Sono venuta al mondo nuda, ma colpi di pennello mi coprono, il linguaggio mi eleva, la musica mi dà un ritmo. L’arte è il mio bastone e il mio sostegno, il mio rifugio e il mio scudo, e non solo il mio, perché l’arte non esclude nessuno. E coloro che sono stati privati dell’arte dalla tirannia o dalla povertà ricominciano a produrla. Se l’arte non esistesse, ci sarebbe sempre qualcuno che la creerebbe, nelle parole di una canzone, estraendola dalla polvere e dal fango, e anche se il manufatto potrebbe essere distrutto, l’energia che l’hao prodotto resiste a ogni distruzione. Se, nell’agiato Occidente, abbiamo scelto di considerare queste energie con scetticismo e disprezzo, allora tanto peggio per noi. L’arte non è un frammento di evoluzione di cui i cittadini nel Novecento possono fare a meno. In senso stretto, l’arte non appartiene al nostro modello evolutivo. Non ha una necessità biologica. Il tempo dedicato all’arte era tempo sottratto alla caccia, agli incontri, all’accoppiamento, all’esplorazione, alla costruzione, alla sopravvivenza, all’arricchimento. Se diciamo che l’arte, tutta l’arte, non ha più rilevanza per le nostre vite, allora potremmo perlomeno porci la domanda "Che cosa è successo alle nostre vite?". la domanda consueta "Che cosa è successo all’arte?" rappresenta una via di fuga troppo facile.
Io non sono fuggita. Seduta in una galleria di Amsterdam, sono scoppiata a piangere.
(Jeanette Winterson, L’arte dissente)
Che cosa è successo alle nostre vite?
La domanda bruciante che in L’arte dissenteJeanette Winterson fa a me, a voi, a noi tutti, in questo saggio che rappresenta una difesa appassionata dell’arte merita una riflessione.
Non avere più tempo, oggi, significa anche alimentare la frattura fra l’ignoranza e l’educazione dell’anima, educazione che ha bisogno di parole, di suoni, di immagini e di colori.
Perché l’arte ti inchioda ai suoi significati, ti impone domande dalle quali è difficile evadere.
Come quando leggiamo un libro oppure vediamo un film, e concludiamo sbrigativamente la faccenda dicendo "Mi piace".
Non basta. All’arte questa risposta non basta.
Perché mi piace? Cosa mi dice di me? O del suo autore? In quale luogo sottile e impalpabile io e lui ci intercettiamo? O magari ci allontaniamo per sempre?
Non si tratta di trovare didascalie, di fare "accademia".
Qui la forza vitale è estensione della capacità di volare in quegli spazi che sono stupore e vertigine. L’Io consueto si frammenta, smarrisce le sue coordinate, vive di affinità elettive.
Bisogna cercare. Sempre. L’arte è scavo, riflessione. Ci chiede di impegnare cuore e cervello.
Faticosa, insaziabile, selvaggia come un’amante lontana, l’arte richiede il coraggio di misurare il perimetro della nostra condizione così frastagliata, così ricca di pieni e di vuoti, di materia e di soffio spirituale.
Non avere tempo per l’arte significa vivere la maleducazione del nostro mondo moderno.
Eppure l’arte è così semplice, e per questo così difficile.
Non vuole essere oggetto di vani pettegolezzi o sfoggi di erudizione, come nel famoso salotto dei Verdurin di proustiana memoria.
Vuole solo essere conosciuta. E amata. Oppure odiata.
Ma per conoscerla bisogna sedersi, aspettare, ascoltare le sensazioni senza tradurle subito in parole.
Piano piano, senza fretta.
L’arte è scintilla del genio, è ardore di fiamma che brucia e consuma.
Ma se quella fiamma non serve a incendiare nessuno, allora rischiamo di perderci nel buio della nostra ignoranza.