CAVALIERE, REGINA, RE
Pensavo sempre, in quei giorni, alla morte di Artù.
Perché Artù non era un re qualunque, era il Re. E io avevo avuto la fortuna di incontrarlo. Era saggio, era profondo. Era meravigliosamente idealista, sempre alla ricerca di un cuore grande che accogliesse i piccoli cuoricini sballottati da una vita così tragica e meravigliosa.
Eppure a un certo punto il mio cuore iniziò a palpitare per un giovane Lancillotto. Come accadde a lei, a Ginevra.
E come lei vissi la sospensione eterna dell’attimo funesto che coagula i nostri destini restituendoli nella scacchiera modificati per sempre.
In quella scacchiera c’erano un Re, una Regina, un Cavaliere.
Il Re non morì ma visse sulla pelle il mio tradimento. Il nostro tradimento. Fatto di respiri furtivi appesi al desiderio, di soste prolungate sotto la porta di casa, come due adolescenti imbarazzati, colpevoli.
Non c’è tradimento più ardente dell’amore consumato nell’immaginazione, nelle notti febbrili in cui l’anima si confonde, si lacera, senza mai toccare con la sua carne la realtà anelata, senza mai conoscere con l’esperienza.
Solo qualche bacio in un oceano di attese.
Eppure il mio Artù accettò, e capì. Mi aspettò finché le turbolenze non depositarono nuove gocce di rugiada fresca nel prato dissetato della mia mente.
Lancillotto bruciava di vita, di rivoluzioni e di battaglie. Era vulcano, sì. Ma nel mio Artù ardeva la brace, quella stessa brace che un giorno futuro, a fuoco consumato, non avrei forse trovato più nel mio giovane cavaliere.
Quando Lancillotto partì (e non se ne andò in groppa a un cavallo bianco ma su una nave diretta a Sud) non ero ancora sicura di aver aiutato la mano del destino a compiere la mossa giusta. Temevo di rimpiangere il mio perduto amore.
Poi è passato, trascorso come tutte le cose che somigliano sempre alle onde. Affiorano, luccicano ai raggi del sole e poi scompaiono lasciando solo una scia lieve le cui bolle scompaiono in un soffio di secondi.
Ma di quel perduto amore, oggi, conservo ancora un profumo di rosa selvaggia.
Però Artù è ancora accanto a me. E continua a odorare di ambra e di stelle.
(Aurora Semente – Dove tace il tempo)
Ma perché "un amore solo non basta a scaldare il cuore", come scrive Amado in Dona Flor e i suoi due mariti?
Una donna e i suoi amori possibili. Un uomo davanti all’incanto di un bivio (come Ercole nei Tarocchi).
Ginevra ama il suo Re ma allo stesso tempo è travolta dal giovane amante con il quale rischierà addirittura l’intero regno di Camelot.
Due amori diversi ma allo stesso tempo sinceri, reali. L’uno frutto dei sensi, l’altro senso profondo dovuto alla lealtà, al rispetto, all’etica che meraviglia le cose che sfiora.
Ginevra alla fine resterà sola, vivrà in un convento. Non è stata capace di assopire il suo desiderio perché la sua "singolar tenzone", in cui è impegnata contro sé stessa, non può resistere davanti al cavallo della passione. E così l’amore tracima, mentre la fiamma del tradimento appicca l’incendio.
Cavaliere, Regina e Re.
Chissà, forse è vero, forse un solo amore non basta a scaldare il cuore…
SIAMO RAGAZZI DI OGGI
American History X – Edward Norton
“Siamo ragazzi di oggi”, cantava il rinunciabile Eros Ramazzotti una manciata di anni fa, in tempi ancora poco sospetti, a dire il vero, rispetto ai disastri degli ultimi anni.
Se i ragazzi del Sessantotto volevano scardinare un sistema obsoleto, parruccone, quelli del Duemilasette se la pigliano invece con chiunque metta in dubbio la supremazia di un anarchico fare e disfare.
Sabato 3 marzo: un preside viene picchiato dai parenti di un ragazzo perché deve consengnare una brutta pagella, dopo aver ricevuto – per tutta la settimana – minacce dai genitori per la sua decisione di vietare ai ragazzi l’uso del cellulare in aula (e solo in aula).
E ancora, nella stessa giornata, una ragazzina è pestata a calci e pugni dalle sue compagne di scuola per motivi banali (alla faccia delle gaie “fanciulle in fiore” di proustiana memoria).
Questo il felice bollettino di ieri, tanto per dirne una. Ma ogni giorno segnala ormai un episodio di ordinaria violenza.
Sono cronache dal fronte, diari quotidiani di una guerriglia scolastica che assume dimensioni mostruose in un “tutti contro tutti” selvaggio, spietato, documentato su YouTube attraverso riprese terrificanti.
La scuola è diventata un Fight Club in cui l’esercizio dei muscoli sostituisce quello del cervello. E, peggio ancora, non viene riconosciuta alcuna gerarchia in un sistema che ha più a che fare con una giungla che con le aule scolastiche. Rovesciare la “dittatura” di presidi e insegnanti (quelli del Sessantotto) è solo servita, temiamo, a stabilire una nuova dittatura, quella dei ragazzi. Del resto, basta “tutto cambiare per nulla cambiare”, come dice il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
E così eccoli qua, i nuovi “poteri” della nostra istruzione. Sono loro, i pischelli tutti ciccia e brufoli che adesso girano armati di cellulari, diventati arma di offesa destinata a tutti, insegnanti e compagni.
Le riprese sparano nei videofonini – indifferentemente – compagni handicappati messi all’angolo e malmenati, professoresse spiate nel tanga che sguscia fuori dal pantalone, risse in classe e violenze carnali.
Tramontato lo spauracchio di adulti cattivi come i personaggi di David Copperfield, il “fai da te” della nostra d-istruzione scolastica ha creato un nuovo genere di mostri, quello degli “adulti-bambini” cresciuti a pane e zaccherate di sangue.
I figli del Sessantotto sono stati viziati dai genitori che dopo il furore della loro guerra hanno infilato i sogni nelle pantofole e i soldi nelle tasche della loro prole. I figli e i nipoti di quei figli, oggi, sono ancora più viziati, vigliacchetti, superficiali.
Non stiamo mettendo alla gogna una intera generazione. Non vogliamo generalizzare perché, perdio, ci sono ancora anche i ragazzini che attaccano i lucchetti a Ponte Milvio invece che agitare le catene allo stadio. Ragazzini imbevuti di un senso del rispetto piuttosto retrò praticato però a dispetto della maggioranza, ragazzini che cercano di studiare riconoscendo nell’insegnante non un “pari” ma un “diverso” dotato di una funzione e una gerarchia istruttiva, in quel momento, con buona pace del fallimento di quei “padri amici” che, dopo una vita di pacche sulla spalla, all’improvviso scoprono che il figlio ha stuprato la vicina o ha frantumato di manganellate un ispettore allo stadio.
Ma il segno dei tempi moderni non è questo, purtroppo.
In American History X, film bellissimo, straziante, un giovane neonazista americano (interpretato dal bravo Edward Norton) dopo aver scontato la galera per l’omicidio di un nero, tornando a casa, cambiato, scopre che il fratellino minore lo sta lentamente imitando innestandosi suo malgrado nella spirale di violenza che lo porterà a finire i suoi giorni brevissimi in una pozza di sangue, ammazzato da un compagno di scuola.
Troppo tardi. La speranza si è spenta nei giovani occhi che si sono chiusi per sempre.
Un film, questo, che fa male allo stomaco. Perché è vero, perché è una storia americana X, una storia qualunque, di ordinaria follia. Che può capitare a tutti in un mondo rovesciato dalla violenza dei giovani.
Non siamo a Los Angeles, qui. Non abbiamo le bande che si fronteggiano in mezzo alle strade. Ma abbiamo anche noi i nostri inferni, questo è certo.
Le marachelle di Tom Saywer, affascinanti, legittime, sono oggi ridotte a un acquerello romantico, uno svago futile, pieno di innocente candore, che poco rispecchia i ragazzini di oggi, veri delinquenti organizzati.
E ci si chiede se l’assenza di gerarchia e disciplina sia stata la soluzione migliore. Tra l’olio di ricino e il menefreghismo sui banchi passa anche la via di mezzo, quella di un’autorità (oggi mancante) capace di coniugare rispetto e rigore, gentilezza e fermezza.
Il vivere civile non può tollerare un vandalismo imbecille. Deve essere soccorso da tutti, non solo dagli addetti ai lavori, attraverso una seria interrogazione sui destini futuri di nuove generazioni svezzate dal “tutto è permesso”. Perché saranno quelle creature, domani, a guidare un paese, a deciderne le sorti interne e mondiali.
Non possiamo fare come Rossella O’Hara. Non possiamo dire “domani è un altro giorno”. Domani è adesso. E coi nostri ragazzi stiamo messi male. Male davvero.
APPARIZIONI TELEVISIVE
La fame di televisione funesta il mondo contemporaneo.
Tutti che si agitano, sgomitano, di dimenano pur di una comparsata in tv.
In fondo, il ragazzotto sfigato con l’aria da segaiolo cronico, quello che fino a poco tempo fa compariva puntualmente dietro ogni intervistato nei servizi televisivi(fosse Rai o Canale 5 poco importava…"ndo cojo cojo", si dice nell’aulica Roma) facendo penare cameramen e giornalisti (a proposito, ma dove è finito?) rappresentava l’ansia da comparsa, il tarlo del video, lo sfogo purulento dello "sto-in- tv ergo sum".
Basta guardare le facce impostate della gente ogni volta che in strada passa una troupe…
"Guarda, c’è la televisione".
Nella cultura dell’apparire, l’esposizione mediatica diventa una febbre senza vaccino. Peccato. Già, peccato. Perché vedi la gente che si rimbambisce, che va a fare figure devastanti pur di vivere il brivido di una ripresa (come i poveri coglioni che, rifiutati dal Grande Fratello, vengono riciclati in tv nell’apposita trasmissione che mostra la feccia di tutti i provini).
E non ne possiamo più, noi, di pupe e secchioni, di dilettanti allo sbaraglio, di case e casini…
Prego, sorridi, sei in Televisione.
Minchia, ma allora "sono famoso".
E che farai, quando l’obiettivo si sarà spostato?
Mi sposto anche io e lo seguo, altrimenti scompaio.
E che sarà mai un’apparizione in tv?
Manco si trattasse della Madonna…
A proposito, ma lei avrà scelto per caso, nel farsi vedere "in pubblico", il suo profilo migliore?
NOVELLA DEGLI SCACCHI
Le ho già accennato che a mio avviso è già di per sé un nonsenso voler giocare a scacchi contro se stesso; ma perfino quest’assurdità avrebbe pur sempre una minima possibilità con una vera scacchiera davanti agli occhi, perché la scacchiera con la sua concretezza permette in fondo una certa distanza, un’estrinsecazione materiale. Davanti a una vera scacchiera con veri pezzi si possono intercalare pause di riflessione, si può sedere in modo puramente fisico ora da una parte, ora dall’altra del tavolo e in tal modo considerare la situazione ora dal punto di vista del nero, ora da quello del bianco.
Ma essendo costretto, com’ero io, a proiettare queste battaglie contro me stesso o, se vuole, con me stesso in uno spazio immaginario, dovevo per forza ritenere chiaramente nella mia coscienza la situazione esistente di volta in volta sulle sessantaquattro case, e calcolare inoltre non solo la situazione del momento, ma anche le possibili mosse ulteriori dei due partners, e quindi – so come suona assurdo tutto ciò – immaginarmi sempre quattro o cinque mosse in anticipo per ognuno dei due miei Io, il bianco e il nero, moltiplicate per due, per tre, no, per sei, per otto, per dodici.
Dovevo – mi perdoni se le chiedo di soffermarsi su questa follia – giocando nello spazio astratto della fantasia, calcolare in anticipo come giocatore bianco quattro o cinque mosse e altrettante come giocatore nero, per combinare in anticipo tuttel e situazioni che potevano svilupparsi, in certo modo con due cervelli, col cervello bianco e col cervello nero (…). Ma dal momento in cui iniziai a giocare contro me stesso, cominciai senza volerlo a provocarmi. Ognuno dei miei due Io, l’Io nero e l’Io bianco, dovevano gareggiare fra loro e ognuno per proprio conto caddero in preda a un’ambizione, un’impazienza di vincere, di avere la meglio; come Io nero tremavo a ogni mossa, nell’incertezza di ciò che avrebbe fatto l’Io bianco. Ognuno dei miei due Io trionfava se l’altro commetteva un errore, e al tempo stesso si amareggiava per la propria incapacità.
(Stefan Zweig, Novella degli scacchi)
Novella degli scacchi è un libro che turba. Stefan Zweig scrisse questa novella pochi mesi prima di suicidarsi, nel 1941.
Gli scacchi furono la metafora sulla quale appoggiò il suo senso di sfacelo, di abbandono, di progressivo imbarbarimento di un’Europa assediata dalle ombre naziste.
Il dottor B. si ritrova in prigione e dal cappotto di uno degli uomini della Gestapo, suoi carcerieri, sfila un manuale di scacchi.
Impara così a giocare contro sé stesso, scivolando in una progressiva follia.
Poi, a bordo di una nave, anni dopo, si imbatte in Czentovic, campione rozzo ma "tecnicista", accumulo di nozioni che determinano strategie vincenti.
Nella drammatica partita giocata dal dottor B. contro Czentovic si addensa la tragedia dell’uomo del Novecento, alle prese con il declino di una mente speculare (che scava la superficie fino al rischio di scindersi) a favore dell’alba di un uomo meccanico, privo di anima eppure vincente. Dunque un mondo non più spirituale ma votato al denaro, lo stesso denaro che Czentovic si fa dare per giocare ogni partita.
Un uomo senza qualità, Czentovic. Come quello di Musil.
Certo, Zweig fa parte di quella classe intellettuale colta, raffinata, spiritualmente legata alla vita e alla patria, che deve fare i conti con l’avanzare di un’epoca fosca in cui subìsce l’arrembaggio di un’umanità spicciola, sempre alla riconcorsa dei soldi.
Attualissimo. Terribilmente attuale.
Ma non c’è solo questo, nel libro.
L’uomo che gioca a scacchi contro sé stesso è in fondo la storia di tutti noi, costretti a trascinarci dietro l’Io bianco e l’Io nero finché vivremo. Per qualcuno questa partita sviluppa tinte meno dolorose, conducendo a risvolti meno radicali. Altri invece toccano l’estremo della ragione. Alcuni lo superano, sconfinando nelle terre del Tartaro, là dove l’ombra si inghiotte la luce, là dove bisogna camminare spediti, una volta scesi, senza voltarsi indietro, come fa la povera Lotte.
Alcuni di noi patteggiano con l’avversario allo scopo di far vincere il "bianco" o il "nero", trovando compromessi adeguati per condurre una vita sana, al riparo dai movimenti tellurici grazie alla proiezione esterna – e rassicurante – di quello che Zweig chiama l’altro Io. L’Io nero proietta fuori quello bianco (e allora tutto il mondo si fa santo, beato, attraversato da un candore indenne dalla macchia) oppure, al contrario – e più spesso e volentieri – l’Io bianco mette alla porta l’Io nero gettandolo nel mondo esterno (sul quale ricade l’ombra esiliata).
Giocare a scacchi contro noi stessi, con la consapevolezza di farlo, ci spinge sull’orlo della visione di un processo vitale in cui ci costringiamo al conflitto come necessità stessa dell’esistenza. A volte si tocca un’inconciliabilità tra gli opposti che urta l’essere alle radici. Lo fa avventurare nello spazio folle in cui la ragione si arrende. Quello spazio pervaso da un dolore cosmico in cui la sensibilità si fa campo minato, tragica sospensione della speranza.
Zweig si uccise, alla fine. Forse non riuscì a sopportare oltre la tensione della sua partita.
Ma ebbe il coraggio di giocarla senza chiudere gli occhi. Almeno finché gli fu possibile farlo.
P.S. Approfittiamo di questo spazio per segnalare il nuovo numero della rivista online Silmarillon (www.silmarillon.it). Un grazie anche ai blogger che hanno contribuito con i loro articoli e recensioni.
FIGLI DEL SESSANTOTTO
Li guardavo, i miei. Ex sessantottini infilati nella pantofole di una ritrovata borghesia dopo la mai salpeggiata chiatta che doveva arrivare fino in India. Fino a Goa, a Katmandu, fino ai confini dell’occidente.
Dai volantini all’università mia madre era passata alla carta igienica con cui puliva il culetto di noi bambine. A mia sorella doveva pulire anche la bocca, perché si mangiava la cacca che Plosch, il nostro cane, disseminava per tutto il giardino.
Lo seguiva traballando sulle sue gambette, raccoglieva quelle briciole di Pollicino che segnavano il passaggio di Plosch infilandosele dritte in bocca.
I sogni di ribellione di mamma si schiantarono sul muro di quel giardino. O forse mia sorella si ingoiò anche quelli. E me ne fece assaggiare un pezzettino.
La vita di mamma assunse il perimetro stretto della casa in fondo al vialetto, quella in cui trascorse per anni le sere davanti alla televisione dopo averci concesso il Carosello, mentre papà al bar stanava gli avversari del poker. "Un poker di buono, tuo marito", le disse una volta una cugina.
Papà non era mai stato realmente un ribelle. Soltanto un dandy che bighellonava trasognato per la città, in attesa di evadere la minaccia di avvocatura prospettata dai suoi, pronto a tutto pur di non mettere la camicia di forza di un lavoro "borghese" malgrado la sua rivoluzione fu solo e sempre domestica, scandita dalle mutande buttate nella cesta dei panni sporchi dalla cameriera, raccolte da terra mentre gli portava il caffé.
Era lui, a sognare la chiatta in India. Invece di una chiatta in India, alla fine costruì un’azienda in Italia. Diventò il self made man di cui parlano sempre tutti i giornali. Dopo un periodo molle di sbando e di povertà, decise di voler dimostrare al mondo che poteva emergere, poteva diventare qualcuno.
Mamma a casa, lui al lavoro. Lei immacolata come una Madonna, tutta presa dalla sbronza dei figli per dimenticare un marito dongiovanni che passava dall’ufficio al letto. Un altro letto, non il loro, non quello matrimoniale dove avrebbero dovuto consumare carne e sudore.
Noi crescevamo al riparo dell’ombra dei soldi che papà andava facendo, mattone dopo mattone, milione dopo milione. Le fratture della nostra famiglia nevrotica venivano ingessate con le banconote.
Ci toccò la sorte di tanti figli dei figli del Sessantotto: la libertà venne barattata con la comodità. Il nucleo della famiglia fu scambiato con un’esplosione nucleare che ci divise per sempre dall’unità, scavando grotte e cunicoli nella nostra dimensione affettiva, quella che io e mia sorella avremmo trascinato disperatamente da adulte. Laggiù si aggirava "la strega", la donna ctonia dai capelli scarmigliati e il ventre gonfio, sporco di fango. Quella che nuda inseguiva le mie fughe notturne in cui i sogni aprivano le frontiere all’incubo.
Più tardi, guardando indietro, mi resi conto che nei desideri sfumati dei miei genitori si andava cancellando la promessa di felicità per il nostro futuro.
Il Sessantotto fu furore esitinto nell’attimo della revisione, fu gioventù incapace di portare avanti la radicalità di una posizione estrema, priva di compromessi, che bandiva la mediazione.
(Aurora Semente, Dove tace il tempo)
Certamente molti dei figli di coloro che fecero il Sessantotto si sono scontrati con una virata d’assetto che ha messo da parte i jeans sdruciti in cambio del pantalone di lino. Oggi molto di loro sono impiegati, la domenica portano la famiglia a pranzo fuori, vanno dal manicure.
L’età dei moti ribelli si scioglie come burro sul fuoco quando il tempo avanza portando con sé i detriti dei sogni ai quali si sovrappone la necessità di quiete, denaro, comodità.
Sono pochi quelli che sono stati capaci di mantenere viva la fiaccola di una rivoluzione distante da quella borghesia che poi è stata assunta come vestito (ritrovato o conquistato). Eppure il Sessantotto ha lasciato un segno nelle famiglie composte da questi ragazze e ragazze. Ha segnato l’incapacità di dare coerenza e struttura a una famiglia prima combattuta nella sua tradizione, poi incarnata senza trovare una forma migliore, una valida sostituzione.
Tutto a tutti è spesso diventata la ricetta da applicare coi figli. Purtroppo.
BOSCHI, NAVI
La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata.
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic.
Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo confort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale.
È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenre le agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore.
Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano.
Fintanto che il tempo si mantiene sereno e piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità.
Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente.
(…). Dove l’automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi.
Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si rizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci.
Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi
Alla metafora della nave Jünger contrappone quella del bosco, inteso come luogo immutato e immutabile, sovratemporale. Un luogo inviolabile, un recinto sacro in l’uomo ritrova la radice più profonda che si sottrae alle leggi del divenire. È l’incontro con l’essenza di cui si ciba il fenomeno individuale, temporale.
La nave è estensione orizzontale, il bosco profondità.
Difficile, oggi, resistere alle navi per trovare il bosco (che si trova ovunque, in realtà, perché si tratta di uno stato dell’essere).
Bisogna continuare a cercare, però.
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