliggendo molti dolori alla stirpe dei figli di Zeus. Un’era di conflitti, guerre, malvagità. Quando ho letto Esiodo, sono rimasta ammutolita mentre sul bianco e nero delle parole stampate si innalzavano, e vivevano di vita propria, le immagini colorate dei nostri tempi moderni. A quel tempo, nella civilissima Grecia, radice della nostra civiltà, era impensabile l’ipotesi di non rispettare gli anziani, e tantomeno i genitori. Un brivido, quel giorno, davanti a questa lettura, mi ha percorso la schiena.
Profetico Esiodo, che scriveva dell’era che avrebbe recato con sè molte sciagure.
A volte rileggere gli antichi fa bene. Perché si comprende meglio il presente.
A dire il vero, il presente non può essere compreso in modo compiuto se non si guarda indietro, se non si cercano le origini dei nostri pensieri, le albe della nostra storia.
Oggi, purtroppo, narcotizzati dal progresso a tutti costi, sedotti dalle lusinghe di un tempo capace di procrastinare la vecchiaia e la morte, incantati dalle Sirene del benessere materiale, tendiamo ad archiviare quel mondo antico così remoto, faticoso, pieno – pensiamo – di superstizioni e barbarie.
Lo rinchiudiamo nelle nostre polverose cantine, immemori dei suoi tesori.
Non c’è nulla, oggi, che non sia già stato detto. O scritto.
Comprenderemo appieno la modernità solo se avremo il coraggio di guardare indietro (e cos’è "indietro", poi? e se fosse solo un inganno di un tempo birichino, che finge di procedere in linea retta mentre in realtà forma tanti cerchi concentrici?).
Un’anima sensibile non può non stupirsi davanti al pensiero moderno dei greci.
Ci fa capire quanto, in realtà, siamo…antichi. Ma non lo sappiamo. Non vogliamo saperlo. Non più.
Esiodo è uno dei "padri" a cui devo molto. Mi ha raccontato di queste età, con i loro simboli e miti.
E se guardo oggi, se guardo intorno a me, vedo con nitore i giorni del ferro che ha raccontato.
Li vedo in ogni guerra santa. E in ogni guerra meno santa.
Li vedo in ogni Tommaso ucciso. In ogni Vanessa che si accascia in metropolitana.
In ogni incesto che si consuma nelle pareti di casa. In ogni anziano abbandonato a sé stesso.
In ogni figlio che ammazza il padre per una manciata di soldi. In ogni uomo che massacra il vicino di casa perché la sua televisione fa troppo rumore.
In ogni politico che costruisce il suo feudo. In ogni concorso truccato per far vincere i figli dei professori universitari.
In ogni litigio di condominio.
Li vedo in tutte le indifferenze con cui ogni giorno accogliamo la disperazione degli altri.
Negli sguardi traboccanti odio e timore verso gli sconosciuti. Nel disprezzo per gli stranieri.
Nel menefreghismo che circonda ogni atto del vivere sociale.
Nei malati maltrattati in un letto d’ospedale. Nelle infermiere che lasciano marcire le piaghe da decubito di vecchie troppo faticose da alzare.
In chi muore per una pinza dimenticata nell’intestino durante un’operazione.
Li vedo negli aborti facili. Nei bambini venduti, usati e gettati.
Nelle migliaia di poveri ammassati in ogni angolo del mondo.
Li vedo nell’uomo che gareggia a chi mangia di più mentre qualche ragazzino rovista la spazzatura in cerco di avanzi.
Nella carità che non c’è. E in ogni egoismo che prospera invece in abbondanza.
In ogni sopruso quotidiano. In ogni morto ammazzato senza ragione. Perché se per morire non c’è mai una ragione, andarsene "per caso", per una pallottola destinata a un camorrista, trova ancora meno ragioni.
In ogni mafia, in ogni camorra. In ogni terrorismo, di qualunque bandiera e colore.
Nella Terra morente. Nelle nubi di gas che oscurano il sole. Nelle stelle che non si vedono più.
Nei ghiacci che si sciolgono. Nella mano dell’uomo che non è più ospite ma padrone.
Nella pena di morte. Nella lapidazione di una donna che ha peccato, perché ha amato.
Li vedo, questi giorni del ferro. Li vivo. Li soffro, come tutti. Sono giorni così tisici, così malati. Privi di umanità.
Scomparsa l’etica, tramontato il valore, a noi che resta?
Resta il sogno del ritorno di quell’oro antico in cui il cuore batteva all’unisono l’universo.
Chissà che, facendo veramente silenzio, non si riesca ancora ad ascoltare quel perduto battito.
Un sogno, quello dell’oro. Ma serve a rendere il ferro più sopportabile.
In fondo, senza speranza non ha neanche radice la vita.
CHIARORE DI LUNA
La luna delle notti non è la Luna
che il primo Adamo vide. I lunghi secoli
dell’umano vegliare l’han colmata
di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio.
(Jeorge Luis Borges)
I versi di Borges rendono omaggio alla luna, l’astro notturno che ha sempre fatto innamorare scrittori, poeti, pittori. E come potrebbe essere diversamente?
Eccola, ogni notte si innalza per l’appuntamento.
Se il pastore errante di Leopardi rivolge a lei le sue interrogazioni sul destino dell’uomo, Shakespeare ci avvisa del suo umore mutevole: "Oh, non giurar per la la luna, l’incostante luna, che si trasforma ogni mese nella sua sfera, per tema che anche l’amor tuo non si dimostri al par di lei mutevole", dice Giulietta al suo Romeo. Sì, le sue quattro fasi ci ricordano il nostro radicamento nel mondo delle mutazioni, nel divenire terreno che traccia il percorso dei nostri giorni.
La luna è rapimento, seduzione, e allo stesso tempo inganno, sentiero notturno in cui il viaggiatore incauto rischia di smarrire l’orientamento.
Poco importa. Orlando impazzito è salito fin lassù per ri-trovare sè stesso.
Chi studia i simboli delle antiche Scienze Sacre (fra cui l’astrologia e l’alchimia) sa bene che a questo astro corrispondono l’Acqua, il Femminile.
Il mondo delle emozioni, mondo lunare per eccellenza, non è mai facile da governare. Quanti inciampi, quante fratture lungo il cammino. Ogni volta che la luna, incerta, trema, sono temporali e alluvioni. Lì, nella notte della nostra passione, brancoliamo nel buio con le mani che cercano disperatamente un appiglio.
La "luna storta" ci rende irascibili. La "luna mensile", il ciclo di ventotto giorni che come marea di donna si gonfia e si ritira lasciando sulla spiaggia l’ovulo non fecondato, è un misterioso appuntamento con le radici dell’essere.
Ma guardando il cielo, di notte, lei è sempre lì, con il suo cerchio che scintilla di bianco, gareggiando con le stelle per il governo dell’amata oscurità che le accende.
Ci commuove, ci trattiene con il suo sussurro materno, indicibile, che parla una lingua remota, la lingua degli dèi e dei primi uomini che videro innalzarsi l’alba giunti alle soglie della notte che partorì il tempo.
Ogni uomo e ogni donna lo sa. Intimamente lo sa. Conosce la sua magia. Ne avverte l’incantesimo irrevocabile.
Una notte di tanti anni fa, tristissima, mi misi a piangere sotto un tappeto di stelle. Il motivo di quelle lacrime svanisce al ricordo abbagliante della consolazione improvvisa che ricevetti. Fu una carezza di luce che la luna depose sulla mia guancia. All’improvviso, il peso sul petto smise di premere e il cuore uscì dal recinto.
Sono momenti in cui l’anima trova le ali.
E la luna continua a guardarci, lassù. E noi continuiamo, come sempre, a cercare.
L’ULTIMO METRO’
L’ultimo metro, per Vanessa, si è concluso con un viaggio sottoterra. Lei non è Catherine Deneuve, non sta girando un film di Truffaut.
Vanessa non è tornata a casa, dopo quella corsa.
E i giornali sprecano fiumi di inchiostro, fra retorica e istigazione. Esasperazioni, strumentalizzazioni, speculazioni. Un’occasione ghiotta, da ghermire come falchi su una preda.
Ci sono, in fila indiana, gli spettri delle nostre paure: il terrore dell’altro, del diverso da noi che all’improvviso irrompe nella nostra vita, scardinandola; l’insofferenza crescente in cui ogni moto, ogni sussulto rischia oggi di divampare in una lite fatale; lo straniero fosco che minaccia le nostre quiete giornali civili, di bravi occidentali.
Tanta carne al fuoco. Troppa. Il bruciato non tarda ad arrivare. E lo fa anche in modi meno strillati di quelli che hanno occupato la cronaca nazionale dal momento in cui Vanessa ha ricevuto il colpo mortale alle polemiche post-sepoltura.
Nelle pagine romane di Repubblica, Aurelio Picca firma oggi un articolo inoffensivo quanto inutile.
Il titolo:
Ma nei gironi del metrò il vigilante è un miraggio
“Per fare questo giro in metropolitana mi sono portato appresso R.P. che è un vecchio signore al quale qualche anno fa, sul trapasso della lira con l’euro, proprio sulla metro gli fecero fuori trecento euro e settecentomila lire che custodiva nella tasca dei pantaloni”.
Il giornalista, che a giudicare dall’attacco del pezzo sembra firmare un racconto dal fronte, distribuisce in mezza pagina la sua escursione nel tubo sotterraneo della capitale. Anagnina, Vittorio Emanuele, Piramide…
Una cronachetta inoffensiva quanto inutile.
Sì, perché non basta una gita di poche ore per infierire sull’assenza dei vigilanti intensificando la tinta già fosca delle nostre ombre. La metropolitana è un luogo che va sorvegliato, ma non è Tel Aviv.
Non li ha incontrati. Sarà stato sfigato.
Io vivo a Roma e prendo la metropolitana solo quando il mio scooter va in panne, quando piove o quando torno da un viaggio, scendo dal treno e mi imbuco nella stazione sotterranea. Eppure, malgrado le mie scarse avventure nel ventre della capitale, ho incrociato spesso i vigilanti. Spesso, dico.
Sulle scale, vicino agli ingressi, in prossimità dei treni in arrivo o in partenza.
Il giornalista Aurelio Picca nella sua perlustrazione guidata non ne ha intercettato nessuno.
Sarà per quella strana legge di Murphy?
Sarà perché quando cerchiamo ostinatamente qualcosa, per qualche ordine sottile dell’universo questa cosa scompare?
Fatto è che dei vigilanti non trova traccia.
“Allora decido di scendere dal vagone e controllare se almeno qui passeggia un vigilante: niente, non c’ è anima viva. Vedo solo una scala mobile che non finisce più. MI sembra un agguato.”. Aurelio, Aurelio non preoccuparti. Le ragazze con l’ombrellaccio sono state prese. E saranno giustamente punite.
“Il display avverte: attesa di 4 minuti. E’inevitabile pensare: in quattro minuti può succedere di tutto”. Via, non esageriamo. Sappiamo tutti che la vita, in città, è sempre una guerra. Ma non ci diamo la tua importanza, non ostentiamo un tono sussiegoso da reporter al fronte. Ci infiliamo l’elmetto ogni mattina, combattiamo, ci difendiamo, lo appoggiamo sul comodino, la sera, prima di distenderci esausti.
E, soprattutto, forse aspettiamo un attimo prima di sparare sentenze sulla situazione delle forze dell’ordine nella metropolitana.
Intendo dire che chi prende la metropolitana a Roma sa che comunque i vigilanti ci sono. Non saranno abbastanza, forse. Ma ci sono. Lui finalmente ne vede due. Stanno fermi vicino a un’uscita. Purtroppo non sono onnipotenti, i vigilanti. Le disgrazie accadono perché arrivati al punto in cui siamo ci vorrebbe un gorilla per ognuno di noi.
Infatti il problema sta nel progressivo imbarbarimento dei nostri costumi, nella violenza con cui aggrediamo, nella vigliaccheria con cui fuggiamo.
Tuttavia dispiace anche vedere la superficialità di alcuni giornalisti che sparano sentenze su situazioni che conosco superficialmente, trasformando un punto nero in un bubbone.
L’inchiesta è un’altra. Quella vera, almeno.
Invece, come spesso accade, ogni evento drammatico diventa il pretesto per scorribande a caccia della famosa “notizia” (in questo caso l’assenza di vigilanti).
Meglio stare un po’ zitti, forse. E riempire la pagina con considerazioni più acute, interessanti. O se un’inchiesta deve essere, che sia. A puntate. Non a caso nel mucchio, così, ndo cojo cojo, alla carlona.
In più, non è stata fatta nessuna domanda ai pendolari. Almeno nell’articolo non lo racconta. Forse loro sono un tantinello più informati di chi ha fatto un solo “giro in giostra” e poi è sceso. Il giornalismo fa domande alla gente. Da sempre. O no?
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