IL NOME DELLA ROSA
"Oh, sii qualche altro nome! – implora la Giulietta di Shakespeare rivolgendosi al suo Romeo – Che cosa c’è in un nome? Quel che noi chiamiamo col nome di rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe sempre lo stesso dolce profumo".
Già. Le "cose" non cambiano cambiando i nomi. Perché allora oggi, affetti da quel buonismo che ci fa sembrare tanti Babbi Natali ambulanti (salvo poi veder emergere, implacabile, la nostra vera natura), diamo nomi diversi alle cose?
Gli omosessuali sono diventati "gay" (così lo spauracchio passa in un battibaleno)
Le donne delle pulizie sono diventate collaboratrici domestici.
I mondezzari sono adesso operatori ecologici.
Solo i lavavetri, poveracci, rimangono soltanto dei lavavetri…
Magari, però, troveremo un nome anche per loro. Che ne so, magari "pronto soccorso semaforico". Oppure "collaboratori per auto".
Non vi piace?
"Infermieri per quattro ruote", allora.
Comunque, "maeilio cambiave no"? Anche se non ci divertiamo a fare spot ammiccanti come la Hilton.
La sensazione è quella di uno sdoganamento linguistico che non corrisponde, però, a una modifica reale negli atteggiamenti. Non per tutti almeno.
Però ci fa sentire più buoni. Più tolleranti. Più civili.
Come no, basta girare un giorno in una metropoli per rendersene conto.
Collaboratrici domestiche sballottate di qua e di là in attesa di un permesso di soggiorno e un mercato meno nero. Tra l’altro bisogna vedere che razza di preferisce.
Meglio le filippine, che ci confortano perchè sono state le prime a sbarcare in Italia sostituendo i nostri camerieri e domestici che avevano voglia di fare altri lavori?
Oppure le brasiliane? Ma se mi capita un travestito??
Niente paura, le rumene sono bravissime, femmine al cento per cento. Peccato che potresti trovarti in casa il marito che ti svaligia l’appartamento.
Discorsi assurdi? Eppure, eppure alcuni li fanno.
Una mia parente che, guarda caso, abitava all’Olgiata (una delle zone più richhe e glamour della "Roma da bere"), un giorno d’estate davanti a una bibita annoiata almeno quanto lei mi raccontò dei suoi "collaboratori domestici". "Ma guarda che la prossima volta non prendo più la coppia, eh? Troppi problemi".
Manco si trattasse di due pappagallini. ..
Più che i nomi ( che alla fine, come dice Giulietta, non cambiano mai la sostanza delle cose,) bisognerebbe cambiare la sostanza di un atteggiamento.
Perché un operatore ecologico continuerà purtroppo a odorare di spazzatura, mentre lavora. Però magari se rispettiamo sul serio il suo operato, appunto, ecologico, possiamo smettere le nostre facce truci quando stiamo in fila dietro un camion addetto al recupero della spazzatura (e che invece a volte rischia un linciaggio in-civile).
Meglio ancora se la piantiamo di buttare i rifuti alla rinfusa o, colti da una sindrome napoletana. a lasciarli fuori dai cassonetti.
A volte c’è una casa intera, nei paraggi dei cassonetti. Sedie, phon, tavolacci e perfino i divani.
Occorrerebbe una ditta traslochi.
Ma ora che non sono più mondezzari, ora che sono operatori ecologici, noi siamo buoni sul serio. Noi sì che siamo una vera civiltà aperta e tollerante.
E chissenfrega della raccolta differenziata.
E poi non ci pensano più neanche i radical-chic, che una volta volevano sempre distinguersi…
Quanto ai gay, ora che non sono più finocchi e neanche froci grazie ai nostri esorcismi linguistici possiamo comunque permetterci di schifarci davanti alle manifestazioni dei Dico o di pensare alla Mucca Assassina come a un Sabbath moderno.
Insomma, non basta cambiare un nome per cambiare una realtà o un atteggiamento.
Con i nomi ci si fa poco. Contano i fatti, signori. I fatti.
E il vero "nome", quello autentico, quello che rimanda a un’essenza, è sempre un enigma da attraversare.
Il nome della rosa non modifica il fiore, hai ragione, Giulietta.
Non lo fa diventare un gelsomino né tantomeno un ciuffo d’ortica.
Ma si può perfino andare più in là, là dove i nomi perdono "il suono" e diventano così sottili da vibrare nella coscienza. Quei nomi che scendono dalla nave e si radunano nel bosco, per dirla con Jünger.
Il tuo Romeo, in quel caso, non sarebbe morto.
Ma siamo umani, noi. E abbiamo bisogno dei destini costruiti sui nomi.
Il bello è che non cambiano, quei destini, se li poggiamo solo sulla fragilità del loro nome.
Siamo noi, a dover cambiare.
A dover trovare il vero nome della rosa.
Ma quanto è difficile. Chissà se ci riusciremo mai.
DOMANDE, SOLO DOMANDE
Che differenza c’è tra un bambino (a cinque mesi per me i bambini sono bambini, non feti) sottoposto ad aborto terapeutico perché down, o perché seriamente malformato e dunque costretto a una vita di tubi, respiratori, limitazioni, e un uomo che chiede di morire perché stanco di vivere attaccato alle macchine?
Non sono contraria all’aborto, così come non sono contraria all’eutanasia.
Ma sono sempre incerta, perplessa.
Non ho risposte, né ricette. Ho sempre detestato le ricette, come le marche.
Però sono spietatamente, forsennatamente attaccata alla domanda.
Già, come il Neo di Matrix. Ciò che conta è la domanda.
Ma lo avevano detto molti millenni prima, che era questa la cosa che contava di più. Lo avevano detto gli antichi. Lo avevano perfino scritto all’ingresso del tempio di Apollo, a Delfi. Nosce te ipsum.
Sì, difficilissimo. E come mi conosco? Con la domanda. Anzi, con le domande.
Quelle con cui ci svegliamo al mattino. Quelle che versiamo insieme allo zucchero nel nostro caffè.
Quelle che ci rincorrono durante il giorno, che sgualciscono il momento soave di un intervallo, che graffiano il sorriso, che maturano negli spazi acerbi del nostro inquieto, caotico, irrevocabile divenire.
Domande che ci braccano fiaccando le certezze esposte fresche fresche, come panni stesi al sole, e che sparano il letame nel profumo di bucato.
Sono compagne quotidiane, che invecchiano come un buon vino insieme a noi, centrifugando i nostri pensieri in modo da stanare sempre ogni moto immobile, ogni laghetto mentale sul quale tentiamo di riposare invano certezze improvvisamente sonnambule.
Non hanno famiglia, le domande. Almeno quelle vere, quelle insidiose, nemiche delle superfici, amanti insaziabili dei sotterranei e dei labirinti nei quali rischiamo l’incontro con Ade.
Non hanno famiglia perché, se hanno coraggio, sono orfane di risposte assolute.
Sono queste le domande che ama la Sfinge, queste, quelle accolte da Apollo nel suo Tempio.
Conoscere sè stessi significa conoscere il mondo intero. Ecco perché non sappiamo mai nulla, nè di noi stessi nè di ciò che accade fuori.
Possiamo solo darci risposte. Risposte che nella loro onestà chiedono di poter essere modificate, rivisitate, osservate da infinite sfaccettature, come se fossimo davanti all’Aleph borgesiano.
Il tremore dell’uomo che cammina chiedendosi sempre se la sua risposta non sia un castello immaginario costruito per tacere l’angoscia di un dubbio, frutto di una Morgana ingannevole che addormenta la coscienza, la fa prigioniera, diventa un tarlo costante, ossessivo, che si mangia i giorni scavando quel tunnel in cui precipitano le risposte assolute.
Ogni uomo, in fondo, sa anche che le risposte più autentiche (ma sempre sottoposte al gioco che in futuro può cambiare il numero del dado lanciato) sono quelle in cui è sottoposto al crogiuolo dell’esperienza.
Da quell’attrito nasce la scintilla della nostra risposta reale, non presunta.
Sono contraria alla pena di morte? Benissimo, lo sono, credo che in un paese civile non si debba più usare la legge del taglione che ancora oggi ci insegue, a varie latitudini e longitudini.
Ma se ammazzano mio figlio, che faccio? Se lo violentanto, lo pestano, lo lasciano in agonia per giorni, e notti, e poi ancora giorni, sono davvero certa che la mia risposta sia ancora valida?
Sono certa di non squarciarmi dentro, divisa tra l’umana vendetta e la volontà di essere giusta?
Per una domanda, in realtà, esistono una, cento, mille risposte. Ma è quella affiorata nel momento in cui faccio esperienza diretta con una situazione che corrisponde davvero al mio essere. E non a ciò che penso di essere.
Ecco, ecco perché non so che dire davanti agli aborti, terapeutici o meno. Non so che dire paragonandoli a un’altra interruzione di vita, invece negata.
Perché un’interruzione sì? Perché l’altra no, non è concessa?
E di ognuna di queste risposte diverse, cosa dire? Cosa pensare? Sono certa che il mio atteggiamento non sia disposto a cambiare radicalmente se solo venissi toccata, anche solo appena sfiorata, in prima persona?
Questa è solo una delle mille, cento domande che ci facciamo ogni giorno. Che si fanno, almeno, quelli di noi che provano a interrogarsi sul destino delle cose del mondo, o dei mondi. Che poi è anche il nostro stesso destino. Perché forse fra "dentro" e "fuori" non c’è distinzione, come qualcuno ha provato a insegnarci.
Ci stiamo infilati con tutte le scarpe, in queste domande. Ogni moto dell’anima, ogni fatto che come un’onda appare, spumeggia e muore, scivola via da ogni risacca e scorre insieme all’oceano per trovare il giusto varco del tempio di Apollo. Per lambire le zampe della Sfinge che coagula ogni domanda possibile in una sola domanda, per poi far scomparire anche quella.
Sfiorare il giardino di risposta per poi trovare l’antro di un nuovo quesito, un nuovo dubbio che mina la risposta trovata fa di noi, forse, uomini e donne che cercano davvero.
Non sono moltissimi, forse. Ma ci sono. Eccome se ci sono.
E quando si incontrano, si riconoscono. Per fortuna si riconoscono.
CUORE DI MUCCA
Diciamocelo subito. Davanti a una bistecca succulenta ti viene proprio l’acquolina in bocca. Specie se si tratta di una bella fiorentina, fatta alla brace, con i pezzetti di sale grosso che incrociano la lingua e salutano il gusto.
Chi scrive ne mangia, di carne. Ne mangia eccome.
Però capita anche che ti accorgi di considerare – per tuo comodo – solamente il pezzo di carne disteso sul piatto, chiamandolo bistecca, lombata, fettina, costata, ecc.
Già già. Però quella è, a tutti gli effetti, una mucca. Anzi, era.
Una mucca che fino a pochi giorni prima se ne stava in un allevamento, mangiava, dormiva.
O magari si tratta di un vitellino, o un maiale, un’anatra, un pollo.
La sostanza non cambia.
Alcuni di noi tendono a non considerare la provenienza del pezzo di carne che stanno mangiando, condito magari con salsine speciali, imbottito di verdurine e formaggi.
Perché a volte, se ci pensi, ti passa davvero la voglia.
Il piatto della tua tavola è solo la destinazione finale di un cadavere fatto a pezzi, in avanzato stato di decomposizione.
Composto infatti da putrescina, cadaverina e altre sostanze. Non solo da proteine, dunque, come ci piace pensare per "farci buon sangue".
Mangiare cadaveri. Mmm, non suona bene.
Mangiare un filetto al profumo di Grand Marnier adagiato su un letto di lattughino e funghi porcini, invece suona benissimo. Fa un figurone.
E, soprattutto, ci fa dimenticare che quella ciccia era appartenuta a un animale, che nella maggior parte dei casi è vissuto al chiuso, in un allevamento, perimetrato da pochi metri quadrati in cui muoversi, ingozzato di cibo e di ormoni, finché un giorno non è stato issato su un camion insieme ai suoi compagni, trasportato in un mattatoio e macellato.
Dicono che durante questa processione mortale gli animali si rendono conto di ciò che sta accadendo, perché il terrore si trasmette da corpo a corpo, trasformando la mandria da macellare in un’onda di terrore diffuso. Le prime file crollano, abbattute, mentre chi sta dietro comincia a urlare, a sbarrare gli occhi perché capisce, capisce che sta per essere ucciso.
Io la mangio, la carne. Lo ripeto. Perché? Perché sono egoista, vigliacca. Perché penso alla bistecca e non al suo proprietario. Perché altrimenti vivrei solo di pasta e pizza. Perché i legumi mi gonfiano e i dottori dicono che invece le proteine sono essenziali.
Però c’è un libro, che non ho avuto il coraggio di leggere, che consiglio ai più duri di stomaco (o ai vegetariani): Il maiale che cantava alla luna, in cui uno studio dimostra la vita emotiva degli animali da fattoria.
Non ho letto questo libro, ma ho ascoltato la storia di un mio cugino che ha un agriturismo nel Lazio.
Mi ha raccontato del giorno in cui il camion del mattatoio venne a prendere Bianchina, una delle mucche che allevavano. Stava nel prato, Bianchina, e quando ha visto il camion è impazzita dalla paura, ha iniziato a dare cornate su un albero, come se sapesse di non avere più scampo. Continuava a picchiare la testa sul tronco.
I suoi occhi si sono conficcati come due spilli in quelli di mio cugino. Le pupille sbarrate, muggiva disperata.
Ci sono voluti quattro uomini e un’ora di tempo per eseguire la deportazione. Quando se n’è andata, mio cugino è stato attraversato da un brivido.
Si consolava dicendosi che da loro le mucche vivono bene fino alla fine, pascolano sui prati (che non saranno la pampa argentina, ma sono pur sempre spazi aperti, invidiati dagli altri animali costretti a vivere al chiuso finché non li fanno fuori).
Aveva tenuto una foto di Bianchina, comunque. Me l’ha mostrata. Gli occhi di Bianchina mi fissavano dal cellulare, ho inclinato la testa, impacciata.
Sì, ci fa comodo non pensare che ciò che mangiamo era vivo, prima, e che magari addirittura aveva emozioni e sentimenti, come le ricerche recenti stanno arrivando a dimostrare.
E ci fa comodo ignorare la vita penosa di questi animali.
Lo faccio anche io. Perché se mi fermo a riflettere, se penso a Bianchina e a tutti gli altri animali, allora non tocco più un pezzo di carne. E finora non ho trovato alternative alimentari che vadano bene.
Però penso spesso agli indiani, a quando ringraziavano il bisonte ucciso. Consapevoli che stava avvenendo un sacrificio. Perché la vita è offerta, perché la vita chiede altra vita per so proseguire. Ma almeno rendevano grazie, loro.
Consideravano sacra quella uccisione, onoravano la bestia immolata.
E noi, che siamo così "civili" e "moderni"?
Noi, che facciamo?
FOGLIE DI PRIMAVERA
Si sta come d’autunno
sugli alberi
le foglie
Mi è capitato di commuovermi come una scema guardando una fiction.
Anche se questa fiction ha i difetti di tutte le fiction, in cui i buoni sono buonissimi e i cattivi cattivissimi. Non funziona così il mondo, va bene, lo so, lo so, per carità. Mancano le sfaccettature, nella fiction, che non ti permettono mai, se scavi davvero a fondo nell’esistenza, di vedere il nero da una parte e il bianco dall’altra, senza quei grigi e quei miscugli cromatici che fanno la vita "reale" e non immaginata.
Sì, lo so. Nassirya – per non dimenticare è un film per la tv che però, a differenza di Beautiful e dei nostri medici in famiglia e negli ospedali (sembriamo un paese di soli malati, a giudicare dai camici bianchi che razzolano nei nostri schermi), racconta una storia vera. E se poi, che diamine, ci inserisce i trucchi televisivi, fa niente. Davvero.
Un po’ di etica, di enfasi, di retorica si perdona facilmente. Come la marachella di un bimbo.
Certo, quegli italiani guidati da Raoul Bova (lui sì, con una faccia da bello che rende ancora più drammatica la sua morte, che ne siamo coscienti o meno) sono solo buoni, solo eroi, solo convinti di aiutare il popolo nella sua traversata in direzione della democrazia. E invece sai, e lo sai, che nella realtà, proprio perché erano uomini, anche i caduti di Nassirya avevano i loro difetti.
Lo sai che erano anche stronzi. Lo sai che non forse sempre avevano aiutato gli iracheni ma erano stati a volte anche bruschi (perché il caldo, la guerra, l’allarme continuo tende l’anima, la secca al sole, anche se solo per qualche istante). Lo sai che potevano avere i loro momenti grossolani, le loro vigliaccherie, le loro paure. E magari perfino i loro razzismi, perché no. Lo sai. Erano uomini.
Ma se la fiction ingentilisce le figure, se la morte trasfigura i difetti avvicinandoci al volto di Dio, è anche vero che quegli uomini, sì quegli uomini, erano innanzitutto tante storie, tanti racconti.
Racconti interrotti quel 12 novembre 2003.
E ti viene da pensare a quei coglioni che urlano "Dieci, cento, mille Nassirya" in un arcobaleno di idiozia al quale non manca davvero nessun colore.
Ecco, il film mostra innanzitutto le storie. Le mostra con le iperboli della finzione, lo ripeto, ma parte dalla realtà. E chissenefrega se le esigenze di copione chiedono qualche eroismo in più, e qualche ombra in meno.
Fatto sta che ogni soldato morto è un uomo. Un uomo che a casa ha una moglie che ha paura di una telefonata notturna, un figlio che agli amichetti dice "papà lontano, papà partito". Un uomo che ha un padre, una madre. E cugini. E amici.
Ogni foglia caduta in primavera (perché quando muori senza invecchiare non sei una foglia che cade in autunno, così come dovrebbe essere) rende il bosco della vita meno verde. Gli ruba il colore della speranza. Violenta la radice dell’albero.
Un soldato è un fatto politico, per la maggior parte delle persone. Invece no. E’ un uomo. Un uomo. Solo un uomo.
I suoi confini non si esauriscono nella divisa, le sue mani non toccano solo la polvere dei giorni di guerra, non compiono l’arco meraviglioso di una carezza soltanto per finire sul dorso di un fucile.
Ma il soldato diventa oggetto di schieramenti, di manifestazioni, di schieramenti politici. Esaltato o denigrato, eroe o assassino, finisce sempre per rimanere incastrato nella bandiera della sua patria. Per quanto onorevole, e bello, e dignitoso possa essere, dobbiamo ricordarci che è molto di più. La sua vita è molto di più.
A volte mi viene voglia di ricordare non i soldati caduti, ma i civili spezzati. Quei civili aggrappati alla divisa, ormai vuota, del loro caro riconsegnato in una scatola di alluminio (non tiene caldo, la bandiera che ci appoggiano sopra, e non cuce i giorni strappati). E mi viene voglia di ricordare ogni civile che vive dentro e dietro il soldato, e che la sera, al buio, si interroga sull’onore e il servizio, si chiede se valgano il sorriso di un figlio. E poi magari ricomincia, la mattina. Ma ogni notte, ne sono certa, torna a essere un uomo. Che ha bisogno delle braccia della sua donna avvitate intorno al torace, del respiro tranquillo del bimbo, profondo, fiducioso e sereno come solo quello dei bambini nel sonno sa essere, di quella rompiscatole della madre che la mattina chiama sul cellulare e domanda: "Allora, quando venite a pranzo da noi? Hai preso la sciarpa? Guarda che oggi fa freddo".
Dieci, cento, mille Nassirya?
Imbecilli.
C’è un momento molto bello, nel film, che restituisce un bagliore di umanità anche alla figura dei kamikaze. Gente che si fa saltare per aria in cambio di un sedile in prima fila e una manciata di vergini nel paradiso di Allah. Nell’immaginario occidentale il kamikaze è sempre e solo sicuro di sé, felice di rinunciare alla vita.
Be’, l’immagine dell’uomo che trema davanti alla sua scelta, esitando, vibrando di fragilità nella sua carne mentre subisce l’abluzione dei Puri prima del sacrificio, e che mentre guida il camion pieno di tritolo verso la base italiana ha gli occhi attraversati dall’imbarazzo della paura, ci ricorda che magari non è mai facile scegliere di morire. Neanche per Dio.
Io non vorrei che cadesse nessuna foglia, a primavera. In nessun luogo del mondo. Nè fra i soldati nè fra i civili.
Invece continuano a cadere, quelle foglie. Non riescono a vedere l’autunno.
MOMENTI D’ANIMA
Tiziano Terzani
Invece la prima notte in quel villaggio in India – cullato dal mormorio delle voci, gli occhi pieni di stelle – quando il padre di un altro uomo mi posò una ruvida e callosa mano da contadino su una spalla, compresi ciò che avevo fatto e ciò che ero diventato, fui consapevole della pena e dello spreco, lo stupido, imperdonabile spreco della mia vita. Mi si spezzò il cuore per la vergogna e il dolore. Seppi quanta sofferenza era in me e quanto poco amore. Alla fine seppi quanto ero solo.
Ma non potevo reagiore. La mia cultura mi aveva insegnato bene le cose sbagliate. Perciò rimasi immobile, senza la minima reazione. Ma l’anima non ha cultura, non ha nazione. L’anima non ha colore, accento, stile di vita. L’anima è per sempre. L’anima è una. E quando il cuore prova un momento di verità e dolore, l’anima non sa restare immobile.
Strinsi i denti sotto le stelle. Chiusi gli occhi. Mi abbandonai al sonno. Uno dei motivi per cui abbiamo un terrIbile bisogno d’amore, e lo cerchiamo disperatamente, è perché l’amore è l’unica cura per la solituduine, la vergogna e la sofferenza, Ma alcuni sentimenti si nascondono così profondamente nel cuore che solo la solitudine può aiutarti a ritrovarli. Alcune verità sono così dolorose che solo la vergogna può aiutarti a sopportarle. E alcune circostanze sono così tristi che solo la tua anima può riuscire a urlare di dolore.
(Gregory David Roberts, Shantaram)
Shantaram è la storia di un cambiamento, di un’urgenza dell’anima che dopo una vita di fuga trova senso e riconciliazione nell’umanità dolente, misteriosa e ricca di contraddizioni di un’India avara di regali a chi non sia disposto "a lasciarsi vincere" per penetrarne i segreti.
Non è l’India dei turisti, dunque.
Quegli stessi turisti criticati da Terzani, un altro grande viaggiatore nei mutamenti, uno spostatore di confini, sempre alla ricerca di quel luogo profondo in cui l’essere ritrova la sua identità: "Perchè in Asia, quando un vecchio si vede puntare addosso una macchina fotografica, si volta, resiste, cerca di nascondersi, si copre la faccia? Lo fa perché pensa che quella macchina gli porti via qualcosa di suo, qualcosa di prezioso che non può ritrovare. E non ha forse ragione? Non è anche nell’usura di decine di migliaia di foto, scattate da turisti distratti, che le nostre chiese hanno perso la loro sacralità, che i nostri monumenti hanno perso la loro patina di grandezza"?
A proposito di Terzani, trasformato suo malgrado in un’icona dalla quale sarebbe volentieri sceso, se la stessa riflessione sulle foto che corrompono "l’anima" delle chiese fosse stata fatta magari da un altro, la parte laica della società avrebbe gridato allo scandalo.
Non vado in chiesa, non sono cattolica (semmai mi affascina il protocristianesimo), però non riesco a non pensare che in quel caso si sarebbero infiammate le proteste di chi avrebbe reagito additando il malcapitato come un nocivo conservatore, un reazionario, un nemico del progresso.
Un piccolo, amletico pensierino in calce a un post "buono" ma non "buonista".
LETTERA A UN BAMBINO NATO
Sto male, sai?
Sto male da quando ho saputo.
Ti hanno ammazzato. E adesso stanno lì, a dire che si trattava di “aborto terapeutico”, a sdoganarsi l’anima e salvare il deretano.
Intanto un aborto non è mai “terapeutico”. Terapeutico per chi? Per cosa? Andiamo, ma fatemi il piacere. Al Careggi non hanno di meglio da dire?
Avevi venti settimane. Cinque mesi. C’erano già le manine, i piedini, la testa.
Ti dondolavi felice, cullato da quel mare di vita in cui galleggiava il tepore del ventre che ti custodiva.
E invece all’improvviso ti hanno strappato via, hanno aperto il tuo nido e come predatori si sono avventati su di te, povero uccellino innocente precipitato dall’albero della vita.
Ma tu non volevi morire. E per sei giorni sei stato in agonia, mentre la tua mamma, distrutta, scopriva che la malformazione che i medici ti avevano diagnosticato non esisteva.
Già. Eri sano. Eri un bambino sano. Ma due ecografie ti avevano condannato a morte. La tua mamma e il tuo papà si erano convinti che non avresti potuto vivere dopo le informazioni terribili che avevano ricevuto. Informazioni sbagliate.
Sei stato per giorni appeso al filo di una vita che hai appena mozzicato, attaccandotici stretto stretto, con quei dentini che ancora non avevi, con quelle braccia ancora troppo fragili, interrotte nella loro crescita da una sentenza sbagliata.
Invece del seno di tua madre hai trovato tante mani estranee che ti hanno frugato, infilato nell’incubatrice, attaccato ai tubi. Se avessi potuto parlare, oh sì, se avessi potuto parlare avresti potuto dire a quegli stronzi cosa pensavi.
Cosa pensavi? Cosa sentivi? Ti immagino lì, nudo, condannato a morire. Come quelle aragoste che si muovono fra il ghiaccio delle vetrine-frigorifero, quelle che stanno all’ingresso dei ristoranti, esposte al viavai dei clienti. C’era tanto traffico, immagino, intorno a te.
Sperano di farcela, le aragoste, ma sono già morte, andate. E in qualche modo ho sempre pensato che loro lo sanno. Ho sempre pensato che esiste qualcosa, nelle creature viventi (e intendo ogni creatura, anche un animale), che sfugge ai nostri studi e alle nostre supposizioni. Sì, chiamala pure l’anima.
E la tua anima? Deve avere sofferto per la mancanza di quell’amore che tua mamma non ha potuto darti perché i medici le avevano detto che eri “da buttare”.
Sai, è strano, oggi parliamo di progresso, di civiltà. Lodiamo la nostra evoluzione che ha scongiurato la violenza dei tempi antichi, così grezzi, cruenti. Ci scandalizziamo perché a Sparta si buttavano giù i bambini da una rupe.
E adesso? Adesso possiamo intervenire prima, grazie alle nostre tecnologie. Se i bimbi sono difettosi lo sappiamo da subito. Non c’ è mica bisogno di buttarli giù da una rupe.
Possiamo farli ruzzolare giù dal ventre della madre prima ancora che nascano. Bella civiltà, bella sorte “magnifica e progressiva”.
Sai una cosa? Mi fa schifo. Tutto questo mi fa schifo. Mi annichilisce.
Chissà, forse sei stato fortunato…Perché questo mondo, così, non è bello per niente. Ma quando si ammazza un bambino dicendo che si tratta di “aborto terapeutico” mi viene voglia di urlare, di vomitare. Supero quel limite di tolleranza che mi porto dietro ogni giorno.
Forse sei stato fortunato. Non vedrai un mondo in cui i medici si sono sostituiti a Dio. Non vedrai la società dei perfetti che spinge le ragazze all’anoressia, che si accanisce "terapeuticamente" su vecchietti che devono per forza essere strappati alla morte (perché non si deve invecchiare e morire, nella nostra progredita, bella, amata, moderna civiltà). Non vedrai, beato te, le mamme e i papà scegliere i loro figli su un catalogo, non li vedrai decidere il colore dei capelli e degli occhi, l’altezza, il quoziente di intelligenza…
Sì, perché fra qualche anno ognuno potrà finalmente avere il suo “bambino perfetto”, confezionato su misura, come una camicia.
Be’, ti racconto una cosa.
Una mia amica, che ha un figlio con la sindrome di Down, una sera d’estate, con le lacrime agli occhi, mi ha detto che il suo bambino era un messaggero del Cielo, che le faceva vedere cose che altrimenti non avrebbe mai visto.
Ecco, mi viene da piangere. Di nuovo. Come ieri sera, quando ho saputo della tua morte, quando i medici invece di vergognarsi si sono giustificati.
Certo che gli hai fatto un bello scherzetto. Bravo. Sei diventato un aborto vivente. Se fossi morto, sarebbe stato tutto più semplice. Magari non si sarebbero neanche accorti che eri sanissimo, ti avrebbero estratto, infilato distrattamente in un barattolino pieno di liquido puzzolente che avrebbe coperto il tuo odore di cielo. E invece il tuo odore di cielo si è sentito per bene, si è diffuso nelle stanze degli ospedali, ha varcato la porta del Careggi e si è spinto più in là, e poi più in là ancora. È arrivato perfino a me.
Non morivi come previsto. E questo ha complicato le cose. E te ne stavi lì, abbastanza formato per respirare, lottare e soffrire. Ma non abbastanza per farcela.
La tua mamma sta malissimo, lo sai. Non so se la sua ferita si cucirà mai. Lo strappo è troppo forte. Si sente in colpa. Ma, vedi, lei ha scelto in base alle pressioni dei medici, pensando di evitarti una vita di sofferenza. Poteva anche decidere di portare avanti la gravidanza, salvandoti.
E questa scelta mancata sarà la croce che ogni giorno innalzerà sul suo Golgotha. E lì, con le mani e i piedi infilzati dai chiodi, il costato trafitto dalla lancia della memoria, cercherà di non pensare più per sopravvivere.
In fondo lei ha contribuito al tuo omicidio. Non ha fermato quei sacerdoti in camice bianco che decidevano della tua morte. Ma ti voleva bene, la tua mamma. E avrà bisogno di un pezzettino di cielo, da lassù, per trovare la forza di andare avanti. Ti ha visto passare dalla sua culla al tavolo dell’ospedale. Mezzo vivo. Mezzo morto. Una creatura mostruosa che ricordava a tutti che non si può decidere con tanta disinvoltura del destino degli innocenti.
Non ce l’ho con lei (si odia già tanto da sola, è stata complice del tuo omicidio) ma forse bisognava insistere di più, sentire altri pareri…Certo, è difficile esprimere giudizi: oggi siamo tutti convinti che i medici siano dei “sapienti” perché ci hanno convinto che sono loro a conoscere il mistero della vita e della morte.
Malgrado gli episodi orrendi che ogni giorno accadono negli ospedali, continuiamo a credere che abbiano in mano “la verità”. La nostra cultura moderna ci ha convinto di questo.
Così la tua mamma, forse, si è fidata troppo. Lo pagherà per tutta la vita. Sai che se penso a lei mi viene la pelle d’oca?
Ma non riesco a non pensare a te, prima di tutto.
Perché sei un bambino nato. Un bambino che ci ha fatto un grande regalo. Ci ha ricordato la nostra infinita miseria. Ci ha sbattuto in faccia la fallibilità. La presunzione.
Sai, piccolino, quaggiù le cose si mettono sempre peggio. Davvero, non lo dico per consolarti, ma ti è stato risparmiato un futuro che noi purtroppo vedremo. Il mondo va a rotoli e lasciamo fare. Si inseguono sogni stupidi, patinati, luccicanti come una Porsche appena comprata. Ma la sai una cosa? Avevi il diritto di vederlo, questo schifo di mondo.
Perché accanto c’è anche tanta bellezza.
Ci sono i prati e i tramonti e i mari. C’è il vento sui capelli. Il gattino che ti si accuccia accanto. Una carezza imprevista. La mamma che ti tira su la coperta la sera. La gioia di imparare e cascare, e cascare e imparare. La tazza di caffè con un’amica. Le lacrime per i perduti amori. E la ricerca di un senso. Vivere è difficile ma è tanto bello. E te lo hanno negato.
Per questo non volevi morire, vero? Perché anche se ci sono le guerre, la fame e le malattie non volevi rinunciare al colore dell’acqua d’estate, verso le otto, nel momento magico in cui la luna e il sole si salutano per fare il cambio di guardia davanti ai cancelli del cielo.
Quel cielo che ti trafigge perché all’improvviso è uguale al mare, è tessuto di un azzurro così trasparente che non puoi neanche più nominarlo perché è un non colore che trattiene tutte le tavolozze del mondo (deve essere così, il colore del Paradiso). Non lo vedrai, quel meraviglioso passaggio dal giorno alla sera.
Il tuo crepuscolo è stato diverso, pieno di angoscia e dolore. Però, te lo dico ancora una volta, il tuo scherzetto ci ha messo in ginocchio. Spero lo farà anche con quelle persone che pensano di stabilire i confini tra malattia e sanità, tra feto e bambino, tra vita e morte.
Il tuo destino di scricciolo condannato non passerà liscio nelle nostre coscienze.
Mi dispiace solo che a volte abbiamo bisogno di lezioni tremende per imparare.
La tua vita evanescente, sfumata, in realtà pesa come un macigno.
Ciao, scricciolo. Abbi misericordia di noi.
Francesca
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