CRONACHE DI UN ERRORE ANNUNCIATO
AVVISO AI NAVIGANTI
AGGIORNAMENTO DI GIOVEDI’ 26 OTTOBRE:
NON SI SA COME, MA DA VERONESI SI E’ ARRIVATI ALLA MELA DI EVA.
LA PADRONA DEL BLOG, INCURIOSITA, ATTENDE UN ALTRO GIORNO PRIMA DI INSERIRE UN ALTRO POST. VUOLE VEDERE DOVE I SUOI OSPITI VANNO A PARARE.
E IN OGNI CASO VERONESI VAL BENE UNA MELA…
Oppure sono in preda al panico senza neanche essermene accorto, e questo consegnarmi al mio peggiore presentimento ha a che fare con quel genere di letali assurdità che si compiono nell’incombere di un pericolo, quando il terrore si impossessa del nostro cervello e risolve il problema facendoci sentire protetti da quel pericolo, invulnerabili, al sicuro, con una sensazione intensissima e naturalmente del tutto fallace che ci spinge a fare l’esatto contrario di ciò che andrebbe fatto (i fagiani terroirzzati dall’incendio del bosco che invece di fuggire dal fuoco ci si tuffano dentro; Stanlio che, inseguito dall’assassino, si infila un secchio in testa perché non sa dove nascondersi) o anche a non fare proprio niente, a restare immobili ad attendere l’arrivo dell’irreparabile con l’assurda speranza che quando arriverà non sarà così irreparabile.
(Sandro Veronesi, La forza del passato)
Sul fatto che Veronesi sia uno degli scrittori migliori che abbiamo non c’è alcun dubbio. L’ultimo premio Strega, quello di Caos Calmo, conferma qualcosa che già sapevamo da tempo: scrive dannatamente bene. E narra come pochi sanno fare.
Soprattutto, la sua penna sempre agile, acrobatica, sospesa fra ironia e malinconia, sentimento e cronaca asciutta, traccia nelle architetture dei suoi romanzi dettagli ricchi di umanità, che mettono a fuoco la corruzione, la fragilità e i dilemmi del nostro vivere.
Come in questo passaggio letterario, estratto dal bellissimo La forza del passato.
Quante volte ci siamo consegnati ai nostri errori fatali? Quante volte, giunti sul limitare del nostro destino, abbiamo chiuso gli occhi davanti a un pericolo fingendo che non fosse tale?
Come ipnotizzati, guidati dall’incantesimo della nostra Morgana interiore, abbiamo percorso le strade dei nostri errori con la convinzione di scansarne le conseguenze. O, peggio, non abbiamo voluto vederli, li abbiamo abitati con le illusioni, ricamati con vane speranze, illuminati con il fuoco fatuo dei nostri desideri. Altre volte abbiamo semplicemente seguito la traccia del nostro disco rotto, quello che si arresta sempre sullo stesso punto e ne ripete la strofa. Non importa quanto dolore provochi, quanto la strofa sia urticante. Lo facciamo e basta. E mentre ripercorriamo la stessa strada ci raccontiamo un altro percorso perché, come per lo Stanlio di Veronesi, il secchio infilato in testa ci mette al riparo dalla paura impedendoci di guardare cosa succede davvero. Vogliamo sbagliare, e per farlo dobbiamo convincerci che un pericolo non è tale, che un errore è invece il baluginare di un nostro successo.
Chissà cosa attira l’uomo nel vuoto, cosa lo fa arrancare verso i suoi errori, magnete inseparabile dalla calamita fatta della sua stessa carne, dei suoi stessi pensieri.
Invece di fuggire andiamo incontro alla sorte. E quando ci sfiliamo il secchiello dalla testa è troppo tardi. Troppo tardi.
TEMPI CHE CORRONO
Ma dove vai? Sì, tu, dico a te. Fermati. Come, scusa? Dico, dove vai? Sparito nel traffico.
Con i tempi che corrono, non c’è più tempo per nulla.
Tutto in fretta, tutto accelerato. Come nelle comiche di Stanlio e Ollio. Come in un film di Charlie Chaplin. Quello sulla tristezza dei tempi moderni.
Ma dove stai andando? Ascoltami!
Mi alzo mi vesto mi lavo corro nel traffico con la mia macchina arrivo in ufficio apparecchio il lavoro – efficiente, veloce, supersonico – sparecchio per la pausa pranzo pausa impiegata per l’ora di palestra ( i carcerati si prendono l’ora d’aria, noi ci rinchiudiamo in una stanza puzzolente a sgomitare insieme a gente sudata) ricomincio a lavorare faccio la mia porca figura con il multitasking perché mentre rispondo al telefono mando una mail e mi metto pure lo smalto alle unghie mentre sull’altra linea concordo con mia madre il parcheggio pomeridiano della bambina che bello essere una donna emancipata del terzo millennio senza cravatta ma con i peli perché mannaggia ho scordato l’appuntamento dall’estetista e ora sembro un cane bastardo no bastardo è quello stronzo del capo che mi fa fare sempre lo straordinario ecco lo smalto è asciutto la mail l’ho mandata esco fuori ma rimango dentro perché sono imbottigliata nel traffico da un’ora "stronzi! stronzi devo correre! stasera avevo deciso di uscire a cena! era la mia serata di svago!" e questa fila mi impedisce di arrivare in tempo all’appuntamento C&C "cena e cinema" il classico da città dovrebbero farlo sulla metropolitana così mangiamo sui seggiolini e sullo schermo vediamo il film ma non perdiamo tempo! ecco che invece il mio tempo corre salto giù a fare la spesa aggredisco la signora che fa la furbetta e mi passa davanti sgomito arranco alla mia postazione pagobancomat oddio ho scordato il deodarante "Posso signora?" un secondo solo mentre la fila mi guarda con occhi di sangue voilà due minuti avere visto? finalmente a casa…a casa!…doccia veloce lavaggio di denti vestito pulito di lavanderia e zac! di nuovo fuori in macchina mentre al semaforo cancello i messaggi sms di tutta la settimana accidenti il ritardo non faremo in tempo a vedere il film cena di corsa sempre di corsa spintoni alla fila per il biglietto un due tre stella! tutti al loro posto magicamente inizia il film…
Scusa? Perché non ti fermi? Non ti fermi mai?
Con i tempi che corrono non posso. Non ora. Se mi fermassi mi accorgerei che sono morto.
TEMPESTE
Le grandi angosce dell’animo sono sempre dei cataclismi.
Quando si verificano il sole s’inganna e le stelle si turbano.
Per ogni anima sensibile arriva sempre il giorno in cui il Destino dipinge un’apocalisse di angoscia: come se i cieli e l’universo si rovesciassero sul nostro sconforto.
(Fernando Pessoa, Il Libro dell’inquietudine)
E che cosa succede quando il cielo e l’universo piovono sul nostro sconforto?
Succede che siamo obbligati a misurare i nostri limiti. Non c’è anima sensibile che non conosca l’angoscia, che non verifichi l’assenza di quelle certezze sulle quali costruiamo la nostra vita pericolante.
Eppure è nell’assenza che si procede. Si avanti per vuoti. Quasi mai per pieni.
Non si tratta di un inno al masochismo, come sarebbe facile pensare, nè di scansare la gioia come se si trattasse di un acciacco stagionale (e chi mai lo farebbe?).
Si può però sapere che nell’inverno del nostro scontento (bellissimo titolo di un libro di Steinbeck) germogliano i frutti della maturazione.
Se sappiamo curarli, ovviamente. Riconoscerli, amarli. Altrimenti rimarremo sospesi nel limbo infinito di un vano lamento, di un tedioso rimuginare sulle nostre ansie che non diventeranno mai carburante per il percorso da compiere.
Dall’attrito nasce la scintilla. Solo da lì.
PAROLE E REALTA’
In un certo senso, credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi.
Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.
(Italo Calvino, Leggere, scrivere, tradurre)
Nota di bordo:
É on line il N 2 di Silmarillon. Vai su www.silmarillon.it.
Il tema del dossier di questo numero: Il viaggio dell’eroe.
Viaggio fisico, metaforico, interiore, geografico, sottile, grossolano. Fuga, ritorno, mobilità e immobilità. Incursione nelle valenze della migrazione…
SANTORETTE DI MONTECRISTO
Santoro come Platinette? Forse, a guardare la tinta platinata con cui si ripresenta in Rai. E non solo per quello assomiglia alla Platinette nazionale. Almeno per quanto riguarda l’ultima puntata andata in onda. Tema della puntata: la mafia.
Il giornalista inviato da Anno Zero insiste nell’intervistare, all’interno di un’edicola, un signore in odore di collusioni mafiose.
Segue un parapiglia in cui il giornalista viene invitato più volte a uscire, prima con le buone, poi con una infastidita via di mezzo, poi in mezzo a urla e spintoni.
E lui no, ritorna dentro con la sua telecanera, marca, incalza.
Più che nel programma di Santoro sembra di stare a Striscia la notizia, con Fabio e Mingo che tartassano pubblici amministratori e sindaci indolenti. Oppure durante una puntata delle Jene, con le due carognette che pur di perseguitare il malcapitato si lanciano in voli da Superman.
O sembra, peggio ancora, di assistere ai sensazionalismi di Platinette, che appunto abbiamo citato, che non si arrende prima di aver strappato un pettegolezzo.
Ma la mafia, appunto, non è un pettegolezzo. É faccenda seria.
E allora perché scivolare in questo giornalismo da avanspettacolo che per far vedere "che c’è" sculetta come una prostituta a Tor di Quinto?
Non ne abbiamo bisogno, grazie. Brutto scivolone, Santoro. A volte la voglia eccessiva di rivalsa tira cattivi scherzi. E il giornalismo serio, d’inchiesta, finisce per diventare un bisogno asservito alla voglia di dimostrare, a tutti i costi, che siamo tornati.
Quando ti guardiamo, tutto sudato nello studio di Anno Zero, tornato dopo "l’esproprio borghese", pensiamo che le tue passate e sacrosante ragioni rischiano di diventare solo livore, voglia estrema di un riscatto che in realtà può venire solo dall’esercizio del buon giornalismo. Quello che una volta sapevi fare. Quello che, per quanto mai certamente simpatico, portavi avanti in modo brillante ai tempi di Samarcanda.
Poi sempre più insolente a causa del Potere, sempre più assoggettato all’Anello.
Sicuramente sei preferibile a quel secchioncello di Floris, con quell’aria da studente modello che non si scuce mai troppo, con quel sorrisino saputo di chi ha rubato la marmellata (quella di Santoro?) e se la gode.
Ma ora, caro Santoro, anzi Santorette, in omaggio al platino che sfoggi sulla cucuzza, rischi che la tua voglia di vendetta ti faccia inciampare nel terreno in cui di solito ti muovevi con agio indiscusso.
Non sei Edmond Dantes. Il conte di Montecristo lasciamolo alla letteratura.
La vendetta migliore in questo caso è la bravura. É il fare un giornalismo efficace. Come quello dei tuoi colleghi di Report, che preferiscono spulciare con ostinazione mille carte, studiare a menadito gli incroci e i risvolti di una faccenda, verificarne tutte le possibili connessioni, facendo onore al giornalismo d’inchiesta.
Sono molto più aggressivi loro di quel salamelecco del tuo giornalista che stressava il tizio che non voleva rispondere (manco si fosse trattato di un personaggio di spicco, poi). Sono molto più perniciosi. Più insidiosi.
Insomma, il livore non porta da nessuna parte. Consuma soltanto l’anima.
Anno Zero rischia di essere il tuo personalissimo 11 settembre se non molli i torti del passato per guardare il presente. Senza agitarti, facendo solo il tuo mestiere. Lo sai fare. Altrimenti qualcuno finirà per dire: Meglio Fabio e Mingo che Santorette di Montecristo…
E non è il caso davvero.
I REGNI DI ARTU’
Quando ero indolenzito, o addolorato, o in preda alla confusione, tornavo al magico libro.
I fanciulli sono violenti e crudeli, e buoni, e io ero tutte queste cose, e tutte queste cose si trovavano nel libro segreto. Se io non riuscivo a scegliere la strada al bivio fra l’amore e la lealtà, non ci riusciva nemmeno Lancillotto. Potevo capire la tenebra di Nordred, perché si trovava anche in me.
E in me c’era qualcosa di Galahad, ma forse non abbastanza. Esisteva in me, tuttavia, la sensazione del Graal, profondamente radicata, e forse esisterà per sempre"
(John Steinbeck, prefazione a Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri)
Non a caso Steinbeck è un eccellente scrittore. Non poteva trovare infatti modo migliore per spiegare la sua fascinazione – antica, radicata nelle terre remote dell’infanzia – per le versioni medievali della leggenda di Artù, che a un certo punto riscrisse usando un linguaggio contemporaneo.
Le suggestioni delle saghe arturiane, al di là di alcuni scempi commerciali (televisivi, editoriali), sembrano valicare la porta del Tempo.
Vero, ognuno di noi ha in sé pezzettini di Artù, di Morgana, di Viviana e di Mordred.
Siamo onesti, coraggiosi, luminosi, e allo stesso tempo manipolatori, vigliacchi, umbratili.
La lotta fra le nostre contraddizioni fa parte della vita. La vita stessa è conflitto.
Come in ogni mito e leggenda, il Bene e il Male che si combattono nelle vicende arturiane non sono altro che immagini esterne della nostra quotidiana battaglia interiore.
E se vorremmo tutti essere come Lancillotto, ci troviamo invece a fare i conti con Mordred. E quando proviamo a estrarre la spada dalla roccia questa non ne vuole sapere, e rimane ferma, incastrata, a ricordarci, con la sua fissità, le nostre fragili migrazioni.
Eppure continuare a cercare di sollevare Excalibur, idealmente, è impresa nobile.
Perché ognuno di noi, in fondo, aspira a usare quella spada per lanciarsi nelle avventure in cerca del Graal.
E gli echi di cavalieri, di dame e di maghi, di regni incantati governati dalla giustizia ancora oggi ci sussurrano le loro storie.
Spingendoci a cercare.
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