Le ho già accennato che a mio avviso è già di per sé un nonsenso voler giocare a scacchi contro se stesso; ma perfino quest’assurdità avrebbe pur sempre una minima possibilità con una vera scacchiera davanti agli occhi, perché la scacchiera con la sua concretezza permette in fondo una certa distanza, un’estrinsecazione materiale. Davanti a una vera scacchiera con veri pezzi si possono intercalare pause di riflessione, si può sedere in modo puramente fisico ora da una parte, ora dall’altra del tavolo e in tal modo considerare la situazione ora dal punto di vista del nero, ora da quello del bianco.
Ma essendo costretto, com’ero io, a proiettare queste battaglie contro me stesso o, se vuole, con me stesso in uno spazio immaginario, dovevo per forza ritenere chiaramente nella mia coscienza la situazione esistente di volta in volta sulle sessantaquattro case, e calcolare inoltre non solo la situazione del momento, ma anche le possibili mosse ulteriori dei due partners, e quindi – so come suona assurdo tutto ciò – immaginarmi sempre quattro o cinque mosse in anticipo per ognuno dei due miei Io, il bianco e il nero, moltiplicate per due, per tre, no, per sei, per otto, per dodici.
Dovevo – mi perdoni se le chiedo di soffermarsi su questa follia – giocando nello spazio astratto della fantasia, calcolare in anticipo come giocatore bianco quattro o cinque mosse e altrettante come giocatore nero, per combinare in anticipo tuttel e situazioni che potevano svilupparsi, in certo modo con due cervelli, col cervello bianco e col cervello nero (…). Ma dal momento in cui iniziai a giocare contro me stesso, cominciai senza volerlo a provocarmi. Ognuno dei miei due Io, l’Io nero e l’Io bianco, dovevano gareggiare fra loro e ognuno per proprio conto caddero in preda a un’ambizione, un’impazienza di vincere, di avere la meglio; come Io nero tremavo a ogni mossa, nell’incertezza di ciò che avrebbe fatto l’Io bianco. Ognuno dei miei due Io trionfava se l’altro commetteva un errore, e al tempo stesso si amareggiava per la propria incapacità.
(Stefan Zweig, Novella degli scacchi)
Novella degli scacchi è un libro che turba. Stefan Zweig scrisse questa novella pochi mesi prima di suicidarsi, nel 1941.
Gli scacchi furono la metafora sulla quale appoggiò il suo senso di sfacelo, di abbandono, di progressivo imbarbarimento di un’Europa assediata dalle ombre naziste.
Il dottor B. si ritrova in prigione e dal cappotto di uno degli uomini della Gestapo, suoi carcerieri, sfila un manuale di scacchi.
Impara così a giocare contro sé stesso, scivolando in una progressiva follia.
Poi, a bordo di una nave, anni dopo, si imbatte in Czentovic, campione rozzo ma "tecnicista", accumulo di nozioni che determinano strategie vincenti.
Nella drammatica partita giocata dal dottor B. contro Czentovic si addensa la tragedia dell’uomo del Novecento, alle prese con il declino di una mente speculare (che scava la superficie fino al rischio di scindersi) a favore dell’alba di un uomo meccanico, privo di anima eppure vincente. Dunque un mondo non più spirituale ma votato al denaro, lo stesso denaro che Czentovic si fa dare per giocare ogni partita.
Un uomo senza qualità, Czentovic. Come quello di Musil.
Certo, Zweig fa parte di quella classe intellettuale colta, raffinata, spiritualmente legata alla vita e alla patria, che deve fare i conti con l’avanzare di un’epoca fosca in cui subìsce l’arrembaggio di un’umanità spicciola, sempre alla riconcorsa dei soldi.
Attualissimo. Terribilmente attuale.
Ma non c’è solo questo, nel libro.
L’uomo che gioca a scacchi contro sé stesso è in fondo la storia di tutti noi, costretti a trascinarci dietro l’Io bianco e l’Io nero finché vivremo. Per qualcuno questa partita sviluppa tinte meno dolorose, conducendo a risvolti meno radicali. Altri invece toccano l’estremo della ragione. Alcuni lo superano, sconfinando nelle terre del Tartaro, là dove l’ombra si inghiotte la luce, là dove bisogna camminare spediti, una volta scesi, senza voltarsi indietro, come fa la povera Lotte.
Alcuni di noi patteggiano con l’avversario allo scopo di far vincere il "bianco" o il "nero", trovando compromessi adeguati per condurre una vita sana, al riparo dai movimenti tellurici grazie alla proiezione esterna – e rassicurante – di quello che Zweig chiama l’altro Io. L’Io nero proietta fuori quello bianco (e allora tutto il mondo si fa santo, beato, attraversato da un candore indenne dalla macchia) oppure, al contrario – e più spesso e volentieri – l’Io bianco mette alla porta l’Io nero gettandolo nel mondo esterno (sul quale ricade l’ombra esiliata).
Giocare a scacchi contro noi stessi, con la consapevolezza di farlo, ci spinge sull’orlo della visione di un processo vitale in cui ci costringiamo al conflitto come necessità stessa dell’esistenza. A volte si tocca un’inconciliabilità tra gli opposti che urta l’essere alle radici. Lo fa avventurare nello spazio folle in cui la ragione si arrende. Quello spazio pervaso da un dolore cosmico in cui la sensibilità si fa campo minato, tragica sospensione della speranza.
Zweig si uccise, alla fine. Forse non riuscì a sopportare oltre la tensione della sua partita.
Ma ebbe il coraggio di giocarla senza chiudere gli occhi. Almeno finché gli fu possibile farlo.
P.S. Approfittiamo di questo spazio per segnalare il nuovo numero della rivista online Silmarillon (www.silmarillon.it). Un grazie anche ai blogger che hanno contribuito con i loro articoli e recensioni.