CHE TEMPO CHE FAZIO…
Bravissimo, Fazio. Nessun dubbio.
Peccato però che inviti quasi sempre i suoi preferiti, trasformando le interviste in duetti a volte troppo ossequiosi, compiacenti, smielati.
Infatti domenica scorsa, dopo aver fatto la sua intervista politically correct allo scrittore ebreo David Grossmann, ha lanciato un appello a Celentano invitandolo nel suo studio, a sedersi sulla poltrona che a fine trasmissione viene regolarmente invasa da quella peste della Littizzetto che ci si arrampica come un babbuino.
Quando la bella Filippa (cognome?), statuina video-igienica ma di significato pulviscolare all’interno della trasmissione, ha domandato lumi su quell’invito, Fazio ha risposto, scherzoso, che lui invita solo “quelli che gli piacciono”.
Scherzoso fino a un certo punto, però…
Che tempo che fa è una trasmissione intelligente. Nessun dubbio. Sicuramente Fazio, insieme alla Bignardi, è il più bravo intervistatore attualmente intercettabile sul piccolo schermo.
Ma mentre la Bignardi, strega, inchioda con un sorrisetto smaliziato il suo intervistato di turno (ed è davvero in gamba), non esita a diventare “scorrect” se necessario (come quando, poco tempo fa, il salotto diventò un’arena in cui lei e la Palombelli si scornarono a suon di malcelate insofferenze reciproche). Fa finta di improvvisare, la Bignardi. In realtà sa bene, sa benissimo, dove sta andando a parare…
Unico neo: al di là delle interviste barbariche la trasmissione non è così incisiva, i brevi spazi di discussione non decollano mai veramente (sono un po’, questi spazi, come la sigaretta che a tavola riempie il buco tra il primo e il secondo).
Ma torniamo a Fazio.
Sì, ci piacerebbe vederlo più sfilacciato. Lui è simpaticissimo, brillante, ironico. Ma non si “sbottona” mai, a parte quando, nel duetto finale con la Littizzetto, finge imbarazzi e rossori.
La Littizzetto, invece, si sbottona anche troppo. E per fortuna.
Tra una risata e una parolaccia, nelle sue battute infila riflessioni corrosive, pungenti.
Come quando, sempre nell’ultima puntata, ironizzava sul menefreghismo che regolarmente accompagna gli scandali sollevati da Report, sempre documentati con certosina perizia. Ma che, l’indomani, finiscono nel dimenticatoio davanti alle caciare dei naufraghi di Simona Ventura o ai maghetti di Striscia.
A questo punto, però, ci piacerebbe che qualche intervista "cazzuta" e scorretta fosse realizzata da lei.
Magari proprio a Ratzinger, perché no?
DEMOCRATICA MORTE
La morte è forse l’unica vera democrazia possibile. Davanti a lei, nel momento del passaggio, siamo davvero tutti uguali. Tutti.
Peccato che oggi venga vista come un affronto al delirio onnipotente dell’uomo. Vero, l’eternità ha da sempre rappresentato una suggestione, però fino a qualche tempo fa la morte veniva accettata come evento ineluttabile. Passaggio verso un’altra dimensione, possibilità per la Vita stessa di essere, di accadere, di precipitare nello spazio e nel tempo.
Oggi invece viene combattuta, osteggiata, rinchiusa come un segreto indicibile dove nessuno lo può ascoltare.
Poveri vecchi, costretti a campare a ogni costo fino all’ultimo estremo possibile. Tirati indietro per i capelli, infilati nei tubi, imbottiti di medicine, di anestetici, defibrillati. Operati con quell"accanimento terapeutico" spacciato per amore di vita.
Se la vita la si ama davvero, la si lascia andare.
Non è disdicevole, morire.
Non è un peccato.
Né qualcosa di cui vergognarsi.
Soprattutto, dovremmo piantarla di cercare di prolungare all’infinito la nostra esistenza. Mai secolo fu più ostile alla morte dell’alba di questo millennio.
Pur di vincerla si lasciano in vita cadaveri, si prolunga il calvario dei vecchi che devono vivere, devono farlo per noi, per il conforto del nostro egoismo.
Ci vuole coraggio, certo. Ma come è bella – e naturale – l’immagine del vecchio indiano a capo di una tribù, seduto sotto un albero in attesa. Perché quello "è un buon giorno per morire".
E nessuno viene a imporgli una flebo. O gli mette il defibrillatore sul cuore.
IL BENE CHE FA MALE, IL MALE CHE FA BENE
Meraviglioso, irraggiungibile Martin Scorsese.
Il suo The departed è l’ennesima conferma di un talento assoluto del cinema.
Un narratore puro, che fa della regia strumento di racconti in cui la storia pura, "nuda", priva di orpelli tecnologici (quelli che oggi vanno tanto di moda nei film) viene affidata a una regia capace di scavare i personaggi, di incidere – come in una pietra – gli eventi.
Stavolta il film (due ore e venti di assoluto straniamento dal resto del mondo) racconta di due talpe – che hanno i volti di Leonardo Di Caprio e Matt Damon, con la loro bellezza non più imberbe che dona un tocco estetico alla indiscussa bravura (soprattutto DiCaprio, eccellente) – e della loro rispettiva infiltrazione nel mondo "altro", nemico. Quello dei malviventi e dei poliziotti, cioè.
L’eterna caccia di guardie e ladri diventa qui sublime rappresentazione dei labili confini tra Bene e Male, in cui ciò che sembra non è ciò che è.
Il poliziotto "buono" che gioca a fare "il cattivo" diventa il doppio di quello "cattivo" che gioca a fare "il buono", in una combinazione di sguardi, specchi e rimandi che fa pensare a un racconto di Borges, Il giardino dei sentieri che biforcano, in cui l’assassino e la vittima si inseguono finché, a un certo punto, si incontrano, sullo sfondo di ruoli "occasionali" e scambiabili nei piani dell’essere che governano il Tempo.
La guardia insegue il ladro e allo stesso tempo il ladro insegue la guardia, in una sospensione di attimi cruciali che sembrano il tentativo di evadere il destino.
Che si compirà, invece.
La scena – monumentale – in cui le due talpe Di Caprio e Damon si incrociano, mute, nei rispettivi telefoni cellulari, appese al filo del "sospetto" dell’altro che in realtà è anche una parte di noi, un doppio, appunto, un’ombra fatale che ci fa da contralatare e senza la quale nemmeno saremmo, è uno dei momenti più belli di questo cinema di inizio millennio.
Perché se scegliere il Bene o il Male è un’esigenza, accettare la convivenza delle guardie e dei ladri dentro di noi è impresa disperata, arrancante, impossibile.
Scorsese di diverte a mescolare le carte facendoci capire come l’illusione di un’apparenza sia come una porta che, se non procediamo, rimmarrà sempre chiusa.
Sembrare è facile. Anche fare lo è. Essere è invece molto, molto difficile.
Ma, soprattutto, accettare la coesistenza di Bene e Male, del ladro e della guardia, scaglia i nostri sonni nel pozzo degli incubi.
STUPEFACENTE NATURA
Se gli Argonauti cercavano il Vello D’Oro, gli psiconauti, alla ricerca del Vello Ebbro, oggi affollano gli smart shops. Si chiamano così i negozi "furbetti", letteralmente, che dall’America stanno arrivando anche in Europa.
Finita l’era dei pusher, delle squallide perlustrazioni notturne in "piazza", alla ricerca del pezzo di hascisch o delle pasticche, oggi si fa la spesa negli smart shops, dall’aria ecologica, che forniscono una serie di droghe naturali ai limiti della legalità.
Ecco allora che si può fare un trip fumando la salvia divinorum (peccato che il basilico non funzioni altrettanto bene, quello lo abbiamo tutti, in casa) o masticando foglie di betel. Oppure, ancora, estrarre la mescalina dai funghi di San Pedro.
Il bello è che si sono ispirati allo Stato, che mentre ci vende le sigarette ci avverte anche, in pratica, che ci sta ammazzando: i negozietti in questione propongono il fai da te per la coltivazione della marjiuana, mentre un cartellino recita di fianco ai semi: "ricordatevi che coltivare marjiuana è un reato".
Ora, non sarà certo una canna a fare di noi dei drogati. In fondo chi di noi non si è fatto qualche spipazzata almeno una volta? Magari colpito da Baudelaire, Kerouac o Castaneda? Magari in qualche amena serata giovanilistica, passata fra brufoli e alcol?
Certamente un "sano" ritorno alla natura è meglio delle droghe chimiche che continuano a infestare discoteche e locali.
Il problema, però, sono le dosi. Perché se il negozio è smart, magari chi acquista queste erbette magiche non lo è altrettanto. Magari è un deficiente.
Tra l’altro, diciamocelo, viviamo nell’era dei consumi in eccesso. Facile, quindi, abusare di qualche innocua fogliolina e farsi un sacco di male.
Il problema è che una volta, almeno, alcuni popoli usavano le droghe con una funzione rituale, sacrale. Come gli indiani d’America. Loro fumavano il calumet e prendevano funghi, ma occasionalmente e con un intento particolare, spirituale. E infatti con l’alcool fornito abilmente dagli "yankees" si rincoglionirono.
I poeti maledetti bevevano l’assenzio, la "fata verde", come lo chiamavano, per trarre ispirazione nell’arte. E già qui scivoliamo però già nell’abuso, nell’eccesso.
Quelli di Woodstock se non altro vivevano, nella loro illusione, il romanticismo di una ribellione, una rivoluzione verso un mondo che volevano cambiare.
Oggi, gli ex hippies che non lavorano in banca sono migrati verso qualche remoto paesino asiatico, o vivono come disadattati nella società che non hanno potuto cambiare.
Oggi, invece, persa ogni funzione sacrale, smarrito ogni addobbo romantico, ogni idealizzazione, rimangono i ragazzini che si "calano" allegramente le pasticche chimiche nel frastuono di una discoteca o in mezzo a un rave campestre.
Molto prosaico, senza nessuna funzione sacrale, nè nessuna voglia di espandere la propria coscienza (con buona pace di Timothy Leary e di Aldous Huxley) e neppure cambiare un mondo che offre troppe comodità. Insomma, lo sballo per lo sballo. Nessuno scopo artistico o tardo romantico.
La via di fuga dal mondo smette travestimenti o intenti diversi e diventa ciò che è. Stavolta, peraltro, vanno per la maggiore le pilloline che provocano solo balzi adrenalici per ballare più gasati e, probabilmente, scopare con più verve. Ma, anche qui, nessun aspetto sociale contro cui ribellarsi. Com’è demodè, oggi, Baudelaire, in quel fumoso caffè parigino, a versarsi l’assenzio per navigare nei suoi fiori del male insieme al lettore, "mon semblable, mon frère"…
BUONA DOMENICA AI DEFICIENTI
Buona Domenica ai deficienti.
Finita l’era agghiacciante delle domeniche di Costanzo, vero e proprio tormentone di banalità che, a confronto, facevano sembrare il Bagaglino un raduno di intellettuali e filosofi, arriva l’agguerrita Perego che non ci fa certo rimpiangere la pensione pomeridiana del suo predecessore domenicale.
Solite sculettate durante i balletti (ma che bei deretani esibisce sempre la nostra bella Domenica pomeriggio), duetto con quel provolone di Bettarini con cui la Perego intrattiene un reality mini-show con candidate dementi in cerca di accoppiamento (mediatico e non) con l’ex calciatore prestato al video, solito intrattenimento a pizza e fichi.
Fin qui, passa.
Non contenta, però, la Perego vuole anche emulare un po’ la zarina, Maria De Filippi, portando nel circo domenicale anche un gruppetto di adolescenti che dibattono su vari temi. Insomma, Amici di pomeriggio.
E passi anche questo.
Domenica scorsa, però, si supera ogni limite della decenza.
La Perego, alle prese con le sue velleità da giornalista ( se la tira da matti), convoca la madre di Jennifer Zacconi , la ragazza incinta di nove mesi sepolta viva, sei mesi fa, da Niero, padre del bambino che aspettava.
Lui per non avere fastidi e turbare l’armonia della sua famigliola (è sposato con figli) la massacra di botte in un campetto e poi la sotterra viva.
Un episodio di cronaca che ha interrotto lo stupido stress della nostra giornata.
Un episodio reso ancora più duro dalla pubblicazione, su un quotidiano, della foto del bimbo mai nato e già morto che la nonna, orfana di figlia e nipote nel giro di una mezz’ora, aveva fatto vestire con uno di quegli abitini che si mettono ai neonati. Cuffietta bianca, camicia.
Una scelta che ha scatenato dibattiti per la crudezza del gesto, dettato però anche dall’intenzione di mostrare a tutti gli effetti come quel bambino fosse già “vivo”, reale, e non solo un feto.
Non aveva autonomia giuridica ma tuttavia, tuttavia era già autonomo dal punto di vista dell’esistenza. Aveva scavalcato il confine tra il nulla ineffabile e i giardini della vita.
Per questo la madre di Jennifer ha pubblicato le foto, e ora si batte per una doppia condanna di Niero. Due omicidi, non uno.
Insomma, una faccenda complessa, delicatissima, che ci schiaffa davanti alle nostre convizioni (un bambino non nato è un bambino o solo un feto?), che magari costringe a interrogarci sulla solidità di alcune posizioni (siamo davvero capaci di assolvere? o ci sentiamo vicini, magari anche solo per un istante, per la durata di uno scatto dell’istinto, della nostra più fragile umanità, a questa donna che afferma il suo limite dichiarando che non ce la fa a perdonare, che vorrebbe tanto la pena di morte per chi ha interrotto sua figlia).
E ci turba, ci commuove. Ci obbliga a riflettere.
Bene, un argomento così delicato, pieno di domande, di punti interrogativi dalla risposte difficili, viene affrontato nel circo della Perego insieme ai suoi giovani Holden.
La madre di Jennifer rievoca l’omicidio in mezzo alla platea di adolescenti “tutti brufoli e ciccia” che si improvvisano opinionisti e che devono, poverini, dire cose intelligenti affrontando in dieci minuti (questi i tempi televisivi concessi al dibattito) la morte di Jennifer e le sue conseguenze, giuridiche e non.
La Perego incalza, modera, zittisce e sprona alla domanda, con la stessa lucida fibrillazione di Emilio Fede quando si metteva in contatto con la sua leggendaria Silvia Brasca nei concitati giorni della Guerra del Golfo.
C’è anche Vera Slepoj, psicologa mediatica riesumata per l’occasione (era un po’ non si vedeva sul tubo catodico) che tenta di parlare dell’idealizzazione amorosa ma che viene subito zittita dalla Perego che insiste nel valzer delle banalità offerto da lei e dai suoi ragazzi.
Si dà arie da grande cronista mentre in realtà abbatte il già scarso livello delle nostre quote rosa nella televisione (e non è che quelle azzurre eccellano…)
In mezzo a tanto fracasso, la madre di Jennifer mi sembra un’altra vittima. Vittima dello starnazzare della televisione, vittima dei meccanismi spietati di uno spettacolo che fa della morte un pretesto per fingere impegno. Per fingere discussione.
Si butta di tutto in tv, oggi, e una ragazza sepolta viva si alterna, nei pomeriggi domenicali, alle discoteche o al diritto di far tardi la sera (la Perego affronta con la sua banda le tematiche giovanili).
Intorno alla madre di Jennifer si parla, si parla veloci, ci si azzuffa nei tempi stringati concessi, mentre il volto tristissimo di questa donna, quasi imbarazzato da tanto frastuono, continua a raccontare di un dolore sfiancante.
Ma come si fa a non provare imbarazzo davanti a tanta idiozia?
Come si fa a liquidare una storia così in dieci minuti?
Con un dibattito demenziale della durata di un nanosecondo tenuto da ragazzetti in cerca di un momento di gloria, pilotati da una cronista della superficialità e del pettegolezzo?
Insomma, mi pare che Jennifer muoia di nuovo ogni volta che se ne fa un uso squallido, strumentale. Ci sono altre trasmissioni, semmai, per farla rivivere nella memoria.
Il nuovo programma di canale 5 tenta perfino, come in questo caso, di risollevare i tassi impegnati delle domeniche pomeriggio che, a quanto pare, invece sono destinate a proseguire all’insegna della demenza. In realtà, fa solo audience.
Meglio il sano culo delle ballerine, più “onesto”.
Perego, Buona Domenica ai deficienti….
MALINCONIA E CREATIVITA’
Malinconia, Dürer
Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle corrispondenze tra psicologia e astrologia, tra umori, temperamenti, pianeti, costellazioni, lo statuto di Mercurio è indefinito e oscillante.
Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario.
Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero.
Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute.
(Italo Calvino, Lezioni americane)
L’incisione di Dürer evoca – in modo assai suggestivo – la malinconia. Ma cosa rappresenta nella nostra esistenza?
Uno stato dell’essere, certamente. Poi?
Cosa si fa di questa inquietudine che ci scava dentro?
Lo sanno bene poeti, pittori, narratori.
Dalla malinconia nasce la misura della profondità. Non a caso l’incisione allude anche, nei suoi molteplici significati ermetico-alchemici, al dio Saturno.
E a Saturno gli Antichi facevano corrispondere, fra i metalli, il piombo. Il metallo più pesante.
Dunque la malinconia è piombo sull’anima che vorrebbe invece, per sua natura, essere aerea.
Eppure è dallo scavo in profondità che poi si sale verso l’alto, verso le dimensioni rarefatte in cui dispiega il nostro battito d’ali.
Senza malinconia non c’è profondità, dicevamo. E senza profondità non esiste creatività.
Ogni genio, ogni artista vive insieme alla malinconia che si rintana in un cantuccio, come un’ombra furtiva ma costante. A volre esplode, altre sonnecchia. Ma è sempre lì.
Passa le sue giornate insieme a questa compagna ingombrante che assedia il vivere costringendo alla riflessione, all’introversione, al ripiegamento in sé stessi da cui si ricavano i tesori nascosti.
E se l’amletico dubbio dell’ essere o non essere perseguita l’esistenza del malinconico, quello stesso dubbio diventa un quesito insistente che si trasforma in un bivio: rifiutare di essere oppure trovare strade alternative, possibilità nuove di esistenza, ponti gettati verso il battesimo di diverse modalità.
Sottile è il limite tra malinconia e masochismo, tra introspezione e resa. In realtà la malinconia è una spada, un’arma affilata con cui tagliamo le ostruzioni della superficialità. Viverla senza farsene fagocitare è la sfida di ogni scintilla del genio.
E dietro ogni umorismo brillante, ogni magnifico scatto dell’ironia, si nasconde un pensiero uggioso.
Come fu per Chaplin. E per Gassman. E per tutti coloro che fecero della malinconia un moto creativo.
Per alcuni divenne arte. Per altri, sublime ricerca spirituale.
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