La morte è forse l’unica vera democrazia possibile. Davanti a lei, nel momento del passaggio, siamo davvero tutti uguali. Tutti.
Peccato che oggi venga vista come un affronto al delirio onnipotente dell’uomo. Vero, l’eternità ha da sempre rappresentato una suggestione, però fino a qualche tempo fa la morte veniva accettata come evento ineluttabile. Passaggio verso un’altra dimensione, possibilità per la Vita stessa di essere, di accadere, di precipitare nello spazio e nel tempo.
Oggi invece viene combattuta, osteggiata, rinchiusa come un segreto indicibile dove nessuno lo può ascoltare.
Poveri vecchi, costretti a campare a ogni costo fino all’ultimo estremo possibile. Tirati indietro per i capelli, infilati nei tubi, imbottiti di medicine, di anestetici, defibrillati. Operati con quell"accanimento terapeutico" spacciato per amore di vita.
Se la vita la si ama davvero, la si lascia andare.
Non è disdicevole, morire.
Non è un peccato.
Né qualcosa di cui vergognarsi.
Soprattutto, dovremmo piantarla di cercare di prolungare all’infinito la nostra esistenza. Mai secolo fu più ostile alla morte dell’alba di questo millennio.
Pur di vincerla si lasciano in vita cadaveri, si prolunga il calvario dei vecchi che devono vivere, devono farlo per noi, per il conforto del nostro egoismo.
Ci vuole coraggio, certo. Ma come è bella – e naturale – l’immagine del vecchio indiano a capo di una tribù, seduto sotto un albero in attesa. Perché quello "è un buon giorno per morire".
E nessuno viene a imporgli una flebo. O gli mette il defibrillatore sul cuore.