UNA DIFFICILE ARTE
Sono venuta al mondo nuda, ma colpi di pennello mi coprono, il linguaggio mi eleva, la musica mi dà un ritmo. L’arte è il mio bastone e il mio sostegno, il mio rifugio e il mio scudo, e non solo il mio, perché l’arte non esclude nessuno. E coloro che sono stati privati dell’arte dalla tirannia o dalla povertà ricominciano a produrla. Se l’arte non esistesse, ci sarebbe sempre qualcuno che la creerebbe, nelle parole di una canzone, estraendola dalla polvere e dal fango, e anche se il manufatto potrebbe essere distrutto, l’energia che l’hao prodotto resiste a ogni distruzione. Se, nell’agiato Occidente, abbiamo scelto di considerare queste energie con scetticismo e disprezzo, allora tanto peggio per noi. L’arte non è un frammento di evoluzione di cui i cittadini nel Novecento possono fare a meno. In senso stretto, l’arte non appartiene al nostro modello evolutivo. Non ha una necessità biologica. Il tempo dedicato all’arte era tempo sottratto alla caccia, agli incontri, all’accoppiamento, all’esplorazione, alla costruzione, alla sopravvivenza, all’arricchimento. Se diciamo che l’arte, tutta l’arte, non ha più rilevanza per le nostre vite, allora potremmo perlomeno porci la domanda "Che cosa è successo alle nostre vite?". la domanda consueta "Che cosa è successo all’arte?" rappresenta una via di fuga troppo facile.
Io non sono fuggita. Seduta in una galleria di Amsterdam, sono scoppiata a piangere.
(Jeanette Winterson, L’arte dissente)
Che cosa è successo alle nostre vite?
La domanda bruciante che in L’arte dissenteJeanette Winterson fa a me, a voi, a noi tutti, in questo saggio che rappresenta una difesa appassionata dell’arte merita una riflessione.
Non avere più tempo, oggi, significa anche alimentare la frattura fra l’ignoranza e l’educazione dell’anima, educazione che ha bisogno di parole, di suoni, di immagini e di colori.
Perché l’arte ti inchioda ai suoi significati, ti impone domande dalle quali è difficile evadere.
Come quando leggiamo un libro oppure vediamo un film, e concludiamo sbrigativamente la faccenda dicendo "Mi piace".
Non basta. All’arte questa risposta non basta.
Perché mi piace? Cosa mi dice di me? O del suo autore? In quale luogo sottile e impalpabile io e lui ci intercettiamo? O magari ci allontaniamo per sempre?
Non si tratta di trovare didascalie, di fare "accademia".
Qui la forza vitale è estensione della capacità di volare in quegli spazi che sono stupore e vertigine. L’Io consueto si frammenta, smarrisce le sue coordinate, vive di affinità elettive.
Bisogna cercare. Sempre. L’arte è scavo, riflessione. Ci chiede di impegnare cuore e cervello.
Faticosa, insaziabile, selvaggia come un’amante lontana, l’arte richiede il coraggio di misurare il perimetro della nostra condizione così frastagliata, così ricca di pieni e di vuoti, di materia e di soffio spirituale.
Non avere tempo per l’arte significa vivere la maleducazione del nostro mondo moderno.
Eppure l’arte è così semplice, e per questo così difficile.
Non vuole essere oggetto di vani pettegolezzi o sfoggi di erudizione, come nel famoso salotto dei Verdurin di proustiana memoria.
Vuole solo essere conosciuta. E amata. Oppure odiata.
Ma per conoscerla bisogna sedersi, aspettare, ascoltare le sensazioni senza tradurle subito in parole.
Piano piano, senza fretta.
L’arte è scintilla del genio, è ardore di fiamma che brucia e consuma.
Ma se quella fiamma non serve a incendiare nessuno, allora rischiamo di perderci nel buio della nostra ignoranza.
UNA STANZA TUTTA PER LEI
Voglio imparare il ricordo
senza il rammarico
ammainando i lutti
ad uno ad uno
senza fretta.
E per il varo di una nuova esistenza
cercherò fondi di serenità
proprio qui
in questa stanza che non mi hanno insegnato
Ma se mi arrendo
posso ancora esaudire quella carezza
in cui ripara ogni struggimento
Carezza ancora sconosciuta
non ritrovata.
Eppure è questo, adesso, l’istante preciso
per separare i limiti dalle possibilità
ciò che sembrava da ciò che accadeva
il torto dall’espiazione
il nido di passero dal covo della tigre
la sabbia incerta dalle geometrie del deserto
Adesso, l’occasione di evadere
senza chiudere gli occhi
il dolore che estingue l’attimo breve
di giorni allenati senza convinzione
Se ci riesco, ora, in questa rara
penombra di consapevolezza
potrò andare fra il grano e la neve
con i soliti vestiti addosso
Ma le mie mani
tutte le mie mani
non esiteranno più
davanti ai disegni
che questa stanza mi insegna.
(Aurora Semente – Dove tace il tempo)
Lo sapeva bene, Virgina Woolf. Conosceva l’importanza di una stanza tutta per sè.
Specialmente per una donna.
È in quella stanza che si scrive, si pensa, si dipinge, si piange. Ci si stiracchia ben bene nel mattino fresco, lavando l’anima e asciugandola al vento che soffia dalle finestre. Si beve una tazza di tè, poi si riprende a lavorare. Lavorare su cosa? Sul giardino interiore.
E il giardino di una donna è faccenda complessa. Per l’uomo si tratta di aiuole potate, esposte alla giusta inclinazione del sole. Ma per lei è diverso. I suoi giardini sono selvatici, sanno di muschio, di ombra che filtra la luce.
A prima vista sembrerebbe il contrario, eppure non è così. Malgrado secoli di culti solari – e di irregimentazione del "secondo sesso", come scriveva Simone De Beauvoir – il femminino vive nel sottobosco. Inquieto, struggente, ferito da una Luna palpitante che allo stesso tempo è viaggio e zavorra.
Scarmigliata, a piedi scalzi, la donna del sottosuolo nasconde i segreti delle pietre preziose.
Ma per trovarle deve avere una stanza tutta per sè. Dove creare ma anche liberare le ombre, sfogarle, domarle.
Le ferite devono essere suturate affinché la donna trovi la strada per collegare i suoi boschi con la superficie solare.
Ci vogliono una stanza, un divano, un tavolo.
E alcuni libri per incendiarsi davanti alle giuste parole.
E matite per colorare i fogli del nostro passato.
E musica per danzare.
E una torcia per far luce nell’ombra.
In quell’ombra, la penetrazione coraggiosa dei territori sconosciuti, remoti, smette di farla essere clandestina a sé stessa.
Finalmente si torna a casa. Il sentiero si illumina di piccole luci che brillano nella notte, costeggiano la strada sassosa che riconduce a casa.
Lì, in quella stanza, i misteri del cuore fioriscono.
Sbocciano come fiori candidi inanellati da fumi d’incenso.
Prima però ci sono stati un ritrovamento e una sepoltura.
Seppellire i morti, ammainare i lutti non è mai facile. Ma è da lì che si parte.
Non esiste l’altrove senza l’adesso, nè il rifugio senza la memoria.
Nella stanza ci si cala dal pozzo o si usa la scala per infilare un dito nel cielo.
Non c’è differenza in quanto non si sale senza prima essere scesi.
La discesa della donna avviene nella sua stanza (che può essere anche all’aperto, senza finestre né porte), così come la risalita con le mani piene di doni preziosi.
Questa donna che ha imparato a usare la stanza non potrà più rimanere preda di case altrui. Saprà sempre orientarsi, anche nello sconforto.
Se la tregua di un temporale traccia un arcobaleno nel cielo, allo stesso modo le mani di colei che ha scavato il giardino che sta nella stanza disegneranno bagliori di fuoco che accenderanno ogni stella.
E per ogni stella, sulla terra ci sarà una stanza. Una stanza tutta per lei.
TERRA MADRE
In questo periodo assolato, in cui la primavera sembra già torrida estate, difficile non fare il punto sulla situazione.
Abitiamo una Terra che sta morendo.
L’abbiamo violentata, sfruttata, devastata. Ne abbiamo scavato e percorso ogni solco, trasformando la sua carne, la sua umida terra, in catrame. Delle foreste abbiamo fatto carta per le nostre grafìe e legno per le nostre eco-abitazioni. I mari, i mari belli e avventurosi, ospitano oggi le scorie di fiumi sfiancati dalle immissioni di pesticidi e altre schifezze.
Quegli stessi mari in cui l’uomo si è più volte perduto, cantando lo sguardo annegato nella vastità dei suoi specchi d’acqua.
E in quegli stessi mari i ghiacciai, oggi, si stanno sciogliendo.
Orsi polari, foche e balene non avranno più i loro banchi ghiacciati. La superficie solida si scioglierà costringendoli a stare a galla o a contendersi a morsi le superfici superstiti. Su quelle zattere improvvisate vedranno la deriva delle loro abitazioni inghiottite dal mare.
Sulla terra le cose non saranno migliori.
Alluvioni si alterneranno alla siccità, i tornadi saranno sempre più potenti, il Sole malato incendierà la Terra con i suoi bagliori di fuoco, non più protetti dalla coperta di ozono.
Apocalisse?
Purtroppo no.
Realtà.
Perché il futuro è qui. E’ adesso.
Ma le notizie sull’agonia del nostro pianeta non bastano, con la loro evidenza, a far virare la coscienza dell’uomo.
L’ultima riunione scientifica mondiale, pochi mesi fa, ha sfornato dati allarmanti, per due giorni televisioni e giornali hanno diffuso le notizie sui disastri imminenti (non ultimo quello relativo all’oro blu, alla carenza di acqua la cui minaccia avanza irrimediabilmente).
Ma il giornale si butta via, la televisione si spegne, l’inerzia del quotidiano fatto di allegri consumi ci riporta al nostro beato menefreghismo.
In più, questi giorni ho visto persone aggirarsi contente e abbronzate. Tutte scosciate, con l’ombelichino di fuori, esibivano i loro infradito nuovi di zecca.
Ah, finalmente, non sopportavo il freddo (ma quale?)
Che bello, è già estate!
Magari domani vado al mare.
Ma che giornata stupenda!
Giornata stupenda?
Sarò una Cassandra fuori dal coro, ma ho paura.
Sono inquieta, come i miei gatti che di notte si lamentano senza trovare riposo, fiutando incerti questa strana atmosfera.
Sento che la Terra sta morendo.
Ne avverto gli spasmi, le ultime richieste febbrili.
Le margherite sbocciate a febbraio mi stringevano il cuore. Stavano lì, poveri fiorellini in cerca dell’abbraccio del sole, ignari della loro temeraria presenza, del loro fragile aprirsi a un inverno capace, con una gelata improvvisa, di spezzarne il profumo.
Soffro per ogni uccello che perde il senso della sua migrazione.
Per ogni rondine scomparsa.
Per ogni pianta ingannata dagli scherzi di una stagione impazzita.
Assisto alle mutazioni di un tempo senza più bussola e direzione.
Non basta un protocollo a Kyoto.
Non bastano le buone intenzioni.
La boa è stata doppiata, il punto di non ritorno raggiunto.
Possiamo solo attenuare i danni, se ne siamo ancora capaci.
Il futuro è già qui. Adesso.
Sta nelle nostre mani.
Gli indiani d’America non aravano la terra che doveva rimanere vergine, inviolata.
Solo noi ne abbiamo fatto un luogo di abusi.
C’è un libro uscito una decina d’anni fa, Ishmael, di Daniel Quinn, che nella sua struttura fiabesca racconta di un gorilla-guru che istruisce un allievo sul destino di un’umanità destinata a precipitare. Perché Caino non smette di uccidere Abele, perché l’uomo pensa che la Terra sia stata creata da lui. Il libro ha ispirato Instinct, film bellissimo, dolente, in cui si narra dei “lascia” – le antiche civiltà agricole e dei “prendi” – gli uomini moderni che tutto saccheggiano, procedendo come cavallette.
Ecco, il “prendi” che è i noi non ha ancora imparato a mollare. Mollare la presa su una terra agonizzante, assetata, derubata dei suoi frutti.
È nostra madre, la Terra. Lo è non solo simbolicamente.
Se non iniziamo ora, non sarà più possibile cucire le sue ferite.
Dobbiamo imparare a difenderla.
Meglio pensarci sopra, piuttosto che correre spensierati verso una precoce giornata di mare.
QUALCUNO VOLO’ SUL NIDO DI ALDA (original)
Sono una donna anziana, di 76 anni, malconcia, che ha subìto diversi interventi di cui l’ultimo all’anca e quindi faccio fatica a muovermi. Mi piacerebbe uscire, scendere le scale (non ho l’ascensore) e fare una passeggiata per le vie della città, bere un caffé al bar, sorretta dal mio bastone. Ma ho paura. Paura del mondo attorno perché è così spaventosamente cambiato. Io sono stata in manicomio per tanti anni, ma dopo la legge basaglia (legge 180 che ha fatto chiudere i manicomi) i matti sono in giro e hanno ragione di essere matti: c’è troppo odio in questa società. Un odio che ha devastato l’Italia e che rende le persone ignoranti, aride e cattive. Non c’è più amore per nessuno. E per assurdo affermo che mi sentivo più sicura in manicomio, anche se so che con questa mia affermazione urterò la sensibilità di molti: io vorrei che riaprissero i manicomi. Dico di più, vorrei ritornarci.Tra le mie quattro mura non mi sento sicura, ho dei vicini terribili, persone inqualificabili. Mi disturbano con il silenzio, se facessero rumore mi farebbe piacere, vorrei sentire le grida dei loro bambini, invece niente, silenzio tombale che mi porta a domandare "sarà in casa?".Poi improvvisamente questo silenzio viene rotto da un rumore violento che ti fa sobbalzare perché non te l’aspettavi e se sei fragile di cuore può anche farti male. È una tortura morale. Madre Teresa di Calcutta diceva che c’è qualcosa di più grave dell’omicidio colposo: l’indifferenza, che può arrivare a uccidere un uomo. Ecco, i miei vicini mi trattano con indifferenza.Non parlano, non si rivelano, fanno comunella tra loro, continuano a vedermi come la donna che è stata in manicomio, una sorta di stigam impresso addosso, che mina la mia identità pesonale, per loro io sono ancora matta,
E anche mia figlia lo è, per il solo fatto di essere nata da me. Ma i veri disturbati di mente sono loro. La gente odia la malattia mentale perché ha paura di essre uguale al malato di mente, molti non lo sanno che sono già uguali ai pazzi. E così li emarginano credendosi sani. I miei vicini di casa ricostruiscono la mia pazzia. Sparlano alle mie spalle perché la mia casa è disordinata, per loro vivo nella sporcizia, loro invece hanno case asettiche, perfette e impersonali ma non si rednono conto che vivono nella sporcizia morale. Il fatto che non mi rivolgano la parola è drammatico.
(Alda Merini, testimonianza pubblicata su D – la Repubblica delle Donne)
Già. Alda Merini non è una donna comoda.
E non vuole esserlo. Tutt’altro.
Ma un’anima sensibile come la sua, tutta pelle, esposta alle variazioni climatiche di un temperamento mutevole, incline alla malinconia e allo stesso tempo dotato di ali, le grandi ali dei folli (folli di saggezza, mi verrebbe da dire), deve fare i conti con la tristezza quotidiana di quel mondo patologico che noi chiamiamo normale. Normale perché dormiamo. Normale perché ci rifiutiamo di vedere le nostre miserie, le nostre patologie, le nostre nevrosi ormai elette a modello sociale.
Sul piano psichico, la differenza tra il "sano" e il "malato", diceva Freud, è solo una differenza quantitativa, non qualitativa. Quantitava. Quindi il confine che separa (apparentemente) i due mondi risiede solo in un accumulo di peso, in un aumento della pressione. Interessante. Molto interessante. Siamo tutti potenzialmente folli. Non si tratta di un gene particolare (perlomeno finora neanche gli scienziati DNAdipendenti hanno isolato e indicato il cromosoma responsabile della follia).
Non si tratta di una virata improvvisa verso territori a noi sconosciuti, in cui si aggirano allucinazioni e fantasmi.
Noi, quei territori, li abbiamo già dentro.
Esistono diversi gradi di follia. Ancora una volta, si tratta di gradi. Di un aumento della temperatura che fa bollire la coscienza, la trasforma in magma esplosivo, lava che cola travolgendo le barriere mentali.
Ma i matti, spesso, sono saggi. Terribilmente saggi.
Vedono cose che noi non vediamo. Sì. E tuttavia queste visioni non hanno solo a che fare con le deformazioni psichiche, le proiezioni, gli stati paranoici o allucinatori.
A volte i matti vedono, semplicemente. Non guardano. Come diceva anche il Piccolo Principe di Saint Exupery, tra il guardare e il vedere esiste una differenza.
C’è un libro bellissimo, Le libere donne di Magliano, in cui Mario Tobino ci regala un affresco umanissimo, perfino" sensato" (sì, c’è un "senso", una direzione, anche nei matti, il loro caos a volte nasconde archietture precise, come accade con i frattali) del manicomio in cui lavora.
La sua domanda è sempre attuale:
"La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore".
Si sentono invece molto superiori, i vicini di Alda.
Lei, la vecchia poetessa pazza, fa paura.
E io mi domando se questo timore non scaturisca proprio dalla voglia di evitare il confronto con uno specchio evidente (in cui l’immagine si inverte, come in tutti gli specchi) che ci rimanda ll nostro reale disordine nascosto dietro le "pulizie" che ostentiamo. Dietro quella normalità in cui infiliamo i nostri disagi, le follie che tratteniamo nel pugno della mano, preferendo chiudere gli occhi e dormire.
Forse le donne di Magliano sono davvero libere.
E noi, noi prigionieri delle nostre paure, degli attaccamenti, dell’ incapacità di vedere la follia di una società che si ammala di indifferenza. Una società in cui il cuore si chiude, la mente si ottunde, la ragione sancisce il predominio relegando i fantasmi inconsci in soffitta, insieme al baule con i libri di Freud, insieme alle ombre che potrebbero urtare il magnifico profilo sociale e civile in cui ci illudiamo di vivere mentre forse stiamo invece morendo.
Se solo avessimo più coraggio. Se solo decidessimo di guardare in faccia i nostri matti.
Saremmo allora liberi. Come le donne di Magliano. Come Alda.
Certo, un po’ picchiatelli. Ma liberi.
RACCONTI IN TEMPO DI GUERRA
On line il nuovo numero di Silmarillon.
Il dossier si intitola Racconti in tempo di guerra. Un grazie di cuore ai blogger che come sempre hanno dato un apprezzatissimo contributo, nel reale significato del dono e della condivisione tipico di chi lavora in Rete.
“L’ira canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade, tanti corpi di eroi ha dato in pasto agli uccelli”.
Già Omero disegnava, nella sua Iliade, il profilo epico dei romanzi di guerra che avrebbero accompagnato l’uomo nei secoli. E tuttavia, tuttavia a quel tempo, il tempo mitico degli eroi al cui fianco bisbigliavano gli dèi, inserendosi nelle sorti delle battaglie, il codice etico riassunto nel valore, nell’onore, nella gloria (quello stesso codice che si sarebbe sfilacciato fino a spezzarsi per sempre) faceva della guerra una necessità spirituale, in cui la morte diventata la misura della tempra di un’anima. Difficile, a questo punto, frantumare il pensiero che già sorge e, tutto intero, si reca nei luoghi del Medio-Oriente in cui ogni giorno, imbottiti di tritolo, alcuni uomini si guadagnano il paradiso di Allah.
Ma i tempi sono cambiati. Da sempre fucina di guerre, le religioni si sono progressivamente accorte del potere di una manipolazione “sottile” in cui ancora oggi si usa il potere spirituale come terreno di applicazione per quello temporale, specie nei paesi integralisti, ma nel “tempo dell’uomo” oggi si fanno i conti un modelli di guerra e di morte in cui all’onore, al valore e alla gloria resta un pallido lembo di spazio. Gli “onori” e i “valori”, oggi, sono solo quelli economici, quelli delle convenienze.
Ci stiamo però incamminando in un sentiero che porta lontano dal tema delle narrazioni.
Facciamo un passo indietro, e voltiamoci ancora per un attimo verso le mura di Troia, davanti alle quali Ettore e Achille si stanno affrontando in uno degli scontri più avvincenti mai raccontati.
“Già Achille gli era vicino, simile ad Ares, l’audace dio della guerra: alta sulla spalla destra brandiva la lancia terribile; tutto intorno il bronzo splendeva, di un bagliore simile a quello del fuoco che brucia o al sole che sorge”. Eccolo, il racconto di una battaglia. Battaglia personale e allo stesso tempo corale (non c’è nulla senza coro, in Grecia), inaugurata dall’ingresso di Elena nella città in cui un cavallo, che farà entrare l’esercito nemico, abbatterà il regno di Priamo.
Achille è “simile ad Ares”. E Ares si sveglia ogni volta che una battaglia divampa nel mondo. Non importa se ieri oppure oggi, il suo archetipo giace nelle profondità di ogni uomo, si insinua nella Storia, perfino quella laica, atea, progressista, da dove fa riecheggiare le urla e la polvere dei secoli che si affacciarono sull’alba del mondo. Tutti gli eserciti hanno il fiato di Ares sul collo, avanzano sulla punta della sua lancia, lasciano a terra il sangue e la carne di cui si ciba, insaziabile.
L’Iliade è il primo grande, vero, romanzo di guerra. La guerra va raccontata. Da Omero in poi, la letteratura ne farà il soggetto di molte scritture. Basta pensare alla magnifica architettura di Guerra e pace. Oppure alla prosa più secca, rapida, di Addio alle armi. Se Hemingway è uno scrittore, non molla mai le origini della sua penna, intinta nell’inchiostro del giornalismo. Ed è il giornalismo che negli ultimi due secoli ha cercato di raccontare le guerre. Il “senso della notizia” si è fatto carne, molte volte, avvicinandosi agli uomini, scavando nelle loro storie ordinarie, quelle stesse storie che rischiano di soffocare in mezzo ai bollettini, ai resoconti dei morti, alla conta degli eserciti e degli armamenti. Non a caso oggi fioriscono i blog dei giornalisti. Perché in questo modo si è più vicini ai lettori, perché il racconto si libera dai bavagli dei “poteri” editoriali e, più leggero, è in grado si sostenere meglio il carico di morte e dolore che pesa su ogni paese incendiato dalle battaglie.
Nel blog la cronaca fornisce dati in tempo reale e li mette in Rete nel mondo ( battendo spesso, in rapidità, perfino le agenzie di stampa internazionali), ma apre anche spazi per altre parole, per racconti che forse non vedremo mai seduti davanti ai televisori del nostro comodo salottino occidentale, a sgranocchiare patatine mentre il servizio sul kamikaze palestinese mostra brandelli di corpi ammassati al centro di un mercato. Racconti che forse non leggeremo mai nei giornali comunque condizionati dalle linee editoriali, malgrado gli sforzi di mantenere la libertà di dire e di scrivere. Una guerra è una guerra, e tuttavia perfino i morti, che dovrebbero essere oggettivati da una numerazione matematica al di là di ogni arbitrio, soggiacciono ai brogli politici e alle pressioni “sindacali” dei protagonisti di turno. E sopra ogni numero, ogni morto, è appesa una storia trafitta dalla lancia di Ares. Ecco, il recupero di quelle storie è oggi affidato anche alle nuove tecnologie, alle fonti di informazione e narrazione rappresentate non solo dai giornalisti ma dai cittadini che vogliono “raccontare” con i blog, i video improvvisati (come quelli che mostrarono, l’11 settembre, il crollo delle due torri), le email.
La guerra è racconto, è tensione infinita, è bilico sul vuoto, sospensione fra due mondi possibili.
Ognuno la narra a modo suo. Nella letteratura, nel cinema, nell’arte.
Può essere rappresentazione cruda, diretta. Difficile dimenticare le scene di Platoon oppure della Lista di Schindler. Oppure può virare sul simbolo, capace però di essere altrettanto spietato. La Guernica di Picasso turba, disarma, incanta nella sua dinamica scomposta di corpi dolenti. Trafigge gli occhi di chi guarda.
La guerra è il cuore di tenebra dell’umanità. Il suo racconto non è solo moto di rappresentazione, dovere “di cronaca”. E’ anche tensione misteriosa verso quel luogo in cui Ares frattura le ossa della speranza, quel luogo in cui dormono i sogni di pace, quel luogo in cui l’Ombra ci ricorda che nel grande racconto del mondo non si evade dalla battaglia, dall’odio verso un nemico, dalla conquista brutale di qualcosa e qualcuno.
Non c’è vita senza conflitto. Senza attrito. Accettarlo è difficilissimo. Possiamo solo provare a diradare l’Ombra trovando una radura in cui trovare riposo prima e dopo ogni battaglia.
Già, perché nei racconti di guerra non ci sono le guerre ufficiali ma anche le microguerre quotidiane, quelle che assaltano il nostro vivere di cittadini.
Un condominio è un esercito bellico in piccola scala. Nelle riunioni i trattati di pace vengono sempre violati. Invocare la fine delle guerre nel mondo sembra così assurdo, così ridicolo, davanti all’evidenza della nostra incapacità di trovare un accordo fra venti persone. La striscia di Gaza in queste riunioni viene sempre invasa, spostata. Così come accade al lavoro. Oppure in mezzo alla strada., nel traffico, dove il casco somiglia all’elmetto che ci protegge dalle aggressioni barbariche, dove l’auto diventa il carro armato su cui procediamo.
Anche queste guerre vanno narrate. Meno epiche di quelle “imponenti”, sono comunque la riproduzione e la copia di ciò che accade nel mondo, nelle guerre “istituzionali”.
In fondo, il mondo è un gioco continuo di specchi e rimandi.
Achille sfida Ettore, gli Achei avanzano verso i Troiani.
Ogni uomo davanti a un altro, ogni esercito che si fronteggia, incarna l’eterno principio di Ares.
Sul campo si sono schierati, dall’aurora del tempo, princìpi vari che hanno visto sfilare, spesso mescolandosi, l’eroismo e la convenienza, la difesa e la sete di gloria, il coraggio e la vigliaccheria, la verità e la menzogna.
Sempre, però, a bordo campo, Ares impugna la sua lancia.
Non morirà mai. Vedrà invece eserciti farsi cadaveri.
Non si può uccidere Ares. Non ha un tallone vulnerabile come quello di Achille, la sua emanazione terrena.
Si può solo sperare che Afrodite intervenga. E che ne apra il pugno rovesciando sulla polvere l’ansia bellica, la voluttà aggressiva che non conosce battute d’arresto. Solo così Ares si placa.
E anche questo, in fondo, è un racconto.
TI RICORDI DI UN CAMPO DI GRANO?
Non so se mi ricordo di un campo di grano attraversato insieme a un amore concluso. Non so, caro Lucio. Non mi ricordo.
Di certo mi ricordo – e bene – la stronzata appena esibita dall’ennesima, deprimente puntata di Voyager. (Ho dovuto spegnere la televisione, a un certo punto).
Stavolta il nostro Roberto Giacobbo, Sherlock Holmes dagli interrogativi inquieti e dalle risposte sornione, a metà fra Lapalisse e Gigi Marzullo (con il quale condivide la stessa espressione sagace), "esplora" gli Ufo e i famosi cerchi di grano.
Come sempre, le sue "inchieste" si fermano sempre in superficie, al riparo sotto l’ombrello di riprese suggestive e delle musichette alla Dario Argento che coprono il vuoto assurdo delle argomentazioni, dei lavori di scavo (sempre interrotti dopo una manciatina di minuti).
Con imbarazzante disinvoltura, Giacobbo ogni volta dà prova del suo risicato quoziente di intelligenza, della sua magistrale approssimazione che propina misteri in salsa New Age e domandone figlie delle interrogazioni e delle risposte di Quelo ("c’è crisi, c’è grande crisi, non sappiamo dove stiamo andiamo").
Già già. Bisogna avere pazienza.
E’ l’era della scienza fai da te, dei documentari-pidocchio che in cinque minuti liquidano alieni e buchi neri, Excalibur e la stella di Venere.
E il bello è che ha una corte di coglioni che lo seguono tutti contenti.
Stasera, dicevamo, per mostrarci l’evidenza degli alieni è addirittura ricorso a un tizio, un presunto esperto di ufo e scrittore (ogni esperto di qualcosa oggi è sempre e comunque anche uno scrittore), che comincia a passare in rassegna una serie di dipinti seicenteschi in cui, a suo avviso, sarebbero rappresentati degli Ufo.
E così un coro angelico, nel cielo, diventa una navicella spaziale solo perché la forma ovale e la luminescenza che la circonda ricordano questo tipo di forma.
Ma ecco che anche le nuvole, smascherate da questo genio di Alien, rivelano la loro intima, vera realtà: di nuovo, sono navicelle spaziali.
E ancora, toh, c’è perfino una sfera rotonda (che nel dipinto rappresenta l’universo, elemento tradizionale in molte raffigurazioni sacrali del tempo) che sarebbe in realtà uno Sputnik.
Giacobbe gongola.
Vabbè. Purtroppo la smania tutta moderna di voler rendere scientifico anche il mistero (un Ufo fa comunque meno paura di un altro tipo…di Rivelazione) stavolta l’ha fatta grossa.
Ha superato i confini. Non quelli terrestri. Quelli della decenza.
Adesso ogni quadro sacro che rappresenta soli, universi, nuvole e cori di angeli (tutti ovviamente accomunati da forme ovali e sferiche) rischia di essere passato al setaccio dagli occhi inquisitori di questi Torquemada a caccia di marziani.
La cosa è talmente ridicola da far passare in secondo piano la faccia comica di Giacobbe che, in mezzo ai campi di grano, sciorina teorie della lunghezza di un nanosecondo.
Chi sarà stato? Chi?
E che nesso ci sarà tra il campo di grano e il coro angelico? Forse la seconda che hai detto? Mah…
L’unico vero Ufo, qui, l’unico oggetto non identificato, è lui. E’ Roberto Giacobbe.
Scusa, Roberto, perché non punti il dito verso le stelle e dici «Et telefono casa?»
Guarda che dalla Rai ti fanno telefonare…
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