CAVALIERI
"Sono un cavaliere – dicevi nella tua mente – in quale modo potrò vivere come un maiale?".
Sai cosa significa cavaliere? É una parola antica, antichissima. Significa servo, ed è giusto che sia così, poiché chi vuole comandare deve imparare venendo comandato".
(Steinbeck, Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri)
Chi frequenta il Mulino lo sa benissimo. Sa che la sua proprietaria adora le saghe arturiane perché non perde occasione per richiamare alla memoria le gesta di Artù, Lancillotto, Merlino…
Al di là delle facili, banali appropriazioni ideologiche (questo libro è di destra, questo di sinistra, e via discorrendo, mentre la letteratura è di tutti, come il pensiero raffinato, sublime, che andrebbe fermato…un istante prima del "marchio"), la saga del Graal è una storia eterna, senza confini e senza tempo.
Ma, soprattutto, si dimostra, come molti miti e leggende, tremendamente attuale.
Soprattutto nell’era del "siamo tutti maestri", del "so tutto io", delle iperspecializzazioni (l’unica area priva di addetti ai lavori rimane quella dell’umiltà), ciò che dice la dama Lynn – c’erano sempre le dame, cioè il femminile, a guidare i cavalieri, i guerrieri, facendoli errare (nel doppio senso della parola) si rivela molto saggio. E il senso della sua frase riflette un concetto troppo spesso dimenticato: chi vuole essere re deve farsi servo.
Essere umili è in realtà un atto di guerra. Di guerra interiore.
Quanto ci costa caro, questo atto, ogni volta che il nostro piccolo, micragnoso e pusillanime Io si ribella per sconfinare, predare, attecchire, proliferare.
Vogliamo tutti "comandare", e mai servire. Fa paura, servire.
Eppure quello è il vero, autentico cavaliere. Non quello blasonato. Nè quello "arrivato", come il Berlusconi di turno.
Un cavaliere errante che percorre un regno interiore. Erra, cioè vaga ma allo stesso tempo sbaglia. Perché se non mi muovo non corro il rischio di sbagliare, mai.
Ma in questa avventura si impara a servire il prossimo, e a servire un Sé nascosto sotto gli stracci, il più volte delle volte (non a caso spesso nelle leggende il vero re si presenta povero, privo di diamanti e blasoni, come lo stesso Artù) a testimoniare che il vero "regno interiore" passa attraverso l’umiltà, il farsi "piccoli", vicini alla terra.
Le parole della dama Lynn non fanno certo piacere. Eppure chiedono di fare una guerra. La più difficile, la più drammatica delle battaglie.
Quella contro il nostro egoismo.
TU BLOGGER, IO JANE…
Sì, per il Time il personaggio dell’anno sei tu. Proprio tu. Dico a te.
E sono io. Insomma siamo tutti "noi", cioè gli abitanti della blogosfera planetaria.
Gli smanettatori di Internet, i drogati da blog, i registi di You Tube, i giornalisti dei podcast, gli opinionisti dei forum…
Certamente una virata interessante, quella della celebre rivista inglese che ogni anno sforna una importante copertina "dedicata a".
Insomma, il 2006 si è chiuso con la celebrazione del web come protagonista.
Sicuramente i dati sul fatturato pubblicitario del 2005-2006 sono più che incoraggianti (internet batte tv 1 a 0), certamente l’era definita Web 2.0, cioè il secondo ciclo di internet, offre un rilancio e un nuovo atteggiamento che sembra aprire orizzonti molto più vasti di quelli annusati nel "Vecchio Testamento" della rete.
Però…
Però qualcosa non fila. Forse.
Questa copertina è troppo gonfiata, troppo enfatica. Sembra un po’ la vecchia locandina con lo zio Sam che tutto felice riciclava i soldati (I want you for the Us army), appesa con disinvoltura nelle case di tanti americani.
O, peggio ancora, il click meccanico dell’occhio del Grande Fratello (quello orwelliano, non la stronzata tv con cui si sbronza la gente).
Ci spieghiamo meglio.
Benissimo per l’importanza riconosciuta al mondo del web, innegabile e benvenuta, perché no? Altrimenti chiuderemmo subito anche la casa del Mulino per costruirne una di mattoni oppure, visti i tempi che circolano, di fango e paglia.
Se siamo qui è perché ci crediamo, nel web. E lo usiamo. Moltissimo.
Però questi eccessi lasciano sempre una perplessità di fondo. "You control the information Age".
Beh, sì. Ma è vero e non vero.
Internet è una smisurata, iperbolica cassa di risonanza: se dico una boiata vengo screditato immediatamente, messo in una pubblica gogna che in pochi secondi fa il giro del mondo, espondendomi, nudo come un verme, alla vergogna.
Sì, verissimo.
I blogger crescono nella blogosfera, contribuiscono anche all’informazione e la influenzano (come nel caso del fotografo licenziato da una famosa agenzia perché un blogger americano riconobbe che aveva "truccato" una foto).
Verissimo, anche questo.
Tuttavia ci riserviamo il diritto allo scetticismo sull’annunciato controllo dell’informazione.
O meglio, ci poniamo il dubbio sull’altro risvolto della medaglia, quello che rende amletico questo Mulino…
Siamo davvero sicuri che ubriacando i navigatori con il "potere" della scrittura e del commento raggiungiamo il controllo dell’informazione?
Ogni volta che una massa è stata convinta di avere qualche potere è stata puntualmente fregata. Basta guardare quello che è successo con il comunismo.
O con le rivoluzioni in cui, alla fine, a condurre sono sempre stati i borghesi, malgrado si sventolasse ogni volta una qualche bandiera proletaria issata dalla coscienza di classe (a partire dalla Rivoluzione Francese).
C’era un volta un tizio, chiamato Pasolini, che lo aveva capito. E che ci manca tanto, davvero tanto.
Ma torniamo alla democrazia proletaria del web.
Ah già, qui siamo liberi, qui non c’è dittatura né verticalità.
Domanda: sicuri?
Perché almeno uno scampolo di dubbio (microscopico, infinitesimale) dovremmo riservarcelo, no?
Così, fosse anche solo per centrifugare un poco il cervello.
Insomma, andiamo, credere davvero che il web sia solo la Terra promessa, Lamerica delle libertà senza poteri è vagamente fanciullesco.
Come ogni altra realtà, invece, miscela delizie e schifezze.
Però l’uomo di internet non è l’Uomo Nuovo, per dirla in breve. Per quello ci vuole più impegno.
Rimaniamo felicissimi dell’uso del web (tanto che chi scrive lo ha integrato nella sua professione facendone una componente essenziale), solo vorremmo che non ci scambiasse, il Time, per farlocconi.
Magari bastava solo l’immagine dello schermo insieme alla prima e all’ultima frase.
E’ che quell’ "You control the information age" risulta davvero antipatico. Posticcio.
Perché chissà, magari ci viene sempre in mente che "la migliore invenzione del demonio è quella di aver fatto credere che non esiste".
A volte capita infatti di sventare facilmente i dilemmi tacciandoli di falsi allarmismi, complottismi, sofisticazioni mentali da criminologia.
E così, invece, noi dubitiamo delle maiuscole, dei grassetti e degli esclamativi.
Preferiamo il vecchio, inquieto punto interrogativo.
Io Cita?
Va bene lo stesso…
SULL’ASSENZA DI POST QUOTIDIANI
La padrona di questo blog non scrive ogni giorno.
C’è però un motivo preciso, oltre al suo tempo…interdentale in cui riesce a stento a cucinarsi un piatto di pasta, almeno in questo periodo.
Il motivo è che il post quotidiano, se da un lato risponde al criterio con cui, nel 1999, sono nati in America i primi blog (web log), esplosi da noi nel 2001, dall’altro rischia di sottrarre spessore alle riflessioni, di sfiancarle senza dare il tempo di "metabolizzare".
Perlomeno in un blog come questo, soggetto a una cronica tentazione giornalistica ma soprattutto al desiderio di riflettere su alcuni argomenti, socio-culturali e non (ne ho parlato nel post precedente).
Non è, insomma, il classico blog monotematico, nè tantomeno un diario personale (dignitosissimo, intendiamoci. Ma non è questo il caso).
La blogosfera è un mondo complesso, affascinante, ricco di scoperte (ma anche di tanta mondezza, sia chiaro).
Oltre all’egosurfing, che rappresenta il vero demone del blogger (e che come tale va tenuto a bada… o al guinzaglio, come facevano le damigelle di Paolo Uccello con i loro draghi), ci sono anche alcuni casi in cui "l’ansia da prestazione di post" rischia di generare effetti spiacevoli.
L’altro giorno, con la mia amica Luisa Carrada, di cui certamente conoscete il bellissimo sito, discutevamo di blog e derivati.
E abbiamo coniato due espressioni piuttosto eloquenti a proposito di alcune varianti sul tema.
Una riguardava i blog collage, ovvero quei blog pieni di pezzettini sparsi, come parmigiano spruzzato su un’amatriciana, senza nessun filo rosso che faccia da guida (come un patchwrok cucito da un ubriacone), l’altra quei blog striminziti pieni solo di frasi un po’ stitiche ma "ad effetto", ovvero i blog bonsai, come li abbiamo ribattezzati.
Fare un blog in realtà è tutt’altro che semplice, specie se ci si affranca dal diario personale e si cercano altre strade, altri contesti, altre scritture.
I post solitamente si scrivono ogni giorno? In teoria sì, anche se in pratica le persone impegnate non postano più di due, tre cose a settimana.
Poi ci sono i blogger di razza, che postano cose interessanti ogni giorno. Ne conosco diversi.
Per gli altri, si rischia di inciampare nella postmania (con danni sulla qualità, per i blogger meno brillanti) mentre dovremmo pensare, forse, di scrivere solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire.
Che faccio io con il mio blog? mi sono chiesta.
Al di là del tempo (solite scuse, a volte) perché non scrivo ogni giorno?
E mi sono trovata una risposta: credo sia importante, in un mondo che corre, fermarsi un po’ su un tema, creando, se possibile, un dialogo intorno all’argomento, che possa arricchire me e i vari avventori della locanda.
Un modo per coniugare le risorse del web, e dei blog in particolare, con l’amore per l’approfondimento e per quella conversazione intelligente che una minuscola community, fatta anche solo di due o tre persone, riesce magari a far fiorire.
Anche solo nello spazio acerbo di un paio di giorni.
Alcuni blogger, qui, ne hanno dato una fulgida prova.
E LE STELLE STANNO A BLOGGARE
Prendo spunto da uno stimolante commento di Marinella (che ringrazio di cuore) sul post Il Mulino di Amleto per fare un po’ il punto del percorso di questo blog.
Il Mulino di Amleto nasce come blog socio-culturale con una grande passione per la letteratura e il mondo del mito.
Tuttavia la padrona di casa fa anche la giornalista ed è sempre divisa tra i suoi due grandi amori: il passato e il presente, la tradizione e la modernità, l’antico e il moderno.
Ne risulta uno schema complesso, faticoso, eppure in questo apparente non-percorso si cela un percorso "diverso", come ha intuito Marinella nel suo commento.
Marinella ha ragione, finora di mito non ho parlato molto, qui al Mulino, ma per un semplice motivo: pensavo di inserirlo piano piano, progressivamente, quasi in sordina, approfittando soprattutto del fatto che il cielo degli dèi, per me, non è mai tramontato, anche se non si palesa o non viene raccontato in modo diretto.
Gli dèi sono lassù, sempre. Sono "forme dell’anima", come dice Campbell.
E sono sempre presenti, perfino se si parla di televisione spazzatura o di giornalismi più o meno efficaci.
Perché ogni uomo è un mito, una storia antica che si ripete. L’ho raccontato nel mio libro La ruota degli dèi, pubblicato presso la piccola ma serissima casa editrice Simmetria con la quale ho l’onore di collaborare.
Di solito non amo farmi pubblicità, ma stavolta credo sia giusto spiegare la matrice di questi percorsi.
Il libro nasce dall’amore per l’astrologia sacra del mondo antico, oggi sabotata e rivenduta da imbonitori d’accatto (due nomi per tutti, Branko e Fox).
Eppure, per gli amanti della Via Lattea intesa come percorso metafisico verso la casa celeste, le stelle sono ancora sentieri, orientamento, metafore.
Fu proprio Il Mulino di Amleto di Santillana a ispirare la chiave di narrazione di questo saggio sul simbolo e i mito astrologico.
Ma il vero cuore del libro di Santillana, a mio avviso, vola sopra il firmamento di storie antiche, di saghe, di astronomie per regalarci un messaggio straordinario: si tratta, nel mondo e nelle epoche, sempre di un’unica sola storia.
Ne viviamo, nei secoli, le varianti sul tema dell’Uno diviso nei Molti.
Parlare dell’imbarbarimento televisivo o alludere all’impiccagione di Saddam, ad esempio, significa evidenziare – anche senza fare un riferimento palese - il peso dell’Età del Ferro di cui narra Esiodo, un’epoca oscura, tragica, segnata dalla volgarità e dalla violenza.
I sei gradi di separazione funzionano a tutte le latitudini e collegano anche le varie epoche storiche, nelle quali gli antichi videro un disegno celeste che il Fato lentamente andava tessendo.
Ora, non sarà sempre facile seguire e amare questo blog "non specializzato" in un’epoca di specializzazioni che hanno, naturalmente, il pregio di restringere il campo e offrire identificazione.
Io però proseguo così, "in ordine sparso", come i pezzi d’oro del gioco di scacchi di cui narra la saga islandese di Snorri che i figli degli dèi dovranno pazientemente ritrovare.
A volte letteratura, a volte mito e leggenda. E costume. E cinema e televisione.
Altre volte ironia, altre ancora inquietudine.
Anche il mito, qua e là. Come quando abbiamo parlato di Artù (dico "abbiamo" perché penso a questo luogo come a una "locanda", come dice giustamente Marinella, in cui transitano viaggiatori).
La vita è complessa. E’ terribile e meravigliosa proprio per la ricchezza del groviglio di contraddizioni e stupori a cui ci consegna.
Ma sono convinta che lassù, le stelle, e gli dèi che simbolicamente le abitano, continuano a brillare nel cuore dei cercatori. Di qualunque natura.
Così oggi, in molti blog, posso dire di aver incontrato dei pezzettini di cielo.
Stanno nelle mani delle persone che con amore e pazienza cercano, ognuna a suo modo, di radunare i pezzi d’oro di quell’antico, sapiente gioco di scacchi.
QUANDO IL BAMBINO ERA BAMBINO
Quando il bambino era bambino
aveva un vortice fra i capelli
e non faceva facce da fotografo
Inizia così un celebre film di Wim Wenders, regista magico, raffinato, capace di far vibrare uomini e cose (pensiamo, oltre che al Cielo sopra Berlino, anche a Lisbon Story o ad Alice nelle città).
Questa filastrocca mi ha sempre affascinato, fin da quando la sentii, nel film, la prima volta.
E’ semplicissima eppure così acuminata, precisa, perfetta.
Quando è che ognuno di noi ha pettinato il suo "vortice fra i capelli"?
Quando ha smesso di essere spontaneo per fare "le facce da fotografo"?
Qual è l’istante in cui l’immagine pubblica acquista valenza, risonanza, comprimendo i sogni sbracati del bambino che pascola nel mondo masticando l’erba dei sogni?
Le facce da fotografo sostituiscono le smorfie da babbuino che hanno tutti i bambini. Purtroppo, l’anima, in questo caso, si nasconde.
Lo disse anche un vecchio a Tiziano Terzani, durante uno dei suoi viaggi infiniti. Non voleva essere fotografato perché la fotografia gli avrebbe rubato l’anima.
E invece oggi siamo tutti lì, pronti a sorridere, a fare "cheese" con tutte le facce da fotografo che il nostro repertorio riesce a tirar fuori.
Mi viene in mente anche il piccolo Useppe, l’indimenticato protagonista de La Storia, di Elsa Morante.
Useppe che affronta la guerra e i tedeschi con le sue manine piene di affetto e di trepidazione, con la sua malattia e il suo essere "strambo" che conquistava tutti, lettori compresi.
Se è vero che i bambini "conservano l’odore degli angeli", dovremmo forse imparare a farci piccoli piccoli per sbirciare nel loro mondo ritrovando quel vortice nei capelli.
E smettendo le nostre orribili, ridicole facce da fotografo.
RITRATTI DI FAMIGLIA
Etty Hillesum
Molte persone sono troppo ristrette, troppo chiuse nelle loro idee e così, educando i figli, li legano a loro volta.
Da noi era sempre il contrario.
Mi sembra che i miei genitori siano stati sempre più sopraffatti dall’infinita complicazione di questa vita, e che non siano mai stati in grado di fare una scelta.
Hanno lasciato troppa libertà di movimento ai loro figli, non potevano offrirci nessun punto d’appoggio, dato che non ne avevano mai trovato uno per sé; e non potevano contribuire alla nostra formazione perché non si erano mai trovati una forma.
Capisco sempre meglio il nostro compito: è quello di permettere ai nostri poveri talenti, dispersi senza forma e riposo, di crescere, di maturare, e di trovare la loro forma in noi.
Per reazione alla loro mancanza di forma, assenza di vera generosità, disordine e insicurezza – cattiva amministrazione, per così dire, e forse talvolta, anche se non ultimamente, aspirazione spasmodica verso unità, inquadramento, sistema.
Ma l’unica vera unità è quella che contiene tutte le contraddizioni e i momenti irrazionali: altrimenti finisce per essere di nuovo un legame spasmodico che fa violenza alla vita.
(Etty Hillesum, Diari, Adelphi)
Ho spesso letto e riletto, negli ultimi dieci anni, questa bellissima pagina di Etty Hillesum.
La trovo di un’intensità che ogni volta mi turba, mi commuove.
Etty è morta ad Auschwitz a trent’anni, eppure nei suoi scritti vibra una dilatazione della sensibilità che incrocia con felice movimento un passo intellettuale maturo, diretto verso vette del pensiero che i più fra noi non raggiungono mai.
In una pagina, una sola pagina, ci regala una lezione di umanità di cui dovremmo fare tesoro, come figli.
Chi di noi è diventato genitore a sua volta, non può fare a meno di notare l’assunto tremendo, consapevole ma mai affetto da livore, da cui parte Etty: inutile pretendere "una forma" da chi non ce l’ha.
E tuttavia non è educando successivamente i propri figli secondo schemi troppo rigidi, risultato di un’azione reattiva, contrapposta all’anarchia priva di forma, che si scansa il fardello dell’assenza.
Solo nella compassione, nella carità, si trova un approdo che è anche una nuova partenza.
Perché "ogni legame spasmodico è una violenza alla vita". A questa violenza, purtroppo, ci siamo abituati. Tutti.
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